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Napoli a occhio nudo: Lettere ad un amico

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Il Maruzzaro

Il Maruzzaro o venditore di chiocciole, considerato dal punto di vista artistico, è una delle figure più originali dei miserabili di Napoli. Il Maruzzaro si può quasi dire che al pari della lucciola abbia due esistenze: una il giorno ed una la notte. Durante la giornata è un essere comune, un venditore di commestibili come tutti gli altri, che passa le sue ore lungo la marina e specialmente lungo la via che conduce alla Lanterna, seduto davanti alla sua pentola fumante, senza mandar grida speciali, senza darsi moto, senza far nulla insomma che lo distingua fra gli altri infiniti e rumorosi suoi colleghi. Affetta il pane, lo distende su piccole scodelle, ci versa sopra chiocciole e brodo col suo romajolo di latta; fornisce gli avventori, risciacqua i piatti, si soffia il naso con le dita modestissimamente e tace. Ma appena scende la notte, il Maruzzaro cambia affatto il suo aspetto, e da vero chirottero umano e ragionevole cambia le sue abitudini, veste le sue piume più belle, alza il suo canto e corre le vie della città.

La sua figura, generalmente, è elegante come quella di tutti i discendenti dei vecchi Osci e Campani. Veste un pajo di calzoni rimboccati fin sopra al ginocchio, una camicia e niente altro. Di dove esca, di dove sbuchi, dove vada a compiere la sua metamorfosi, non lo so; ma il fatto si è che ai primi bagliori notturni del Vesuvio, quando i pipistrelli scaturiscono zirlando dalle gretole dei muri, comparisce il Maruzzaro a fare intendere alla notte la sua mesta cantilena.

Ha una cesta di giunco in capo e su questa cesta sono disposte tre marmitte di rame lucide, terse e pulite, come è difficile veder altra cosa in Napoli. – Una marmitta nel centro; due laterali. Sotto quella del centro arde un fornello che fumica e scoppietta; nelle due laterali sta il pane affettato e non so quale altro ingrediente della sua ghiotta pietanza. La cesta poi è sormontata da un arco formato da un verga d'ottone lucidissima, alla quale sono attaccati e sospesi: catenelle, medaglie e immagini di santi, e quest'arco, alla sua volta, è sormontato da un lampione acceso, che scintillando ondeggia secondo le movenze della svelta figura che lo trasporta. La mano destra mantiene in equilibrio il luminoso trofeo, la sinistra sul fianco, e via in cerca di buongustaj dalla Lanterna a Sant'Elmo, da Mergellina alla Marinella, percorrendo in ogni verso dalla via Toledo ai vichi più remoti la immensa città. Sopra ogni quadrivio questa elegante figura, dai contorni arabo-greci, si ferma e canta lungamente annunziando ai ghiotti la sua merce.

Ho fatta una osservazione che non è del tutto priva d'interesse. – Le voci dei venditori di Napoli messe insieme in mezzo al tumulto e mescolate al frastuono della folla concorrono a dare allegrezza e festività al rumore generale, senza che alcuno si accorga menomamente del loro accento di tristezza, ma udite separatamente sono meste e lamentose, come di persone che piangendo si dolgano senza speranza di conforto.

Le prime mattine che passai in Napoli, trovandomi destato per tempissimo dalle grida dei venditori, mi scuotevo e stavo in pena ascoltando, come se temessi di una disgrazia accaduta; poi imparai, ma non sono stato mai capace di liberarmi da un senso di profonda mestizia, ogni volta che un ortolano mattiniero, fermando il suo somarello sotto la mia finestra, annunziava alle comari del vicinato che la sua insalata era freschissima e bella.

Il Maruzzaro ha la più mesta di tutte le cantilene. Si ferma su i quadrivj; modula la sua voce, e girando lentamente in tondo sopra sè stesso, empie il silenzio relativo della notte col suo verso malinconico. Un poeta direbbe che sembra un cigno morente, che inganna col canto la sua ultima ora; io no: amo il pallido Maruzzaro ed il suo grido lamentoso, che nel tardi della notte mi racconta al core tante confuse leggende di sospiri e di lacrime.

Sul Molo

Di sul casseretto di poppa, dove sono a scriverti in furia queste ultime righe, osservo ed appunto. In cielo ed in mare è calma perfetta; in terra imperversa la tempesta umana. Fra centinaja di legni a vela, diciotto grossi piroscafi sono nel porto. Contemplando questi mostri natanti che uno dopo l'altro si avventeranno sull'Oceano a sventolare la bandiera italiana per tutti i mari della terra, a me, piccolo acaro del globo, par d'avere il globo tra le mani. Uno di questi ansa, fuma, fischia e sbuffa prima di slanciarsi nella sua rotta a Palermo, e pare come un formidabile cetaceo che tirato in terra dal rampone del baleniere sospiri smanioso alle profonde caverne del suo mare lontano. Quanto volentieri mi lascerei ingojare, Gionata redivivo, nel suo comodo ventre per salutare la dorata Palurmus, le silenziose tombe d'Agrigento e di Siracusa, e i tremuli papiri dell'Anapo! Ma altri forse più degni di me vi anderanno, ed io li guardo e li invidio.

