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Napoli a occhio nudo: Lettere ad un amico

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Davanti alla miracolosa immagine si ripetevano presso a poco le medesime scene, alle quali mi ero trovato assistendo al miracolo di San Gennaro. Dopo essersi trovati ad una di queste funzioni religiose, bisogna credere che i fedeli di questi paraggi s'immaginino sordi addirittura tutti i loro celesti avvocati, tali e tanti sono i berci e le strida, con cui si raccomandano a loro. Quante volte sentendomi fare una vociaccia negli orecchi, mi veniva voglia di persuadere il mio devoto vicino a dire più adagio e a fargli capire che in casa degli altri e specialmente in quella di Dio, quelle non eran le maniere; ma poi sentendo che mi sarebbe scappato da ridere, lo guardavo, lo ammiravo e stavo zitto.

Lungo i muri delle due navate laterali s'era fatto un vero accampamento. Una gran parte dei pellegrini sdrajati per terra dormivano e russavano; altri si levavano e scuotevano le scarpe e le calze inzuppate d'acqua e di melma; parecchi s'erano quasi spogliati ed avevano teso ad asciugare i loro panni su bastoni appoggiati al muro; mucchi folti e numerosi di bambini, che devono esser portati lassù con qualche fine, perchè ve n'eran troppi, ingombravano tutta la chiesa o sdrajati, o saltellanti o accovacciati qua e là in liquide e solide occupazioni in mezzo a un continuo strillare, che mi faceva credere d'esser capitato nel Limbo. Il terreno era ingombro d'una viscida poltiglia, e questo terreno era percorso nel modo seguente da alcuni devoti peccatori, che dovevano averle fatte grosse, ma grosse davvero.

Arrivavano alla porta della chiesa cantando salmi, e appena giunti alla soglia vi si buttavano inginocchiati, piegando fino a terra la testa. Un loro parente o amico che fosse, legava loro al collo o una corda o un fazzoletto e quasi trascinandoseli dietro, muoveva verso il tabernacolo della Madonna fra la folla che gli faceva ala, mentre il penitente si trascinava in ginocchio strisciando la lingua sul terreno!

Non ne voglio più, non ne voglio più. Tornai nel cortile, m'ingozzai un pezzo di tonnina e un altro di baccalà crudo, chè carne nè altro v'era per sfamarsi lassù, e dopo poco, pensando che quella festa insieme con un'altra dello stesso genere, che vi si ripete nel corso dell'anno, assicurano a que' poveri monaci l'annua rendita di circa 120 mila lire, ripresi frettoloso la via, impaziente di risalutare la Primavera che mi aspettava tepida fra i vigneti di Mercogliano.

In mezzo al profluvio di laida prosa, sotto al quale erano rimaste soffocate le mie dolci illusioni accorrendo a quella festa, una cosa sola, un solo segno di gentile poesia scaturito dai petti di quelle goffe creature, mi fece in parte riconciliare con loro, perchè era gentile da vero.

Lungo la via avevo osservato che quasi ogni pianta di ginestra era legata ad un'altra, per mezzo di un nodo intrecciato con le loro cime. E queste ginestre annodate fra loro non le vedevo soltanto lungo la via, ma in alcuni punti ne vedevo anche in lontananza disseminate qua e là perdersi giù per le balze della montagna. Domandai notizie di questo fatto e seppi che quei nodi venivano composti dai promessi sposi che accorrono alla festa, quasi emblema del nodo che già stringe i loro cuori o come promessa di fedeltà fatta dinanzi alla Regina degli Angeli. Questi nodi vengono poi sciolti dalle coppie felici che vi tornano dopo il matrimonio. Nella mia vita non avevo ancora veduto uscire da menti volgari un pensiero così altamente gentile, nè sotto forma così dolcemente poetica. Alcuni di quei nodi erano secchi, ed intristite le piante su le quali erano stati intrecciati. Che sarà avvenuto delle coppie che non erano tornate a scioglierli? Mi feci questa domanda e seguitai la discesa tutto occupato da pensieri malinconici.

