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Napoli a occhio nudo: Lettere ad un amico

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LETTERA VIII.
Dove si parla di una gita notturna al Vesuvio

Napoli, 29 maggio 1877.

Per non dimenticare una delle più forti impressioni ricevute nella mia vita, ho scritto il racconto della gita notturna che sere sono feci al Vesuvio, e che qui sotto ti trascrivo. Leggilo prima tu, se avrai la pazienza di farlo, e dopo fammi il piacere di passarlo alla signora Zeffirina, la quale, quando seppe che venivo a Napoli, mi parlò tanto di questa montagna da farmela prendere a noja, se fosse stato possibile.

Togliete a Napoli il Vesuvio, e la voce incantata della sirena avrà perduto per voi le sue più dolci armonie. Nelle notti stellate, quando la bruna verruca manda i suoi sospiri di fuoco a riflettersi in una lucida striscia sul mare silenzioso; nei giorni sereni, allorchè gli ultimi ciuffi della sua chioma sparpagliati dal vento si stendono come un velo diafano fra i dardi del sole e il profumo dei colli di Sorrento, piovono su i vostri sensi onde così sature di altissima poesia che, ammaliato davanti al sublime spettacolo, l'animo vostro a poco a poco si confonde, e va a perdersi in un mare d'ineffabile malinconìa.

Il fascino di questo abbrustolito Prometeo, che ravviva con la sua anima di fuoco tutte le membra della bellissima sfinge, posata voluttuosamente a' suoi piedi, è qualche cosa di strano, qualche cosa d'irresistibile.

Scendete alla riva di Santa Lucia, o a Mergellina; salite alla ròcca di Sant'Elmo, al Vomero, a Posilippo, a Capodimonte, od in qualunque altro luogo, donde si scorga la sua mole fantastica, e contemplate.

Le vostre pupille si avventeranno inebriate, come baccanti aeree, attraverso al duplice azzurro del cielo e del mare; voleranno insaziabili fra tanti prodigi della creazione, dal solitario Miseno all'addormentato Epomèo, e giù per il mare biancheggiante di vele, all'arido scoglio di Tiberio ed alle balze di Sorrento, eternamente avviluppate nel loro poetico manto di verdi aranceti, e voleranno e voleranno affascinate in una corsa senza freno, finchè incontrata la fumante cima del vulcano si poseranno stordite.

Il Vesuvio è il core, è l'anima, è il sunto di tutti gli splendori del Golfo; è il rubino gigantesco che sta come il fermaglio in questa collana di perle composta nel cielo, forse per adornarne il seno di Venere, e smarrita fra le alghe dal Genio della spensieratezza.

Non v'è sguardo umano, io credo, in questa regione, che alla sera si chiuda senza aver guardato la cima della montagna. Il marinaro la guarda prima di sbrogliare la vela della navicella per leggere nel suo pennacchio la direzione del vento. L'agricoltore vede dalle nubi che si affollano intorno ai suoi fianchi se una pioggia benefica scenderà presto a rinfrescare i suoi campi; il dotto la osserva per misurare la sua piccolezza di fronte ai grandi misteri della natura; l'ignorante vi posa volentieri lo sguardo, perchè tanta bellezza è accessibile anche all'anime più ottuse; tutti infine vi si rivolgono con quel vago dubbio dell'anima, col quale diciotto secoli or sono, ai primi sintomi della fatale eruzione, vi si saranno rivolti i concittadini di Diomede, dai terrazzi della desolata Pompei.

Egli possiede il fascino della ferocia tranquilla, le attrattive della bellezza ruvidamente accoppiata alla modestia; è il gran delinquente dalle bellissime forme che tutti ammirano, perchè è feroce, che tutti amano, perchè è bello.

L'Arcangelo Michele è un poliziotto volgare; Lucifero è un eroe.

