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Napoli a occhio nudo: Lettere ad un amico

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LETTERA V.
Dove si parla della festa di Montevergine

Napoli, 21 maggio 1877.

Una di queste mattine, avanti giorno, fui destato in sussulto da una forte botta d'arme da fuoco esplosa a pochi passi dalla mia casa. Mi alzai sul letto; stetti un po' in orecchi… silenzio perfetto. Un suicidio! pensai, e il cuore mi batteva forte forte, immaginandomi la vittima là, in mezzo alla via, boccheggiante nel proprio sangue. Che faccio? mi vesto? vado alla finestra? corro nella via? e intanto rimanevo inchiodato sul letto a pensare. Chi sa? qualche amore sfortunato… qualche cambiale in scadenza… qualche… Un altro colpo sparato proprio sotto la mia finestra, mi fece fare uno schizzo che mi alzò un palmo su la materassa. Due omicidj! e nel tempo stesso udii dei passi accelerati nella via che nel momento mi fecero credere ad una aggressione, ma il non aver udito nessun grido, nessun lamento… Un altro scoppio più forte dei primi! Oh! tre omicidj poi a quest'ora mi cominciavano a parere un po' troppi! Ma pure tante esplosioni in così breve spazio di tempo, a quest'ora… Mi parve sentire qualche leggiero rumore nella camera accanto, dove dormiva la mia padrona, e chiamai: – Donna Maria? – Donna Maria, avendo supposto la ragione della mia chiamata, dètte in un solenne scoppio di risa e mi domandò: – Avete avuto paura? – Sì; o che è stato? – Fanno allegria per la festa di Montevergine, non temete di nulla. – Montevergine… Montevergine! Non occorse che mi dicesse altro. Avevo tanto parlato e sentito parlare di questa festa e tante volte avevo fatto proponimento di andarvi, che pochi minuti dopo ero al tavolino con la candela accesa davanti, l'orologio da una parte, l'orario delle strade ferrate dall'altra e il lunario nel mezzo facendo studj comparativi, dei quali ognuno può intendere facilmente la profonda gravità. Erano le 4; il treno per Laura ed Avellino partiva alle 5¼, un po' di colazione trovando un caffè aperto bisognava farla in tutti i modi, dunque non c'era tempo da perdere. – Che vi levate già? – mi domandò la padrona, sentendomi romicciare per la camera. – Vado a Montevergine, Donna Maria. – Fate bene; Dio v'accompagni. – V'occorre nulla di lassù? – Dite una Salve Regina anche per me a quella bella Madonna. – Fate conto d'avergliela già detta da voi. – Dio ve ne renda merito. – Addio, Donna Maria. – Stateve buono. – E mi sbacchiai dietro l'uscio di casa.

Posta a guisa di sella su la groppa di una montagna a sei chilometri circa da Avellino è la pittoresca borgata di Mercogliano notabile anche storicamente per il doloroso ricordo dell'eccidio che lassù fu commesso nel 1799 di un drappello di soldati dell'infelice Championnet, dei quali si trovano anche ora le misere ossa scavando negli orti del villaggio, e per la morte che vi trovarono nel 1821 gli ufficiali napoletani Morelli e Silvati, i quali, essendo corsi con la loro truppa a dar man forte ai Carbonari colà riuniti, furono presi dopo un breve combattimento e fucilati all'istante su la piazza che ora porta i loro nomi onorati. Ah! quanto sangue è costata questa Italia alla canaglia, perchè se la godessero poi le persone per bene! ma lasciamo correre e diciamo piuttosto che la Badia di Montevergine, la quale sta sopra a Mercogliano in vetta ad un picco di granito, ha pure una storia ed una leggenda assai degne di nota.

Di lassù, dall'antico Mons Virgilianus, dove nei tempi pagani sorgeva un tempio a Cibele ridotto poi a chiesa cristiana, fu nell'anno 1497 portato in Napoli il corpo di San Gennaro, che dal cardinale Caraffa venne poi proclamato protettore della città, facendolo succedere così con la sua boccetta di sangue a Virgilio mago, ed all'altra boccetta di Porta Capuana tenuta fino a quel tempo come il palladio della città.