Jeri sera ero già tornato in Napoli ed ebbi agio di assistere al ritorno dei pellegrini, la qual cerimonia si fa con uno sfarzo alquanto grottesco.

Ad una certa ora, i pellegrini, che tornando si son riuniti fuori di Porta Capuana, credo, a spolverarsi, a strigliarsi e a rammagare tutte le avarìe dei legni, dei cavalli e delle persone, fanno il loro ingresso in città in una lunga fila, percorrendo a trotto serrato le vie della Marinella, del Piliero, Largo del Municipio, San Carlo, Castello, strada Santa Lucia, ec., in mezzo al popolo che gli attende e fa ala lungo il loro cammino.

La corsa sfrenata e l'aspetto brillante dei loro equipaggi però ha qualche cosa di originale e di fantastico. Le donne sono cariche dei loro più ricchi giojelli e delle loro vesti più sfarzose e brillano e luccicano come pappagalli al sole; gli uomini hanno i cappelli carichi di gingilli di talco o sormontati da penne di fagiano e passano sventolando bandiere, ma serj però e pieni di goffo orgoglio della invidia che credono poter destare in chi sta ad osservarli; fumano tutti un sigaro lungo lungo rinnovato per l'occasione e sputano maestosamente.

Le carrozze, i cavalli e le loro bardature da un certo aspetto sono belle da vero e degne d'essere osservate. Questi focosi animali che a due e spesso a quattro compariscono scalpitando furiosamente, attaccati a stupende carrozze, sono quasi nascosti sotto i loro fantastici ornamenti. Ciuffi di penne, mazzi di fiori e trofei di campanelli d'ottone su le teste e sui pallini delle selle, nastri di seta di varj colori e camelie, o vere o finte, intrecciate e annodate alle criniere svolazzanti e alle code, placche d'ottone lucidissimo e borchie e banderuole che si agitano e scintillano sotto i loro colpi d'anca, li fanno sembrare, piuttosto che cavalli, mostri favolosi che scaturiscano infuocati e lucenti dalle caverne del vulcano. Le carrozze pure son guarnite di fronzoli d'ogni maniera, come alberelli d'ottone carichi di campanelli messi in luogo dei lampioni, bandiere con immagini di santi, mazzi di fiori e lembi di vesti delle odalische che le occupano, le quali lasciano a bella posta sventolare alla mostra scialli variopinti e nastri e penne colorate, mentre sono occupate a sostenere in alto i forcuti trofei che hanno riportato da Montevergine, sopraccarichi su la cima dei noti secchioli, zoccoletti, ciuffi di piume e di talco e fiori di ginestra e cento altri fronzoli, che non saprei enumerare anche ricordandomene.

La scena ha del teatrale, ma sotto un certo aspetto è bella.

Tutto questo sonaglìo, e luccichìo e strepito assordante per qualche momento abbaglia e stordisce piacevolmente, ma presto annoia e mette voglia di voltargli le spalle.

La gazzarra con questi equipaggi che vanno e vengono, che arrivano e tornano indietro e s'incrociano e s'arruffano, dura fino a calata di sole, andando sempre ad assottigliarsi, finchè tutti spariscono, per spingersi: i più agiati fino allo scoglio di Frisio a ribere e a rimangiare impippiandosi fino al gorguzzule; gli altri per fermarsi al Gran Caffè o a Santa Lucia ad ingozzare vistosamente ostriche e gelati, e per andarsene poi tutti a digerire l'indigestione o a meditare sopra i sacrifizj che costerà loro per tutta l'annata un'orgia di tre giorni.

LETTERA VI.
Dove si parla del Camposanto vecchio

Napoli, 22 maggio 1877.