Questi pensieri mi passavano per la testa una sera, mentre mezzo assonnato mi cullavo mollemente nel vagone del tramway, che fra le undici e la mezzanotte faceva la sua ultima corsa giornaliera da Napoli a Portici.

D'una ventina d'amici, dei quali doveva comporsi la comitiva, il cielo torbo e minaccioso all'ora della partenza ci aveva ridotti a sei soli, accompagnati da un certo malumore, ma pieni di speranza in quella fortuna che ajuta gli audaci, provvisti di buone gambe e di buoni polmoni, ed animati dalla più ferma volontà d'inerpicarci ad ogni costo a salutare il nuovo giorno dall'orlo dell'infuocato cratere. Il Lacrimacristi per le libazioni di rito lo avremmo trovato lassù. Cominciammo a piedi la nostra salita abbastanza taciturni, perchè l'oscurità del cielo, che ci avrebbe impedito di ammirare nel suo pieno splendore lo spettacolo che le nostre fantasie già pregustavano avidamente, quantunque se lo fingessero mille volte inferiore alla realtà, cominciava ad indisporci assai molestamente, quando uno dei nostri compagni gridò: – Io vedo una stella! – e un altro: – Io due – e io quattro… e sei e otto e mille… – All'apparire della luna le nebbie si squarciarono come per incanto, e con una rapidità straordinaria le vedemmo tuffarsi in giro sotto l'orizzonte, e mezz'ora dopo l'unica nube che interrompeva l'intatta serenità della notte, era il denso pennacchio del vulcano. – Il paradiso e l'inferno si guardavano maravigliati!

Quella certa tinta di malumore che ci era stata compagna fin'allora, non si rischiarò, come si sperava, col dissiparsi delle nubi. Ogni tanto un frizzo o un epigramma ci usciva sbiadito dalle labbra; un riso di convenienza lo seguiva breve breve, e dopo, silenzio perfetto. L'aspetto del Vesuvio, quella notte, era troppo solenne. La insolita vivacità che lo animava, presentava ai nostri sguardi uno di quei grandi spettacoli della natura, davanti ai quali ci sentiamo forzati a contemplare attoniti e silenziosi.

Sotto ai nostri passi risuonavano le lave d'Ercolano, echeggiando su le brune pareti delle casupole che a lunghi intervalli fiancheggiano la via, entro le quali, in mezzo a tanta desolazione e a tanto pericolo, i poveri abitanti riposavano tranquilli. San Gennaro vegliava per loro in molti tabernacoli, alla luce di piccole lampade, imponendo alla montagna con la destra alzata verso la sua cima. Davanti all'immensità della natura, quanta tristezza in quei piccoli lumi! La sterminata fede di questi felici sfortunati è qualche cosa di prodigioso! Venti volte il vulcano ha vomitato le sue viscere di fuoco su le loro misere abitazioni, venti volte ha ingojato ne' suoi torrenti di lava le mura, il tabernacolo, la lampada e perfino la immagine del santo, e per la ventesima volta hanno ricostruito la casa e il tabernacolo; hanno ricollocato la immagine ed accesa la lampada, ed ora dormono sicuri come all'ombra della più esperimentata e valida protezione. Beati loro! Se la prossima eruzione distruggerà ogni cosa, che importa? Si ricostruirà il tabernacolo, si riaccenderà la solita lampada e si tornerà a dormire sotto i ruggiti del vulcano, più tranquilli di prima. San Gennaro, o prima o poi, la grazia la farà.

Il vigore lussureggiante della vegetazione, in mezzo a tanta aridità del terreno bruno e polveroso, specialmente al confronto coi banchi di lava, sui quali l'occhio erra inutilmente in cerca d'un filo di verdura, è davvero maraviglioso. Pare quasi che quelle povere piante abbiano inteso la precarietà della loro esistenza e che facciano sforzi titanici per viver molto in poco tempo. Affrettatevi, affrettatevi, infelici condannate! chi sa che il nuovo autunno, invece che ad accarezzare i vostri frutti odorati, non vegga le sue brezze correre trepidanti attraverso ad un mare di scorie abbrustolite!