Nella chiesa di Montevergine trovansi ora esposti all'adorazione: una immagine bizantina di Madonna dipinta, come dicono, da San Luca ed il braccio col quale il santo la dipinse, portativi nel 1310 da Caterina II di Valois, reduce da Costantinopoli, che ivi è sepolta con suo figlio.

Questo è il Montevergine, verso il quale io m'incamminai tutto allegro e curioso e dove per tre giorni consecutivi accorrono ogni anno con sfarzo clamoroso di cavalli, di veicoli, di vesti, di provvisioni da bocca e, se vogliamo, anche di devozione, venti o trentamila popolani grassi di Napoli.

Arrivato ad Avellino, dopo avere attraversato allegre e feraci campagne, coperte d'una vegetazione quasi tropicale e dove, in mezzo ad una fantasmagoria di quadri uno più dell'altro pittoresco, altro non sentivo mancarmi che il mare ed il Vesuvio, presi appena tempo per dare una occhiata alla graziosa città, perchè il tempo minacciava un po' d'ogni cosa, con apparato solenne di vento, fulmini e tuoni, e insaccatomi solo in una discreta carrozzella, pronunziai al vetturino la magica parola, per la quale da un'ora mi seguiva a passo a passo come la mia ombra: – a Mercogliano! – D'Avellino non posso dirti quasi nulla, perchè ebbi appena il tempo di girarla a corsa per non correre il pericolo di trovarmivi imprigionato dal pessimo tempo. È una piccola, ma ridente città, che sorge in mezzo ad un ubertoso altipiano incassato fra montagne scoscese e severe. Il vino vi è buono, l'aria eccellente, le strade ariose e assai bene selciate; il clima mite e gli abitanti non lo so. Vi sono due belle piazze, qualche monumento ed un magnifico viale alberato che serve come pubblico passeggio, e per il quale il mio Automedonte si slanciò a trotto precipitoso per arrivare, se era possibile, a Mercogliano prima della burrasca che verso sera ci rincorreva brontolante e minacciosa. – Hai un gran bravo cavallo! – Eccellente introduzione per cattivarsi l'animo d'un vetturino, quando si vuole attaccar discorso. Mi accennò di sì con un sorriso angelico e con un dolce movimento della testa.

Avendo così di volo sentito dire della ruggine che esisteva fra Mercoglianesi ed Avellinesi, volli tastare il mio egregio Febo, per passare meno peggio il tempo e: – E tu sei d'Avellino? gli dissi. – Credei ad un tratto d'avergli domandato: – Siete voi cristiano? – perchè a bruciapelo mi rispose un – Per grazia di Dio – da buttarmi in terra. Ah! è inutile: se hai bisogno di dieci campanili, sbuzza dieci Italiani e gli avrai subito con le campane e tutto.

– E Mercogliano, dimmi, è veramente un bel paese? —

– Lo vedrete.

– Ma a te piace, vi staresti volentieri?

– Io! – Ma quell'io lo disse con un movimento tanto energico di tutta la persona, che la cuspide del campanile gli deve aver battuto di certo nel palato.

Così seguitammo un pezzetto a parlare di varie cose e stetti con grande attenzione ad ascoltare i suoi racconti, dei quali il più bizzarro mi parve la storia di un certo santo, di cui ho dimenticato il nome e che, temporibus illis, fu dai Mercoglianesi rubato a quelli d'Avellino per gelosia de' gran miracoli che faceva. Ma l'onesto taumaturgo, per mostrare il suo sdegno a coloro che avevan commesso il sacrilego ratto, seppe rifiutarsi con tale insistenza alle preghiere de' suoi nuovi devoti, che finalmente i poveri Mercoglianesi, inaspriti fino al trabocco, lo rimandaron via ipso facto, fra i fischi e le sassate della plebaglia, che lo rincorse facendogli dietro la bajata. —

Ma l'originalità della nostra conversazione giunse al colmo, quando il mio nobile auriga mi si confessò di punto in bianco ateo.

