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Napoli a occhio nudo: Lettere ad un amico

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Pompei è la città che ha saputo morir meglio di tutte le altre sue bellissime sorelle della Magna Grecia, poichè la morte violenta per asfissia è l'unica morte che si addice alla bellezza. Sui giganteschi ruderi di Agrigento e di Siracusa, sui loro scheletri corrosi dal tempo, l'archeologo non può studiare che osteologia, mentre il cadavere di Pompei ha tutte le sue membra intatte; il suo sangue è fermo, ma non ha perduto il suo roseo colore che trasparisce sotto la pelle gentile. L'anima è partita ed il corpo non si è corrotto.

Se si eccettuano le impalcature e le coperte delle case che erano formate da terrazzi, quasi tutti gli edifizi di Pompei potrebbero essere anche oggi comodamente abitabili. Gl'impiantiti delle stanze, per la massima parte fatti a mosaico, sono tutti al loro posto perfettamente conservati; gl'intonachi delle pareti e i loro dipinti sono così freschi da sembrare impossibile che il Tempo e l'Oblio vi abbiano per tanti secoli battute sopra le ali, quando ne ammiriamo la forza e la vivacità del colorito. Molte case sono tanto compiutamente conservate, che perfino alcune sottili e delicatissime cornici di stucco a scagliola, lavorate a minute membrature di fogliame, di vovoli e di fusarole in alto rilievo, vi si trovano intatte. Ed è così fresca l'aura di vita che regna tuttora in quelle anguste ed eleganti casette che fra tutte le immagini che dolcemente tumultuose si sollevano nel core, ultima è quella delle strida e dei rantoli disperati delle misere vittime che sorprese dalla pioggia infernale cadevano abbrustolite per le strette vie o soffocate nel fondo dei sotterranei. Si ritorna invece a viver con loro; ne vediamo le gioie intime, le pubbliche feste e par di intendere ancora le voci allegre dei crocchi domestici, lo strepito dei festini imbanditi nelle ricche sale di Diomede e la romba della voce del popolo sollevarsi confusa dalle traboccanti gradinate dell'Anfiteatro.

In mezzo alla vita imbevuta di gentilezza greco-romana che si respira là dentro, ed in tempo che si ammira stupefatti la cura che è stata presa per il perfetto mantenimento di tante maraviglie, dispiace soltanto il vedere come a nessuno ancora sia venuta la felice idea di ripristinare una casa, una sola basterebbe, corredandola di tutti i suoi mobili, che nessuno scapito verrebbe a risentirne il già troppo ricco Museo, preparando così intero l'inganno al taciturno visitatore.

Anche la posizione, su cui si è addormentata questa città, non è quella che noi ci eravamo immaginati e che tutti s'immaginano. All'idea di una città sepolta succede subito l'idea o di bassura umida o di orizzonte limitato. Non è vero. Pompei siede sul colmo di un colle; da ogni parte l'occhio spazia in un largo orizzonte e quei bastioni di terra che ci eravamo figurati dovessero incontrarsi ad ogni estremo delle sue vie dissepolte, e dovessero serrarla come nel fondo di una vastissima cisterna, non gl'incontrammo. Tutto è luce, spazio ed allegrezza quello che si scorge di lassù. Il Vesuvio solo ha cambiato aspetto vedendolo da quelle mura. Il Vesuvio che osservato da qualunque altra parte si mostra sempre severo, ma non mai sinistro, veduto da Pompei è truce. La sua massa apparisce da quel lato più scabrosa, più tormentata e più nera; rare abitazioni si vedono soltanto giù alle sue falde e la vegetazione manca affatto. Scendendo per la via dei Sepolcri, lo guardavo con paura e me ne dispiaceva per lui. Il mio Vesuvio che da ogni altro luogo non avevo mai guardato senza sentirmi battere il core dolcemente commosso, come alla vista d'un burbero e benefico vecchio, mi fece allora ribrezzo, e mi sentii raccapricciare come alla vista d'un omicida, che ferocemente tranquillo fuma ed osserva il cadavere della sua vittima.

Non ci trattenemmo lungo tempo in Pompei. Accompagnati da una folla di pensieri lontani lontani, calammo alla prossima stazione della strada ferrata, dove una numerosa comitiva dei soliti pellegrini faceva un baccano diabolico. Dopo un quarto d'ora, durante il quale ci fu strappata malamente ogni poetica illusione, partimmo, ed ora eccomi qui in Napoli a scriverti questa lettera che non voglio chiudere senza raccontarti, giacchè mi capita la palla al balzo, un aneddoto originale a proposito di questi pellegrini, che sono stati il mio incubo dalla partenza da Firenze fino ad oggi.