Il Piano delle ginestre ce lo siamo lasciato alle spalle; ecco i primi campi di lava! Dio, quanta desolazione e quanto silenzio! Il trovarsi di notte dispersi in quelle brune solitudini, dove la Distruzione e la Morte vegliano sole fra le tenebre, è cosa che abbatte l'animo, poichè ad ogni passo vi torna alla mente una lunga storia di disastri, premendovi al core con una folla di tristissimi pensieri. Se la luna non avesse mandato la sua pallida pioggia di luce, avrei creduto trovarmi, nomade Selenita, in mezzo ad una gelida landa del suo Mare Tranquillitatis, tanto era l'aspetto di morte siderea che mi stava d'intorno. – Inoltrandomi in quella regione selvaggia ed osservandone i particolari e la infinita varietà di forme assunte dalla lava nel raffreddamento, provai un senso che mi parve di paura e dimenticando il mondo lunare, m'immaginai, ad un tratto, d'inoltrarmi fra gli avanzi torrefatti di una battaglia di Giganti, e mi guardai dintorno spaurito. Membra di colossi umani intatte o schiacciate pareva sbucassero di sotto a masse enormi di macerie; torsi, cosce e braccia apparivano disseminati alla rinfusa in quel vasto campo di morte; e rettili giganteschi, parte distesi, parte aggomitolati in larghissime spire, o aggrovigliolati strettamente fra loro come dagli spasimi della morte; e groppe e fianchi di cavalli, e d'animali mostruosi spezzate e sparse in mezzo ad avanzi di tende, e vestimenta lacere e carbonizzate; e affusti, e bombe, e mortai e fortini diroccati, e ammassi di funi, e mille altre forme paurose di oggetti e di fantastiche figure ci contornavano da ogni lato, mentre sembrava che su la cima del cono fumante si combattesse ancora l'ultimo assalto della feroce e sanguinosa battaglia.

Accelerando i passi in questo diabolico paesaggio, giungemmo all'Osservatorio, ossia al quartiere dei domatori della ignivoma belva. Il Palmieri e Don Diego, dopo avere annunziato all'Europa che quella notte 27 maggio 1877 il vulcano dava segni d'insolita vivacità, dormivano. Nondimeno trovandomi all'ombra di quell'edifizio mi sentii sicuro, perchè il sismografo vegliava. Il pensare che anche scoppiando la montagna e scagliando nel sottoposto golfo l'Osservatorio, il Palmieri, Don Diego e la mia comitiva, quello strumento, subito dopo, ci avrebbe annunziata la catastrofe, mi dava tanta tranquillità che ripreso il mio buon umore cominciai a pensare a cose allegre, e mi tornò in mente un fattarello che volli raccontare agli amici, accaduto nella Maremma toscana e precisamente l'anno 1844. Una famiglia di contadini dormiva, una notte, tranquillamente sotto il suo povero tetto, quando il capoccia fu destato dall'insolito schiamazzìo che facevano le galline in pollajo. Dètte una gomitata alla massaja che gli russava accanto e… – Senti nulla? – O la volpe o i ladri fanno man bassa su le nostre galline. – Saltarono il letto senza accendere il lume; dettero l'allarme al resto della famiglia, e qualche minuto dopo, tutti armati di schioppi, di frullane e di roncole correvano verso il pollajo un trenta passi discosto dalla loro abitazione.

 

Non erano anche arrivati a mezza strada, che una terribile scossa di terremoto avea trasformato la casa in un monte di macerie. I polli avevano presentito il fenomeno, e dandone coi loro schiamazzi l'avviso avevano salvato un'intera famiglia da morte sicura. Il fatto è vero; ora fateci sopra quelle riflessioni che crederete migliori. I miei compagni impressionati dal racconto si lasciarono andare a così strane argomentazioni, che ne restai dolorosamente maravigliato.