Ateo! Ah! come me la godo, come me la godo! o di dove diavolo è scaturito questo Lucrezio a cassetta? Ma un ateo tutto d'un pezzo con la frusta in mano mi pareva impossibile, ed infatti, dagli, picchia e mena, fruga di qua, fruga di là, ed ajutato dai primi goccioloni e da una razzaia di saette che cominciò a serpeggiarci su la testa e d'intorno, la magagna la trovai, facendogli confessare che per San Modestino, quel santo medesimo che fu scacciato tanto brutalmente da Mercogliano, ora me ne rammento, aveva una devozione speciale. – Per lui solo, veh! – Ah! s'intende bene, – risposi io; e intanto che l'uragano ci pigliava nel mezzo, lo vedevo trinciare segni di croce e scappellature, bada davanti, ad ogni saetta che guizzava come una lingua d'aspide intorno alla sua persona sacrilega. – Ah! sciagurato, che cosa hai fatto! – Che ho fatto? – Guarda come siamo conciati per colpa tua! guarda che grandine su i raccolti di questi poveri cafoni che avrebbero ragione di mangiarti il core se sapessero… – Ah! Madonna, Madonna santissima di Montevergine! – Che è stato? – Una saetta aveva picchiato proprio in un albero alla distanza d'una ventina di passi davanti a noi. Il cavallo s'era fermato a secco, il mio egregio ateo era sceso da cassetta con un gran lancio ed era venuto a rifugiarsi sotto il mantice accanto a me, tutto tremante dalla paura e masticando giaculatorie precipitosamente. – E ora seguiterai sempre a non credere in nulla? neanche in quest'acqua che pare il diluvio universale? – Credo in ogni cosa, signore, credo in ogni cosa. – E allora come mai dianzi ti vantavi tanto? – Si fa per dire, signore, si fa per dire. – E il mio egregio ateo, modificato sotto l'azione del fulmine e ridotto ozono credente da ossigeno ateo che era, mi raccontò che novantanove per cento la causa di quell'uragano era qualche birbante che aveva portato seco della carne a Montevergine. – Come, come! a portar carne a Montevergine…? – Sì signore, a portar carne lassù, viene la tempesta. – E ci credi? – Signore, è la verità! – Sei un eroe! e giacchè è smesso di piover forte, torna al tuo posto e andiamo, chè non voglio far notte per la strada; animo! —

E il buon Lucrezio tornò mogio mogio a cassetta, tutto tremante, seminando i frasconi fradici come uno zimbello cascato nel beriòlo.

Arrivammo sani e salvi a Mercogliano che il cielo s'era rifatto tutto sereno, e dopo avere attraversato il paese per quasi tutta la sua lunghezza, in mezzo ad una enorme folla impillaccherata dai piedi alle punte dei capelli, giunsi alla casa dei miei ospiti, dove fui ricevuto in un modo per me anche troppo lusinghiero. Queste eccellenti persone che non mi conoscevano nè punto nè poco, appena ebbi loro mostrato un piccolo talismano in forma di biglietto di presentazione, mi accolsero con quella ospitalità larga, piena e spontanea, la quale, almeno per noi persone civili, è diventala ormai qualche cosa che va cercata come il fungo porcino: O ne' boschi o nulla. – Fate il vostro comodo, signore, e finchè vi piacerà trattenervi con noi, sarete parte della nostra famiglia. – Così mi disse il capo di casa, lasciandomi su la soglia della cameretta che mi aveva destinata. – Io conservo di queste care persone il più affettuoso ricordo. —

 

La vetta dell'Appennino, sulla quale è situata l'Abbazia di Montevergine, era l'unico mio scopo, ma fino alla mattina dipoi non mi era possibile andare, essendo già vicina la notte.