Ne ebbi sei, maschi e femmine, per compagni di viaggio da Chiusi a Roma; e con quanto piacere gli udissi sbuffare per tutta la via e dir male di tutto e di tutti in tre o quattro lingue, te lo puoi figurare. Quando fummo in mezzo al nudo squallore della campagna romana, dove il Tevere sprovvisto di argini e di ripari, corre alla ventura per lo sconfinato piano come un torello scapestrato, e dove la vita animale è rappresentata soltanto da qualche sparpagliata mandra di bufali, su le cui groppe affossate s'appollaiano in cerca di cibo gli storni, o dal volo di una gazza che, lasciato il nido, fugge spaventata dal fischio della locomotiva, mi abbandonavo ad una folla di tristissime riflessioni, domandandomi se realmente mi accostavo alla Capitale d'uno de' più inciviliti regni di Europa o piuttosto ad una colonia da poco fondata nell'interno della Nuova Zelanda, quando uno di costoro si affacciò allo sportello del vagone. Mandò un grido d'all'arme e subito tutti si affollarono allo stesso sportello pestandomi pietosamente i piedi e scuotendomi negli occhi il tabacco dei loro fazzoletti, mentre gli sventolavano gridando: – Romà, Romà! – verso un pagliajo che avevano preso per la cupola del San Pietro. Risi in corpo di questa scena grottesca, e dell'osservazione che mi venne fatta in quel momento, cioè che tutte le pellegrine hanno la barba e gli uomini no; ma risi più che mai quando la cupola del San Pietro spuntò da vero svelta e maestosa sull'orizzonte sereno. La guardarono fissi per qualche tempo; stettero un pezzo a disputare, accennando verso la sua mole imponente e da ultimo, mentre m'aspettavo che scoppiassero in un urrà di entusiastiche acclamazioni, li vidi invece tornarsene mogi mogi a sedere, senza dar segni di vita. – L'avevan presa per un pagliajo.

LETTERA IV.
Dove si parla dei quartieri de' poveri

Napoli, 14 maggio 1877.

Quando, per la prima volta, mi dettero nell'occhio quelle numerose turbe di cenciosi vestiti del colore della lodola, che si confonde con quello del terreno, dentro al quale si svoltolano e che a migliaja sbucano alla sera dai loro tenebrosi vicoli, aggruppandosi agli sbocchi di quelli come mosche su gli usci d'una fabbrica di colla, grattandosi, spulciandosi e spidocchiandosi voluttuosamente, mi tornò alla memoria il verso del Belli:

 
O come fa a magnà tutta 'sta ggente?
 

A questa domanda avevo già trovata la risposta nell'osservare come un buon figlio della vecchia Partenope si lecchi ghiottamente le labbra, dopo aver desinato con un torzolo di cavolo o con un cesto di lattuga, senza pane, senz'olio, senza aceto e senza sale, e ringraziando mille volte la Provvidenza della grazia ricevuta. Ma volli aggiungere un'altra interrogazione, per conto mio, e la espressi formulandola per imitazione in un endecasillabo romanesco, chiedendomi:

 
O dove va a dormi' tutta 'sta ggente?
 

Non potendomi risponder subito, mi risposi ieri ingolfandomi attraverso allo squallore dei loro desolati quartieri.

Se tu mi avessi visto partire per questa specie di viaggio, avresti pensato che io andassi per lo meno a scovare una masnada di briganti nel fondo di una foresta.

Il vestito serrato dal primo all'ultimo bottone; sprovvisto di qualunque oggetto di valore, come sarebbero anelli, orologio, catena ec., il portafogli appena fornito di qualche franco, e la destra sull'impugnatura della rivoltella che mi pendeva dalla cintola, parevo addirittura una corazzata di casimirra inglese che si preparasse a toccarne. Guàrdati, m'era stato detto prima che venissi a Napoli, son luoghi pericolosi. Ed io mi guardai.

Ora poi sono in grado di assicurarti che un pane di quattro libbre o una tascata di soldi sono le uniche armi, delle quali occorre provvedersi in simili congiunture, per aver poi tante benedizioni da volare in paradiso di punto in bianco, anche se un accidente ci levasse lì per lì da questo mondo, senza i conforti della religione. Rimbóccati i calzoni, túrati il naso e vieni con me.

I vichi di quel gruppo di case addossate al colle del Pizzofalcone, che formano il quartiere di Santa Lucia, sono cinque, lunghi ciascuno in media una trentina di metri e larghi due, e in questi vichi si rintanano la sera dalle quindici alle venti mila persone, il qual numero equivale presso a poco alla popolazione di una grossa città di second'ordine.