Sere sono, essendo montato in una carrozzella per prendere una boccata d'aria di campagna, dopo aver percorso un par di chilometri circa della strada di Poggio reale fuori di porta Capuana, attaccai questo colloquio col mio Automedonte.

– Dimmi, compare; che cos'è quel gruppo di fabbricati lassù in alto a mezza collina…?

– Il Camposanto nuovo, eccellenza.

– No, no; quello lo conosco. Domandavo di quell'altro più in basso a sinistra…

– Ah! ho capito quale volete dire. È il Camposanto vecchio, il Camposanto dei poveri, dove sotterrano a macchina…

– Svolta, e conducimi lassù.

– Io vi conduco dove volete, signorino, ma non troverete nulla di bello da vedere.

– Tanto meglio. Svolta, svolta. —

Il vetturino, maravigliato di un genere di curiosità che non sapeva spiegarsi, mi guardò quanto ero lungo e lentamente fece voltare il cavallo. Dopo un quarto d'ora circa mi trovai alla porta del Cimitero.

Appena messo il piede dentro alla soglia, le parole del vetturino «non troverete nulla di bello da vedere» mi tornarono alla mente e quasi mi pentii d'esservi andato.

Non v'era assolutamente nulla da vedere. Due corpi di fabbrica lateralmente all'androne d'ingresso contenenti la chiesa, il quartiere del prete ed altre stanze destinate a varj usi; un largo piazzale lastricato di forma presso a poco quadrata, con un lampione nel centro sormontato da croce; un'alta muraglia di cinta decorata internamente ad arcate in grossezza di muro, ed una piccola Grù collocata sopra piano mobile che al mio arrivo stava inoperosa in un angolo del piazzale; ecco tutto quello che mi dètte nell'occhio al primo giungere nello squallido carnajo, dove il Municipio di Napoli manda ogni anno circa 7000 capi di bestiame umano a putrefare in combutta. Un uomo di piacevole aspetto, ma coperto di abiti cenciosi, che stava seduto presso la porta, mi si annunziò come il custode; ma siccome esitavo ad entrare, mi disse che passassi pure, ed accennandomi alcuni meditabondi straccioni che erravano là dentro, mi fece sapere che senza alcuna cerimonia l'ingresso era libero a tutti in quel recinto. – Entrai. Fatti alcuni passi, però, tornai indietro per fargli questa domanda: – Scusate, custode, che cosa sono quelle lapide tonde lì sul lastrico e numerate una per una con lo scalpello?

– Le sepolture, signore, – mi rispose. – In tutte sono 365, appunto quanti i giorni dell'anno. 360 sono qui, come vedete, ed altre 5 nella chiesa. Alle 6½ della sera se ne apre ogni giorno una e lì si seppelliscono, con quella macchina laggiù, i morti che sono arrivati nella giornata e quelli che arrivano nella notte. Si richiude alle 6½, della mattina; ma se vi piacesse vedere come si fa, trattenetevi o tornate stasera verso le sette, chè vi divertirete. —

 

Nel tempo che il custode mi dava queste notizie io gli badavo appena. Fissatomi su quel piano uniforme, nudo come l'idea della morte, sotto al quale milioni di cadaveri imputridivano accatastati, mi sentivo prendere adagio adagio da una noja, da un malessere, da così fredda tristezza, che volentieri me ne sarei andato, se una strana curiosità non m'avesse inchiodato là dentro. Era una tale scena di desolazione da mettere i brividi addosso al cinico più ributtante. – Io ti racconto quello che vidi e nulla più. —