Si giunse perfino a sostenere che un pollo valeva un sismografo, anzi vi fu uno tanto esaltato, il quale pretese dimostrare che in certi casi un pollo morto vale un sismografo vivo. Qui feci le mie osservazioni alquanto indispettito e mi riuscì deviare la conversazione, perchè son troppo nemico di mandare in burla le cose, non solamente quando sono, ma anche quando pajono serie.

Al nostro giungere al piccolo casolare che precede di pochi passi l'edifizio dell'Osservatorio, alcune guide che dormivano all'aria aperta intorno ad una fiammata di sterpi, destate dai latrati d'un cane che annunziò il nostro arrivo, ci salutarono invitandoci a prender posto intorno al fuoco. Accettammo con piacere, poichè la sizza notturna a quell'altezza era piuttosto pungente. Ivi prendemmo qualche ristoro; scegliemmo fra loro un robusto giovinotto per dirigerci nell'ascensione e poco dopo, fumando saporitamente i nostri sigari, ci rimettemmo in cammino.

Percorso un mezzo chilometro circa di un sentiero abbastanza facile e pianeggiante, cominciò il faticoso cammino attraverso alle lave. La guida avanti e noi in fila dietro a lui, dopo un'ora di faticosissimo cammino fra grossi detriti di lava scabrosa e tagliente, traballando ad ogni passo e scorticandoci i piedi e le mani ogni volta che eravamo costretti a valerci anche di quelle per ritrovare l'equilibrio, giungemmo finalmente alla base del cono.

L'aspetto orridamente pittoresco del paesaggio che ci contornava allora, era superiore alle immagini della più ardita fantasia. Nessuna traccia di vegetazione sotto i nostri passi; da un lato il ripidissimo cono, in cima al quale una enorme nuvola (che tale pareva da vicino il pennacchio) tinta dalla luna ai suoi ciuffi estremi in un bianco perlaceo, bruna nella parte centrale che rimaneva ombreggiata dalla chioma, e rossa sanguigna alla base, rifletteva in larghi palpiti il lavorìo che si compieva nella immane fucina, dalla quale vorticosamente sbucava.

Dall'altro lato le groppe dei colli di lava tinte di un nero metallico, che frastagliate e seghettate acutamente sembravano, attraverso all'azzurro del mare, schiene di enormi ittiosauri, che si affollassero verso di quello per andarvisi a tuffare. Noi eravamo entrati sotto l'ombra del pennacchio e dall'oscurità, nella quale eravamo, ogni tinta assumeva per i nostri occhi il suo più forte valore. Il verde delle campagne lontane; la massa biancastra della città addormentata in mezzo a migliaja di fiammelle; la luna che nascosta ai nostri sguardi ci si mostrava coi suoi riflessi d'argento nello specchio della marina; le isole del golfo illuminate e visibili come in pieno meriggio, e dietro a quelle lo sterminato piano del mare luccicante pei riflessi di una miriade di stelle come un altro firmamento disteso ai nostri piedi, formavano un tale insieme di contrasti e di armonie, offrivano tali bruschi passaggi dal chiaro più luminoso allo scuro più forte, e tali lievissime sfumature sotto un cielo di una trasparenza cristallina, che io credo insufficiente qualunque mezzo umano a darne anche una pallida idea. Il silenzio che ci contornava era spaventoso, e in mezzo a questo silenzio il vulcano mandava a larghi intervalli i suoi rantoli profondi.

In quel punto la nostra guida c'indicò un ammasso di lava, sotto al quale, cinque anni or sono, trovarono la morte due giovani coppie: una di sposi novelli, l'altra di promessi sposi. Questi infelici spensierati, partiti allegramente dall'Osservatorio, s'erano inoltrati fino a quel punto per osservare più da vicino il torrente di lava che correva a destra di chi guarda il cono dal colle di San Salvatore, quando investiti da un getto di gas deleterj caddero asfittici e i loro cadaveri rimasero miserando spettacolo alla infernale solitudine, finchè un torrente di fuoco non gli ebbe travolti nelle sue onde divoratrici. Una lapide di marmo posta sopra un muro presso l'Osservatorio rammenta insieme con quelli di altre vittime i nomi di questi infelici, empiendo l'animo dello stanco viaggiatore di profonda ed ineffabile malinconìa.