Mostrai allora desiderio di scendere in paese ed infatti accompagnato da' miei buoni ospiti, me n'andai a dare una occhiata al grosso villaggio di Mercogliano e ad ammirare la folla, che tumultuando per le vie e crapulando per le case e per le bettole, si preparava umanamente allo spirituale viaggio. Il trambusto che regnava allora nell'unica via lunga, storta e scoscesa, era spaventoso. A molte finestre sventolavano bandiere con immagini di santi, iscrizioni e rabeschi, le quali indicavano sfida alla folla da parte dei così detti poeti improvvisatori, dei quali ogni decorosa comitiva ha il dovere di portar seco almeno uno da Napoli, perchè canti le lodi delle sue donne e de' suoi cavalli, e perchè descriva le avventure della gita, e le scarrierate e le strippate fatte lungo la via, difendendosi poi dagli attacchi di chi negasse la verità di quanto egli va cantando. Alcuni di questi poeti, seduti sui davanzali delle finestre, con le gambe spenzolate, il viso acceso e il bicchiere alla mano, erano già alle prese con la marmaglia, la quale applaudendoli se arguti, o fischiandoli se sciocchi, berciava dalla via e smanacciava alternativamente e senza riposo. E in mezzo a tutto quel frastuono, non un suono piacevole, non una voce simpatica, un'armonia di strumento gradito che rallegrasse gli echi della pittoresca montagna! Rumore, rumore, eppoi rumore, e in mezzo a questo rumore: insegne di venditori, cartelloni di saltimbanchi, tele dipinte di cantastorie, tende su i carri, bastoni forcuti, pali e mille altri arzigogoli si vedevano correre ed agitarsi al vento sopra la folla. E tutto questo quadro fantastico nuotava in un ambiente di fumo denso denso, che portato giù dai camini dal vento temporalesco, o sollevandosi dalle padelle strepitanti dei numerosi friggitori occupati per la via, avviluppava la salvatica scena dentro un folto velo di puzzolente caligine. I lati dell'unica strada erano, alla lettera, assiepati di vetture d'ogni genere, di cavalli, di muli e di somari, che la ristrettezza dei locali non permetteva di mettere al coperto, formando due lunghe file interrotte soltanto dinanzi ai banchi di venditori di zoccoli, immagini di santi, banderuole, rami di abete, penne colorate, secchioli di legno ed altri fronzoli, tutti oggetti aventi un significato attinente alla solennità festeggiata e dei quali ogni fedele faceva acquisto, per ascendere alla sacra montagna e per riportarli poi a Napoli come ricordi del compiuto pellegrinaggio. Fra le due file di veicoli e di banchi, restava libero uno spazio di strada capace appena di dar passaggio ad una carrozza, ed in questo spazio circolava a stento la folla compatta ed ululante. Eppure ad ogni momento un veicolo tirato da focosi cavalli carichi di penne, di campanelli e di nastri, animati dalle grida e dagli scoppi di frusta d'un ossesso guidatore, andando alla carriera come nella strada più spaziosa e solitaria, passava turbinando. Un eccidio di gambe e di costole pareva imminente, ma tutti sapevano tanto ingegnosamente badarsi, che la furibonda meteora passava senza intoppi disastrosi e l'allegro vocìo non era interrotto per nulla, anzi in quei momenti era fatto più festoso e maggiore dalle acclamazioni entusiastiche e dagli evviva ai nuovi arrivati. Un chirurgo vi avrebbe fatto la figura di Tantalo. Giudico che l'egoismo di questa gente debba essere il gran talismano che li preserva dai pericoli. Ognuno pensa tanto alla propria salute e tanto poco a quella degli altri, che ne resultano gl'identici effetti, come se ognuno, senza badare alla propria, cercasse soltanto la salute altrui. Quando il resultato finale torna, anche se il problema è impostato male, accettiamolo e cantiamo le Lodi della Provvidenza.