Gruppi di bersaglieri che salutano e abbracciano amici ed amorose piangenti, si affollano su la riva; bersaglieri stivati in barche vanno al piroscafo che li condurrà in Sicilia, e il ponte del bastimento formicola già di questi bruni folletti che gridano e cantano, e sventolando all'aria bianche pezzuole mandano alla spiaggia il loro saluto d'addio, mentre dalla spiaggia si risponde. Il vento agita le penne dei loro cappelli e il sole inebriato, pazzamente scintilla sul disordinato agitarsi di piume, di bajonette e di lacrime.

In questo tempo un altro vapore arriva fischiando, ed una smotta di piccole barche gli si affollano incontro come gabbiani addosso a una balenottera morente. Il disordine intorno a lui si fa prodigioso: uomini e merci calano e cascano alla rinfusa; strilli umani e latrati di cani che abbajano dalla riva o affacciati all'opera morta dei bastimenti vicini, empiono l'aria d'un'armonìa diabolica; altre barche accorrono; altre vengono a riva; trilli e suono di campanelle annunziano i comandi per le manovre, ai quali rispondono le voci cadenzate dei marinari; bandiere che salgono e discendono cigolando riempiono l'aria, e le fiamme sottili schioccano al vento in cima ai pennoni. Tonfi di ancore buttate nell'acqua e d'ormeggi lanciati alla riva, cigolìo d'argani e di taglie, e suono di catene, e centinaja di altri rumori e tutti diversi e insieme confusi si partono intanto dalla piccola città galleggiante. —

A terra il lavoro aumenta di proporzioni. Carri che partono e che arrivano; ammassi di balle, di casse, di carbone e d'infinite altre cose che in un momento si ammontano e si smonticano e spariscono; bòtti rotolate che scricchiolano su la breccia; cavalli che abbandonati un momento si son dati alla fuga fra le grida del popolo; altri impennati sotto un peso enorme fanno sforzi prodigiosi, animati dalle frustate e dagli urli de' carrettieri, e in mezzo a questa babele, sberci di chi chiama il compagno lontano, di chi impreca al santo Diavolo, di chi invoca la Madonna, di chi chiama San Gennaro in suo soccorso. E intanto col nuovo bastimento è arrivato un carico di cembali e di nacchere. Quattro barche stivate di questi strumenti e gremite di persone si son mosse e vengono alla riva suonando tutti e strillando come anime spiritate. Nel forte vicino molti gruppi di soldati incominciano a suonar trombe, ognuno per conto proprio, in modo che la presa di Gerico sarebbe sembrata uno scherzo a chi si fosse ritrovato in mezzo a questa nuova tregenda. E ancora non è finito.

Il piroscafo per Palermo si è mosso con apparato maestoso di fumo, di suoni e di canti, e in questo momento un legno da guerra ha incominciato a tuonare in lontananza il suo saluto, al quale risponde subito la romba delle artiglierie dal porto militare… Io non ne posso più; i miei nervi sono consumati. Guardo d'intorno, ed una folta caligine di polvere sollevata e di fumo pregno d'un odore acuto di catrame e di fossile ingombra l'aria giallastra attraversata da una luce calda e abbagliante. Mi sento stanchi gli occhi ed il cervello.

Anche sul ponte del mio bastimento è lo stesso casa del diavolo. Sono moralmente spossato, ma non mi annojo. Penso al vuoto che avrò da riempire ne' miei sensi appena lasciata questa romantica ed impazzata regione, e intanto osservo, mi rattristo e godo.

Attraverso ad una selva d'antenne scorgo il Vesuvio che insensibile al doloroso saluto dell'amico che parte, fuma e tace, ed io pure taccio, fumo e lo guardo, ed invidio due gabbiani che rotano altissimi e tranquilli su la marina di Portici…

– Addio, addio, diabolica e divina montagna; un adoratore del tuo fuoco ti saluta commosso; addio, addio! Domani all'apparire del giorno cercherò inutilmente nello spazio la tua cima fumante e mi domanderò con tristezza: rivedrò più il Vesuvio?

– Addio, poetici colli del Vomero, di Pompei e di Sorrento. Addio, placide marine del golfo, che lontane tornerete assidue, come sogni tristissimi e soavi, alla memoria ed al core dell'amico lontano; addio, addio! – Il bastimento ha cominciato a fremere al gorgoglìo della caldaja che ribolle nel suo ventre; i segnali dell'imminente partenza sono dati e già è principiato lo sgombro di tutti coloro che son qui per affari o per addii, fra i quali il nostro Enrico che sarà l'ultimo ad allontanarsi.

– Si parte! addio, mio buon amico, e addio, addio a te dal profondo del core, o Napoli maravigliosa, addio! Io non ti ho certo adulata come tutti gli altri tuoi amanti, ma tu non volermene male, perchè forse più di tutti gli altri ti amo. Addio, Napoli mia, e, se l'ira del tuo vulcano non ti tocchi in eterno, vogli compatire il piccolo figlio d'una delle tue cento fortunate sorelle, che limpida e sconfinata, come la serenità del tuo cielo, vorrebbe la purezza della tua grande anima di fuoco. —