Principiammo la salita del cono. Se Ercole avesse intrapreso quell'ascensione, io non dubito punto che l'avrebbe registrata fra le altre sue fatiche. Il declivio è ripidissimo ed il terreno che si calpesta è formato da minutissimi frammenti di lava scabrosi e vetrificati, dove la gamba affonda fino al ginocchio, tantochè dopo aver fatto dieci passi, con fatica inaudita, la via percorsa è appena di un metro. Nonostante si va, si rampica e ci sentiamo tornare nelle membra un vigore, nel quale non avremmo osato sperare pochi minuti avanti, tanta è la febbre dell'entusiasmo e della curiosità che s'impossessa di noi quanto più andiamo accostandoci alla cima paurosa.

Uno de' nostri compagni, un poco indisposto di salute, che fino allora aveva potuto farsi superiore alla fatica con la sua forte volontà, fu vinto da quest'ultima prova e chiese che lo lasciassimo riposare, pregandoci di proseguire, chè ci avrebbe raggiunti più tardi. Noi non lo volemmo subito lasciare ed aspettammo che alquanto rinfrancato riprendesse il cammino. Dopo qualche momento si rialzò, riprese la via, ma ricadde di nuovo a sedere, insistendo perchè si andasse avanti senza pensare a lui. Cedemmo alle sue preghiere, ma rimasero presso di lui due compagni e la guida che aveva addosso alcune provvigioni da bocca, perchè all'occorrenza avesse potuto ristorarsi.

L'andare senza guida incontro ad un ignoto di quella natura; sopra un terreno che cominciava a scottare i piedi, ed in mezzo a fumaroli che ci soffiavano intorno da ogni parte, era cosa che cominciava a darmi sgomento, onde rimasi per qualche minuto indeciso se avessi dovuto attendere o seguire il più robusto dei nostri compagni che vedevo già lontano e quasi arrivato alla cima del monte. – Quando egli si accorse della mia oscitanza e capì quale poteva, molto probabilmente, esserne la cagione, cominciò a gridare, animandomi, che non v'era alcun pericolo; che troppe volte aveva fatta quella ascensione e che era pratico più della guida. Io gli risposi che non dubitavo punto di quanto mi diceva, ma che non avrei proseguito in nessun modo senza la compagnia della guida e mi fermai. Il pennacchio che sbattuto dalla prima brezza dell'alba cominciava a sparpagliarsi su i fianchi del monte, più che qualunque altra cosa, mi dava sospetto.

– Potremo respirare avviluppati in quella cappa di vapori sulfurei? – badavo a domandarmi. – Siamo veramente sicuri che quel vapore, jeri innocuo, non abbia cambiato oggi le sue proprietà? – In pochi discorsi mi trovai preso dal timor pánico ed ebbi un momento assai triste, quando, rinforzato un po' il vento, vidi piegare rapidamente la enorme massa della chioma, scaricarsi sul fianco della montagna e corrermi incontro, rotolando vorticosamente giù per la nuda e ripidissima china.

Ebbi paura, sì, ebbi paura, nè me ne sento umiliato! Davanti alle grandi convulsioni della natura, dove mezzi di difesa non esistono, la parola coraggio è una parola che non arrivo a comprendere altro che in bocca dei vanagloriosi e degli sciocchi.