Portato in collo piuttosto che camminando, mi trovai in fondo al paese a respirare un po' liberamente sopra un piazzale erboso, presso al quale mi fu indicato il punto della via che viene da Napoli e dove qualche anno addietro, durante il tempo della festa, stavano sedute non rammento se due o più persone incaricate di aggiudicare un premio d'onore all'equipaggio che meglio di tutti e più riccamente compariva addobbato, o al guidatore che faceva il suo ingresso nel paese, percorrendo a carriera la lunga e ripida salita che lo precede. Chi mi faceva il racconto di questa particolarità, deplorava che tale cerimonia fosse andata in disuso, tanto più che era divertentissimo, mi diceva, il vedere ogni tanto qualche cavallo che spossato dall'eccessivo strapazzo, appena arrivato, cadeva morto attraverso alla via – Che peccato che una così graziosa usanza sia stata dimenticata! – dissi al mio nuovo amico, e la mia nobile esclamazione commosse dolcissimamente quelli che l'ascoltarono.

In fondo a questa piazza si trova la chiesa parrocchiale, un edifizio qualunque che non richiamò la mia attenzione altro che per il tumulto che faceva il popolo davanti alla sua porta. Non avendo potuto incontrare ancora nulla che mi facesse accorgere di trovarmi in mezzo ad una radunata di popolo che si preparava a festeggiare una solennità sacra, fui contentissimo di quella vista e m'incamminai pieno di curiosità verso quella parte.

A rischio di farmi stroncare le costole, potei penetrarvi. Se hai visto far la ruffa ai ragazzi, quando qualche vigliacca creatura si diverte a buttar loro soldi nella via, ti sarà meno difficile farti una idea della pietosa gazzarra che si faceva là dentro dai fedeli lottatori. Dico lottatori, perchè una vera lotta sostenuta a suon di gomitate, pettate e spallate, si faceva presso un piccolo getto d'acqua che scaturiva da una cannella posta in un pilastro della navata a sinistra di chi entra.

La montagna rocciosa che sta a ridosso di Mercogliano fa sì che questo paese sia ricchissimo di limpide sorgenti, che da ogni parte zampillano fresche e salubri, senza avere però altra virtù che quella di calmare l'arsura agli assetati, ma quella lì aveva tali pregi particolari, da giustificare tutto il fracasso che si faceva intorno a lei, per abbeverarsi al suo preziosissimo getto. Questa sorgente scaturisce da un ginocchio di San… non me ne ricordo, onde, dopo essersi imbevuta di quella portentosa sinovia ed aver filtrato attraversando fra osso e osso la rotula del pazientissimo taumaturgo, sbuca da una cannella di rame e quella che non va dispersa giù per i fossati del monte, a benefizio dei ranocchi e delle bucataje, entra negli stomachi dei fedeli e mescolandosi ai polli mal digeriti, ha la modesta virtù di risanare tutte le malattie e credo qualchedun'altra. Il popolo che lo sa, non scherza: venti o venticinquemila persone, fra sane e ammalate, si avventano in tre giorni ad annacquare il vino bevuto all'unico bugliolo di rame che è incatenato presso alla cannella. Ridono d'Esculapio, bevono e si inoculano fra loro erpeti, rogna, ulceri ed altre giocondità della vita; chi è sano torna spesso infetto di lue, chi l'aveva già, se l'aggrava per lo strapazzo; cantano le lodi dell'acqua miracolosa e si rubano tra loro gli orologi; inneggiano al ginocchio portentoso, tutti lasciano una elemosina e finalmente, pesti e macolati, escono soddisfatti come uscii io: essi per continuare il baccanale per le vie del paese, io per andare a bere e dopo a riposarmi fra i profumi di giaggiolo esalati dalle lenzuola di bucato, che i buoni ospiti miei avevano fatto distendere sul morbido letto che m'aspettava.