Due vecchi, a capo scoperto sotto la sferza di un sole infuocato, percorrevano il piazzale in su e in giù lungo le file di sepolture, recitando salmi a bassa voce e mandando ogni tanto qualche lamento, ora battendosi il petto, ora facendosi segni di croce, ora aprendo le braccia con gli occhi rivolti al cielo. Presso una lapide, poco discosta da me, era un gruppo composto di una donna adulta, una giovinetta e tre bambini, di certo madre e figli, che ad intervalli pregavano e piangevano in silenzio dirottamente. Avrei fatto volentieri qualche interrogazione a quei disgraziati, ma mi guardai bene dal disturbare il loro doloroso raccoglimento. La madre era inginocchiata col capo abbandonato su le spalle della figlia maggiore che le sedeva accanto; dei tre bambini, il maggiore prendeva parte alla preghiera e al dolore; il secondo dormiva col capo fra i ginocchi della sorella, ed il terzo si gingillava con una lucertola legata per la coda. In un angolo dormivano due straccioni, russando saporitamente; in un altro, un branco di monelli schiamazzavano e facevano gazzarra, gettando sassi in aria. Ma era così fredda la tinta del quadro, che quelle grida d'allegrezza non ne turbavano minimamente la intonazione; avrei giurato che piangevano anch'essi. Nel mentre che osservavo taciturno, comparve su la porta un uomo scamiciato e coi calzoni a mezza gamba, il quale portava qualche cosa su la testa che da lontano non potei subito riconoscere. Entrò canterellando, con una mano su i fianchi e l'altra all'oggetto che recava in capo. Era svelto ed elegante come una figura pompejana. S'inoltrò qualche passo, e dopo essersi guardato d'intorno chiamò: «Treonce!» Treonce, che era uno dei facchini di servizio addormentati in un canto, si alzò, gli corse incontro ed io feci altrettanto. – L'oggetto che il nuovo arrivato teneva su la testa, era una piccola cassa da morti. In tempo che il custode preparava quella di deposito, i due facchini ne schiodarono il coperchio e misero allo scoperto lo scarno cadavere di un bambino di circa due anni. Era rinvoltato in pochi e laceri cenci, ma una povera ghirlanda di frasche gli contornava l'esile corpicino, ed una rosa di maggio gli si vedeva pendere fuori dalla bocca. Mi passò attraverso al pensiero la mano che aveva accomodato quella rosa, e mi sentii serrar la gola, mentre i ragazzi che schiamazzavano là in fondo, erano corsi pizzicottandosi, e saltavano intorno a noi distratti e sorridenti. Preparata in un momento la cassa di deposito, il piccolo cadavere fu preso da un facchino per una gamba e sbatacchiato lì dentro. La ghirlanda volò da una parte, la rosa da un'altra, e due righe di sangue uscirono dalle narici a solcare le gote di quella misera creatura. – I monelli si strapparono fra loro le frasche e la rosa, ed intanto l'industrioso Treonce, finita di schiodare a suon di pedate la cassa, si allontanò coi pezzi sotto il braccio, fischiando allegramente l'aria della Palumbella.

Così vidi arrivare altre casse con cadaveri di adulti, o su barrocci o portate a mano o sul cielo di carrozze, ed a tutti ho visto dare presso a poco lo stesso trattamento. Ad un cadavere di vecchia vidi cadere, nel levarlo dalla bara, l'unico brandello di panno che le copriva il ventre e restar nuda affatto sotto gli occhi di una folla di curiosi; ad un altro di uomo attempato, che scivolò dalle mani di chi lo sosteneva per le spalle, vidi battere il cranio su le lastre, con quel rumore sinistro che non si scorda e non si confonde mai con altri. Ma non è nulla! Napoli è distante; i satrapi sono a pranzo, e questo piccolo rumore non arriverà certo a disturbare il loro placido chilo. Superato il primo ribrezzo, però, mi sentii sempre stonato, ma guardai con crescente indifferenza ogni nuovo cadavere che giungeva, e capii che se, come quei ragazzi, avessi passato le mie giornate là dentro, in poco tempo mi sarei ridotto a prenderla in chiasso e a ballare e ridere come loro.

Chiamato da parte il custode, gli domandai:

– A che ora il seppellimento?