In pochi istanti mi vi trovai avviluppato interamente; gli occhi mi cominciarono a lacrimare; qualche starnuto, qualche colpo di tosse…; ah! ma si respira! Cambiò subito scena nel disordine momentaneo delle mie idee. Cominciai a gridare, a cantare ed a chiamare gli amici che non vedeva più attraverso alla grossa caligine. Mi fu risposto di sopra: – Corri, è meraviglioso! – e dal basso: – Eccoci, ci siamo anche noi – e in quattro slanci giunsi alla cima, dove poco dopo ci trovammo tutti riuniti. – Il nostro entusiasmo diventò allora frenesìa. Parole concitate, grida di maraviglia, strette di mano, bicchieri all'aria e un correre di sotto e di sopra in mezzo ai richiami della guida che ci gridava continuamente: – Costà no… tornino indietro… non si azzardino tanto da cotesta parte… – Dio, Dio! che soddisfazione, che maraviglioso spettacolo era quello! – Gridai salute ai miei parenti, a' miei amici, anche ai miei nemici, perchè in quelle condizioni d'animo non mi pareva d'averne, e avrei voluto tutti con me a partecipare delle piacevoli, ma troppo violente impressioni di quel momento, ed a lasciarsi stringere ed abbracciare, perchè avrei stretto ed abbracciato anche Lucifero stesso, se fosse apparso a deriderci avviluppato nel suo mantello di fiamme.

Il fumo rabbuffato e sbatacchiato dal vento al di sopra dell'enorme crepaccio era foltissimo al di dentro; onde di tutto il lavorìo che si faceva nel fondo altro non potevamo scorgere che un incessante bagliore e udire una romba ottusa a quando a quando interrotta da sordi ruggiti e urli rauchi ed altri rumori così potenti e così strani, da non trovare raffronto altro che pallidissimo in quelli d'un furioso uragano.

Immaginate lo strepito d'un enorme getto d'acqua che ricade sopra un piano incandescente; una raffica di vento temporalesco che striscia attraverso ad una selva di abeti; la romba di scariche elettriche sotterranee; colpi tirati con maglio poderoso in una gigantesca lamina di rame… ingrandite tutte queste immagini per quanto è capace la vostra fantasia, ed avrete qualche cosa che somiglierà al vero della gola satanica che vomitava urli e fiamme in fondo alla orrenda voragine.

Non potendo appagare interamente la nostra febbrile curiosità, fummo presi dal fascino e sentimmo irresistibile il desiderio di calare in quell'abisso.

La guida ricusò decisamente di accompagnarci.

– Andremo senza di te; insegnaci la via.

– Non ve la insegno.

– La troveremo da noi.

– Aspettate almeno il giorno.

– Subito.

– Ebbene, se volete calare, io vi conduco, ma non più di due per volta e su la vostra responsabilità.

– O tutti, o punti.

– Non vi conduco. —

Persistendo nel nostro proponimento e buttandogli in gola un altro bicchiere di Lacrimacristi, finalmente si dichiarò vinto con queste parole.

– Ebbene, signori, volete andare da vero? andiamo. —

Come arrivammo in fondo non lo so; so che scottandoci i piedi e le mani, che trovandoci ora sospesi ai fianchi tormentati d'una rupe che sporgeva instabile sull'abisso, ed ora vedendo una rupe sospesa sopra di noi, mezzi accecati da soffioni di vapori aciduli in ebullizione, arruffati e sudanti, giungemmo ad una larga piattaforma posta circa alla metà del profondo imbuto fra l'orlo del cratere e l'infernale crogiuolo che vedevamo gorgogliare a pochi metri sotto di noi e lì ci fermammo, perchè era assolutamente impossibile andare più innanzi.

Quale scena sublime! mille occhi non ci sarebbero bastati per afferrarne con uno sguardo tutta la tetra bellezza. Mi sentivo tanto piccolo, che avrei giurato non essere il mio corpo più grosso di un grano di arena. I miei compagni poi non mi parevano più loro, ma ombre fantastiche attraverso a un sogno di febbre. Pensai a Dante, a Shakespeare, a tutti i grandi della terra, e tutti mi passarono attraverso al pensiero come pimmei, tanto era gigantesco l'orrendo spettacolo della orribile bolgia, entro alla quale ci eravamo cupidamente avventurati.