Ma per gran parte della nottata non mi fu possibile chiudere occhio, a causa del frastuono diabolico che si faceva in paese. Poco dopo la mezzanotte però si fece silenzio assoluto e m'addormentai; ma fu breve il mio riposo, perchè alle tre della mattina si levò di nuovo e più tormentoso il rumore della folla. Trovando allora inutile il mantenere la mia posizione orizzontale, saltai dal letto, apersi la finestra e guardai la campagna. Lo spettacolo che mi si presentò dinanzi era de' più solenni. Il bujo era sempre folto; uno strato di nuvoloni neri neri ingombrava il cielo, appoggiandosi sulle più alte groppe delle montagne; giù da ponente l'aria era infuocata dai fulmini d'un temporale che si avanzava lucente come una massa di fosforo in fiamme, e illuminata dalla sua luce violetta, la turba di già incamminata per la cima della montagna, portando torcie accese e fastelli di paglia e di piante resinose infilzate su la cima di pertiche, si allungava fino alla vetta della montagna in lunghe spire luminose che, risaltando fra le tenebre, prendeva l'aspetto di un enorme serpente di fuoco che lento lento si divincolasse strisciando su per i suoi bruni dirupi.

Non potei resistere alla tentazione e scesi nella via; mi fu facile noleggiar subito un Pegaso ragliante e mossi anch'io per il disagevole pellegrinaggio.

Fin verso alla metà del cammino, la passeggiata fu piacevolissima; la burrasca che si era presentata tanto minacciosa, era andata a sfogarsi attraverso alle gole di altre montagne; i nuvoli sul far del giorno si erano diradati, ed ogni tanto il sole di primavera si affacciava giallo e sorridente a sferzare le nostre groppe irrigidite dalla sizza umida della notte. – Il cicaleggio della folla era piacevole; alcuni gruppi di insaziabili s'erano già accoccolati all'ombra degli ultimi castagni o a ridosso delle rupi ed arruotavano il dente su gli avanzi delle loro provviste, mentre altri, affollandosi intorno a capanne erette provvisoriamente dai pastori lungo la via, bevevano bicchieri di latte freschissimo o mangiavano ricotte e giuncate distese sul pane. Qualche rado lamento o qualche spasimoso – ahi! – messo da malati che seguivano la folla o da poveri infelici che per voto fatto salivano scalzi, ferendosi malamente i piedi sulle punte acute dei macigni, rompeva di tanto in tanto l'allegro mormorio dei pellegrini, ma rimaneva presto soffocato dalle grida festose e dalle sonore risate delle allegre comitive, che raccontandosi fra loro piacevoli storie, ingannavano la fatica della via.

La scena cambiò malamente all'improvviso. Con quella rapidità con cui sogliono addensarsi i vapori su le montagne, il cielo si oscurò ad un tratto dietro un nuvolone che, rammulinandosi vorticosamente, anneriva e gonfiava minaccioso; alla tepida brezza tenne dietro un vento frigido e impetuoso; una batteria di fulmini accompagnata da scoppi formidabili, cominciò a bersagliare le punte che ci stavano d'intorno, e un vero diluvio d'acqua e di grandine si scaricò su le nostre misere pelli. Uno scompiglio generale tenne dietro alla furiosa bufera; chi correva di là, chi di qua in cerca d'un riparo qualunque, ma ripari non ve ne erano, perchè l'ultima zona della montagna è affatto calva di vegetazione. Ogni palmo di terreno riparato dalla sporgenza di una rupe è preso d'assalto; grida e pianti si alzano commoventi intorno a quel derisorio riparo e tra la fradicia moltitudine che vi si affolla, fanno senso di pietà alcune povere donne, che coi loro bambini in collo si raccomandano o imprecano, mostrando le loro pallide creature tremanti e spaurite. Una capanna assalita con furore, non potendo contenere la moltitudine che vi si è riparata, scoppia dai fianchi e manda fuori uomini ed urli; alcuni inginocchiati in mezzo alla via, pregano e singhiozzano tenendosi il capo fra le mani, ed altri caduti si lamentano e chiedono pietà alla Madonna, tendendo le braccia verso il santuario. Era una scena di vera desolazione, una scena capace di dare idea esattissima di quelli strazi efferati, ai quali dovettero soggiacere tornando di Russia le misere mandre umane del Primo Napoleone. Vi furon momenti di un tale scompiglio doloroso e in cui provai tanta pietà dei vecchi, dei poveri bambini e degli ammalati che, quantunque grondante acqua e intirizzito dal freddo, sentii amaramente il dolore di non poter soccorrere altri che una miserabile vecchia, la quale scalza e febbricitante si era impegnata sola alla disastrosa ascensione, facendola sedere sotto la pancia del mio somaro.