– Principiamo alle 6½, ve l'ho detto dianzi. Verrete a vedere, eccellenza?

– Non è difficile. —

Appena uscito, il cocchiere mi chiese: – Ebbè, signorino, che avete visto?

– Nulla.

– Ve l'aveva detto! —

La sera stessa mi fu impossibile tornarvi, ma tre giorni dopo, alle 6 precise, ero al posto. Per la via che conduce al Camposanto, e più specialmente nell'ultimo tratto di salita selciata, incontrai molti gruppi di persone, la maggior parte delle quali se ne venivano conversando e ciarlando allegramente. Mi sorprese tanta folla ed il suo contegno, ma seppi dopo che, essendo venerdì, vi accorreva numeroso il popolo minuto per procurarsi il terno, ricavando le combinazioni dal numero dei morti, dal loro sesso od età, e seppi anche che alcuni dotti esercitano là dentro la nobile industria di studiare e spiegare i casi più difficili a chi gl'incarica della delicata operazione, ricevendone in cambio un piccolo onorario. – Utilissima notizia per quei padri di famiglia che volessero avvantaggiarsene, per uscire dalle loro ristrettezze economiche. – Come troppo spesso il ridicolo è vicino allo spaventoso!

La macchina stava già al posto accanto alla sepoltura che doveva scoprirsi fra poco, e nove cadaveri dentro casse scoperte si vedevano collocati a raggio intorno alla lapide Nº 145: cinque vecchi, tre bambini ed un giovane dell'apparente età di trent'anni, intorno ai quali un cento di persone circa stavano stupidamente contegnose ad osservare. Accostandomi a quel gruppo, mi dètte nell'occhio una giovine donna di bella figura, ma della quale non potei distinguere i lineamenti del viso, perchè avendo passato le sue braccia sul collo di altre due donne che le stavano ai fianchi sorreggendola, lasciava ciondolare il capo in avanti, nascosto affatto sotto una folta pioggia di capelli arruffati. Tremava a foglia a foglia e si contorceva, mentre le compagne le asciugavano il sudore coi grembiuli, e le dicevano sotto voce qualche parola che non potevo intendere. L'arrivo del prete mi distrasse e la persi di vista. —

La folla si aprì in due ali per dargli passaggio, e subito gli si richiuse dietro affollandoglisi intorno. Il silenzio era allora perfetto; soltanto a lunghi intervalli giungeva fino a noi la romba della città, portata dalla brezza della sera, e quel rumore confuso mi pareva come un respiro cavernoso, mandato dalle migliaja di polmoni che disfatti tacevano sotto a' miei piedi.

Vi sono impressioni che non si raccontano, ma si pensa e si tace, perchè la parola è insufficiente. Il vecchio sacerdote recitò la preghiera dei morti; benedisse i cadaveri, e si ritirò, facendo un cenno agli uomini di servizio che messero subito mano al lavoro.