Allora non più paure, non più dubbj di pericolo; la vertigine ci aveva presi, eravamo ubriachi di ruggiti e di fuoco, e se un getto di lava ci avesse ricoperti, saremmo caduti gridando di gioja come il pazzo che vede bruciarsi addosso la veste; i nostri corpi avevano perduto il sentimento della loro individualità, e ci sentivamo nulla più che invisibili atomi confusi e dispersi nel turbine della tempesta.

Le pareti della mostruosa caverna, incrostate su tutta la loro scabra superficie di cristallizzazioni di zolfo, ed illuminate ora dai bagliori del fuoco, ora dalla luna che filtrava attraverso alla densa nuvola di fumo, riflettevano umide e luccicanti tutti i colori dell'iride. Lassù in alto una rupe gialla stava sospesa sopra un ammasso di lapilli di un turchino carico; accanto, una muraglia a picco tutta screpolata e fumante da larghe fenditure orlate da cristallizzazioni di altri colori vivacissimi andava a nascondere la sua base nel fondo del baratro. Su la nostra sinistra l'immensa breccia, dalla quale traboccarono le lave del 72, e di fronte l'altra apertura, dalla quale la nera e irsuta cresta del Somma, la montagna, su la quale Spartaco alzò il grido dei ribelli, si vedeva attraverso alla nebbia di centinaja di fumaroli che in linee parallele mandavano piccoli getti di vapore grigiastro che si svolgevano all'aria come tante code di cavallo fitte nel terreno ed agitate dal vento, e sul fondo di questo maraviglioso scenario passavano velocemente e si rincorrevano e si azzuffavano per l'aria, inerpicandosi o strisciando rapide sulle pareti del precipizio, frotte di demoni alati, che altro non sembravano ai nostri sensi instupiditi le ombre portate dai nembi di fumo che sbucavano vorticosamente dal fondo.

 

E intanto noi, mentre in mezzo a quella scena orridamente selvaggia, il Globo faceva intendere la sua voce potente, che facevamo? Rannicchiati sopra una rupe che si spenzolava nel vuoto, si ascoltava e si guardava in silenzio.

La bocca d'eruzione che vedevamo pochi metri al di sotto di noi, era il punto più spaventoso. Dai formidabili ruggiti che si levavano dal fondo pareva che un branco di leoni spirassero urlando tra le fiamme di una mostruosa fornace. – Il fluido che si agitava nel gorgo, abbassando e rialzando a brevi intervalli la sua massa vorticosa, gorgogliava e brontolava cupamente, finchè gonfiandosi nel centro si sollevava a poco a poco rompendo in grosse bolle alla superficie e lanciando da ultimo in aria, con una esplosione violenta, vortici di fumo infuocato e lava in forma di lacerti sanguinanti, che giungendo quasi alla nostra altezza ricadevano parte sempre liquidi e parte raffreddati, o nel crogiuolo o al di fuori, con lo strepito sinistro di una pioggia di pietre. Gl'intervalli fra un boato e l'altro, in alcuni momenti erano brevissimi, per modo che spesso un getto che ricadeva ne incontrava un altro che saliva, urtandosi e spezzandosi in faville, e ad ognuno di questi boati corrispondeva un bagliore come di scarica elettrica che andava a riflettersi brillando sul pennacchio e ad infuocarne la base.