 

Ma pure non mancarono le scene comiche in mezzo a questa alpina tragedia. Un gruppo di persone credendo d'essersi poste al sicuro in una cavità del terreno, senza pensare che appunto era stata scavata dalle acque d'un rigagnolo che andavano a sbacchiarvi in tempo di pioggia, si smascellavano dalle risa canzonando quelli rimasti di fuori, quando il rigagnolo, gonfiato a un tratto, scaricò addosso a que' disgraziati una cateratta di broda color cioccolata, conciandoli in modo da far pietà, fra le risate grandissime e i fischi dei reprobi che non ammessi dentro al provvidenziale riparo, erano rimasti fino allora a supplicare smaniosi inutilmente. Un individuo che a pochi passi da me s'era riparato sotto il ventre del suo cavallo, dove se ne stava fumando voluttuosamente la pipa e ridendo evangelicamente delle sofferenze del prossimo suo, ebbe una doccia animale così improvvisa che insiem con la pipa, si trovò spento il riso su le labbra che restarono mute ad un tratto, sotto l'abbondante lavacro che la più tepida delle Ninfe si compiacque somministrargli sapientissimamente. Le cadute poi di quelli che fuggivano, e le inzaccherature in mezzo a quel motriglio quasi nero, a volte erano tali da fare slogar le mascelle al fradicio spettatore. Fra queste fu prodigiosa quella di una donna che scivolando, cadde supina e rimase impaniata con le spalle nella mota della via; incominciò a strillare sgambettando e berciando, mentre il vento indiscreto le portò sulla faccia le sottane, lasciandole allo scoperto… le tracce di chi sa quante altre cadute!

Alla pioggia d'acqua tenne dietro una bufera di neve. Allora, alla peggio, si riordinò la sgominata processione, e coi vestiti e le idee ciondoloni come salci piangenti umani, riprendemmo tutti il cammino in silenzio.

A mano a mano che ci andavamo accostando alla cima, le file dei pellegrinanti si diradavano. Molti trattenuti dalla stanchezza si fermavano dove un riparo qualunque poteva difenderli dalla bufera indiavolata; altri e sopra tutti le donne o incinte o vecchie o soverchiamente adipose, prese dallo sgomento o dal tremito della febbre, si lasciavan cadere su gli arginelli della via e intorno a loro i parenti e gli amici si trattenevano per assisterle. Alcune di queste femmine compassionevoli spinte da una forza di volontà superiore e dal fanatismo che le accecava, coi piedi sanguinanti e quasi trascinate dai parenti che amorosamente le sorreggevano, sostenendole sotto le ascelle, venivano avanti piangendo su per il doloroso Calvario.

Ogni volta che raggiungevo uno di cotesti gruppi, mi sentivo prendere da un senso di pietà che si convertiva subito in disgusto e ribrezzo, e affrettavo allora il passo, perdendoli presto fra la densa caligine del nembo che ci avviluppava.