– Iam! – gridò uno di loro, e in un istante la lapide dell'immane carnajo fu sollevata. Un'ondata di tanfo nauseante buttò indietro in un momento le cento facce dei curiosi che vi stavano sopra, ma cento facce improntate di stupida curiosità, di ribrezzo e di paura si riaffollarono subito su la fetida buca. I monelli restati di fuori gridavano facendosi largo fra le gambe dei curiosi; quelli rimasti serrati strillavano, sentendosi soffocare, ed intanto gli uomini addetti alla macchina non cessavano di raccomandarsi gridando: – Indietro! cascherete dentro! via! via! finiamo! – Bisognò lasciar correre un quarto d'ora buono per dare sfogo alla bestiale curiosità della folla, e cominciò subito dopo la funebre operazione. Il sinistro ordigno fece cigolare le sue ruote e la cassa metallica sospesa alle sue catene venne a posarsi orizzontale sul terreno. In quel tempo mi affacciai alla tenebrosa apertura, ed arruotando gli occhi scorsi nel fondo una massa informe di ossa biancheggianti e di panni muffiti. Il ribrezzo mi buttò indietro. Il primo cadavere tolto dalla bara venne in pochi secondi collocato nella cassa metallica che sotto la forza degl'ingranaggi fu sollevata qualche linea sopra il terreno e calata lentamente nella fossa. La folla vi si spenzolò sopra di nuovo per osservarne la discesa, quando ad un certo punto scattò una molla, il fondo della cassa si era aperto e la prima carogna umana, con un tonfo sordo, era andata ad occupare il suo posto nel letamajo assegnatole per ultima dimora. La cassa ritornò in su, e questa volta toccava all'uomo giovine a dare il funesto spettacolo. Due facchini, prendendolo uno per le gambe e l'altro sotto le ascelle, lo depositarono nella cassa della macchina. L'aspetto del cadavere di un uomo giovine, che si disponeva a fare la lugubre discesa, aveva impressionato anche i più stupidi. Nessuno fiatava, e in mezzo al silenzio generale la Grù fece sentire il suo strepito sinistro. Un grido soffocato m'arrivò alle orecchie, e vidi comparire affannata ed avventarsi su la buca, entro la quale scendeva il cadavere, la giovane donna che poco fa aveva fermato la mia attenzione. Le due amiche le corsero dietro e l'agguantarono per le vesti, per paura che si precipitasse nella tenebrosa cisterna, ma si fermò invece spenzolata sull'orlo di quella con gli occhi invetrati, finchè, al tonfo che fece quel corpo battendo sul fondo, piegò, come se le fosse caduto sul core, e si abbandonò fra le braccia delle sue compagne.

Mi voltai ad un vecchio che mi stava vicino osservandola e gli domandai: – La conoscete? – Robba de lupanare, eccellenza… – Basta. – Un cupo mormorio di compassione e di paura si levò a quella scena, ed alcuni di noi ci muovemmo per soccorrere quell'infelice, ma non fummo in tempo, perchè barcollando ed agitando convulsamente in aria le braccia, la vedemmo sparire come un fantasma attraverso alla luce del lampione che illuminava l'androne d'ingresso, sorretta dalle sue compagne che quasi se la portavano in collo.

In quel momento un ragazzo che, per veder meglio, s'era ficcato attraverso alla macchina cominciò a gridare: – Ahi! Ahi! la mano, la mano! – (gli era rimasto un dito fra gl'ingranaggi) e la folla e gli uomini di servizio: – Indietro, indietro le rote! – Stiamo facendo – Ah! mi si tronca, mi si tronca! – La lanterna, la lanterna! – Levate il piede dalla catena! – È una creatura d'Iddio! – Così non si farà niente! – Ah! madonna, madonna! E tu dove vai? – Ci cascherete dentro; indietro, indietro! – Ed altre esclamazioni ed altri urli e un turbinìo di teste, di braccia e di mani, che tumultuosamente si affollavano in un punto. In quel mentre altre grida partivano da persone spaventate, che fuggendo inciampavano e inciampando cadevano attraverso alle casse dei cadaveri ancora insepolti… Dio, Dio, Dio! Fu una scena d'orrore, una scena d'inferno, ed io coi capelli ritti e la pelle increspata, uscii di là dentro inorridito, nè valse a mitigare la mia tristezza paurosa la pazza allegria dei nuovi giardini alla Marinella, dove corsi affannato per divagarmi.

Qualche anno fa, il figlio d'un potentato d'Europa, dopo aver sentito parlare di questo cimitero, osservava non so a quale Autorità napoletana:

– Spero che sarà stato soppresso?

– E potete dubitarne, Altezza Imperiale? – gli fu risposto.

Quel giorno stesso, venti carogne umane andavano una dopo l'altra a capo fitto, a stroncarsi le costole contro le ossa di chi le aveva precedute nell'immonda voragine.