Non so quanto tempo ci trattenessimo laggiù; ma so che mai non ce ne saremmo staccati, malgrado dei ripetuti inviti della guida, se non ci fossimo accorti che il sole incominciava già ad indorare la cima del cono. La sola idea di non perdere il panorama del golfo al sorgere del sole poteva rompere l'incantesimo che ci teneva incatenati là in fondo. Dopo un quarto d'ora di faticosa ascensione, uscimmo dal cratere… Dio, Dio! è troppo! sono impazzato? son vittima fortunata d'un incantesimo? Che sublimità di spettacolo era quella! Credei d'aver fumato l'oppio, d'aver bevuta l'Haschisch… io non so che cosa credei, ma in verità, con la mente già ubriacata dallo spettacolo di poc'anzi, ebbi un momento, nel quale mi parve d'essere impazzato davvero. Badavo a tastarmi le membra, a passarmi le mani su gli occhi e su la fronte, nè potevo persuadermi che quello che mi stava dinanzi era opera della natura. Pareva il lavoro delicato d'una Fata gentile; veniva voglia di temere che l'aleggio d'un insetto lo potesse disfare e si tratteneva il respiro, quasi temendo che anche l'alito più lieve potesse turbare quel diafano incanto.

Non credo a spettacolo più sublime.

Quando dalla cima di un vulcano che freme, gettando la sua ombra sul mare, i nostri occhi hanno dinanzi il sole che sorge fra le criniere nevose degli Appennini; la baja di Castellammare, tutta la riviera di Sorrento fino al capo Campanella; e Capri e Ischia e Procida coi loro picchi tinti di rosa dalla prima luce del giorno; e la pianura e Napoli tuffata nelle onde, che stende al mare, come una Ninfa innamorata, le sue bianche braccia da Posilippo a Resìna, la fantasia si smarrisce, l'animo si riempie di tanta malinconìa, le forze nervose cadono in tale abbattimento, che di tanta folla di sensazioni altro ricordo non resta che confusione e dolcissima tristezza.

Il popolo solo ha scolpito le bellezze di questa sua Italia fatata, nella malinconìa de' suoi canti.

L'aspetto del panorama si cambiava intanto rapidamente. La luce del giorno, dalla cima delle montagne scendeva rapida giù pei loro fianchi violetti; i vapori lievissimi della pianura sparivano; la vita si ridestava sulla terra e sul mare con migliaja di torrette che fumicavano e di barche che si staccavano spumeggiando dalle coste, e pochi momenti dopo anche la immensa città, simile ad un banco di lava biancastra solcato da profondi crepacci, brillò sommersa in un oceano di luce.

– Ah! godi, godi, Napoli mia, perchè davvero è grande la tua bellezza. Quante volte scorrendo la tua storia sanguinosa ho imprecato alle avide ombre di Corradino e di Murat, ma ora dall'alto di questa torrida roccia le scuso e le compiango. Godi, godi nel tuo letto di alghe e di fuoco, o bellissima Salamandra. Cuma, Baja e Miseno caddero tra i boati della Zolfatara e le scosse del formidabile Tifèo, ma erano meno belle di te. Morì, è vero, la rosea Pompei e la bruna Ercolano sotto la furia del tuo Vesuvio, ma il tuo Vesuvio ti guarda e sospira; anche lui deve amarti, sei troppo bella. —

Era tempo di discendere. Rotolandoci su i lapilli, in pochi minuti calammo all'Atrio del Cavallo; di lì, attraversando le lave che alla luce del giorno parvero meno micidiali alle nostre povere membra, giungemmo presto all'Osservatorio. Una breve fermata, un sorso di vino e di nuovo in viaggio, ma questa volta per la sospirata via rotabile.

Poco sotto alla casetta dell'eremita incontrammo una comitiva di signori in un ricco landau tirato da quattro cavalli. Ci guardarono ridendo, forse dei nostri aspetti rabbuffati, e, mi parve, con una certa aria di commiserazione. Guardai loro e ridendo io pure sotto i baffi. – Ah! no, signori miei, avete torto, – dissi fra me: – quando c'incamminiamo al Vesuvio strascicati da quattro cavalli, con le lenti affumicate, coi guanti glacés e gli ombrellini da sole, non si dovrebbe ridere altro che passando davanti ad uno specchio. —