Non meno disgustoso era lo spettacolo dei mendicanti, dei quali era seminata la via. Tutte le piaghe, tutte le miserie, tutte le membra storte, mutilate o rotte di quei falsi o veri miserabili, erano messe allo scoperto e quasi buttate in faccia ai passanti, a dispetto del rigore del freddo. Muti o finti muti stralunando gli occhi e agitando in aria le braccia, ululavano chiedendo pietà; finti indemoniati si svoltolavano sul terreno fradicio e motoso, mandando ora rantoli bestiali, ora fingendo di cadere in deliquio, e mordendo la terra e rosicando erba che strappavano dal terreno portandosela con avidità alla bocca bavosa; gobbi con la groppa nuda che stando a bocconi sopra un canile di paglia si contorcevano e strepitavano accennando la loro deformità; storpi, monchi, ciechi che si buttavano a baciare il terreno sacro o i piedi dei passanti, attraversavano la via recitando preghiere, o esaltando le virtù della miracolosa immagine di Maria; vecchi con le membra coperte di ulceri e di piaghe che si fasciavano e si sfasciavano continuamente, gridando e scuotendo all'aria i loro luridi cenci verso la sacrosanta Abbazia, che già si cominciava a scorgere attraverso ai fiocchi della neve: e ognuno di costoro aveva un motto speciale, che ripeteva continuamente, per lodare le virtù di Maria Vergine o per dipingere le sofferenze delle anime del Purgatorio, o per rammentare i meriti che si acquistano presso Dio con quella elemosina che domandavano. Sopra un crocicchio che faceva la via, incontrandosi con altri viottoli che venivano dalla pianura, stava un uomo di aspetto lugubre incappato di nero, il quale suonando continuamente con la sinistra una grossa campanella, chiedeva pietà ed elemosina per le anime sante del Purgatorio, mostrando con la destra ai passanti un vassoio con sopra un teschio umano annerito, mezzo nascosto fra i soldi di rame e la neve; e molti si avventavano a baciare quel teschio e a deporre il loro obolo nel vassojo, mentre dagli altri viottoli della montagna giungevano ad ingrossare la turba fanatica altri drappelli di processionanti aggruppati dietro a bandiere o a crocifissi, cantando salmi, lamentandosi e presentando le solite scene desolanti di vecchi spedati, donne scapigliate portanti in collo bambini lattanti che strepitavano, e ammalati sostenuti a braccia ed altri quadri ugualmente pietosi, nauseanti e compassionevoli.

Quando fummo a poche centinaja di passi dall'Abbazìa, il cielo si rasserenò ad un tratto; il sole tornò a sfavillare ed a posarsi tepido e sorridente su le nostre povere groppe ed il panorama delle sottoposte vallate si aprì ampio e luminoso quasi sotto ai nostri piedi. Mi fermai un momento ad osservare, e correndo con lo sguardo le enormi distese di boscaglie che ingombrano il principato Citra, quasi non interrotte fra Avellino, Nola e Frigento, dove pochi anni or sono correva libero con le sue bande feroci Cipriano La Gala, misurai con l'occhio quello spazio immenso e mi sentii involontariamente stringere il core, pensando al core di Cipriano, quando mi venne fatto il confronto fra l'ampiezza sconfinata di quell'orizzonte e l'angustia della cella, dove pochi giorni addietro lo avevo incontrato visitando il Bagno penale di Portoferrajo. Mi venne voglia in quel momento di figurarmelo un eroe leggendario, uno di quei tanti generosi che, inaspriti dalla sventura in forma di giustizia umana, corrono intolleranti alla macchia a muover guerra da belve all'umanità che come belve li caccia; volli figurarmelo montato sul suo puledro, carico d'armi e di vesti fantastiche, galoppare fra quelle balze, seguìto dalla sua donna animosa o accoccolato all'ombra d'una quercia in mezzo ai suoi, novellare delle sue gesta, del suo ribrezzo alla volgare rapina e delle sue speranze di gloria, ma ogni illusione mi cadde, quando mi si riaffacciò alla mente la sua ghigna pallida e feroce e quando mi ricordai che appunto il giorno che lo vidi, era accatenato più corto in un carcere della Linguella, per aver ghermito quaranta lire a un suo sventurato compagno di pena.

L'orizzonte si richiuse fra la nebbia, la neve cominciò a cadere più folta, ed io ripresi il cammino, giungendo dopo pochi minuti nel cortile dell'Abbazia.

Mi parve d'entrare in mezzo ad un campo militare dopo una sconfitta. Non starò a descriverti le scene che mi accadde vedere là dentro e sotto i porticati che circondano il piazzale, essendo presso a poco dello stesso genere di quelle che ti ho descritte fin qui; ti dirò invece di quello che accadeva in chiesa.

Appena presentatomi su la porta di quella, mi tornò in mente la profanazione del Tempio e le sante funate… la profanazione v'era, ma le funate dolorosamente mancavano. Pur troppo!