Le case che li fiancheggiano sono alte; la luce ci filtra appena attraverso alla enorme quantità di panni tesi ad asciugare, ed alla miriade di altri oggetti come reti, nasse, canne da pesca, zucche, staggi da bilance, cappotti attaccati a chiodi o spenzolati ai balconi, ingombrando le pareti da terra all'ultimo piano; l'aria non vi ha libera circolazione, perchè priva di sfondo dal lato della collina; il lastrico o non esiste, o è mal connesso, o non si vede, perchè nascosto sotto uno strato umido d'immondizie di ogni genere in putrefazione; l'aria è grave; il puzzo qualche volta insopportabile.

Ieri volli levarmi la curiosità di fare una gita di piacere là dentro e vidi quello che ti racconto.

Appena messo il piede nel primo chiassuolo, credetti ad un tratto di assistere ad una scena diabolica del Macbeth o della Notte di Valpurga. Una folla di spettri cominciò a sbucare da ogni parte come di sotto terra, e gesticolando e parlando tutti insieme con voci rauche, in una lingua che non intendevo, mi corsero incontro e mi si affollarono addosso.

 

Il loro aspetto mi fece ribrezzo; mi tirai al muro e con un cenno risoluto feci loro intendere che si tirassero indietro. Intesero, e guardandomi stupidamente coi loro occhi infossati, si misero in disparte sbigottiti e confusi a guardarmi con stupida curiosità. Allora potei osservare tutta l'orrida realtà di quei fantasmi umani.

Erano tutte donne e la maggior parte vecchie, magre e sparute come cadaveri. I loro visi non avevano fisonomia, o, per non dir troppo, l'avevano, ma quella della maschera, quella fisonomia fissa, su la quale non si riflette nessun sentimento dell'animo; fredda ed inerte appunto come le loro anime accasciate sotto il peso enorme della più squallida miseria. Molte erano ammalate d'occhi ed avevano la faccia deturpata da bolle schifose o da uno strato di lordume ributtante. La loro occupazione, in tempo che mi guardavano trasognate, come se fossi stato una bestia rara, consisteva nel tirarsi addosso, ora di qua ora di là, i lerci brandelli, di cui erano malamente coperte, o nel grattarsi accanitamente la testa ficcandosi con rabbia le unghie nei capelli infeltriti. Qualche donna giovine teneva al petto uno scheletrino umano che piangeva o succhiava smanioso a una mammella vuota e cascante.

Soddisfatta la prima curiosità, fissai gli occhi addosso alla più oscena di quelle miserabili, la quale appena s'accorse d'esser presa di mira, smise di grattarsi e stese una mano d'Arpia verso di me.

– Che vuoi? – le dissi. – Mi rispose facendomi il cenno della fame col girarsi in tondo davanti alla bocca il pollice e l'indice aperti.

– Fammi vedere la tua casa e poi ti darò qualche cosa. —

Fu come buttare polvere sul fuoco. Mi saltarono tutte addosso e, tira di qua, tira di là, ognuna mi voleva procurare lo stesso benefizio.

– Signorino, venite a vedere la mia. – Venite con me, venite con me. – Io io: la mia, la mia. – Ora, ora, – badavo a dire io, – ora, ora; se darete tempo verrò da per tutto, ma non v'accostate tanto, per Dio! —

E in quel mentre cercavo di schermirmi meglio che potevo, ma non bastò. Arrivato a casa potei accertarmi che i loro contatti non erano stati infecondi.

Fatti pochi passi, la donna, alla quale avevo domandato della sua casa, si fermò davanti ad un'apertura tenebrosa, di cui l'affisso ed i pietrami cascavano a pezzi, e accennandola mi disse: – Servitevi, eccellenza. – Mi voltai a lei facendo un atto come per dirle: – Tu m'inganni. – Intese benissimo e insistè: – Servitevi, servitevi, passate nel mio palazzo. – Aveva anche il coraggio di scherzare!

Entrai. Il suo palazzo consisteva in un'unica stanza, due scalini più bassa del terreno. L'impiantito era formato di terra umida e di sudiciume; il buio, fuorchè in prossimità dell'uscio, che lasciava passare la scarsa luce colata dall'alto, era assoluto; il puzzo che sbucava di là dentro non saprei dire di che fosse; era puzzo d'ogni cosa, e tanto acuto e tanto grave che durai fatica a vincere la nausea che mi buttava indietro.

Se non avessi avuto fiammiferi, neanche con la fantasia del Dickens mi sarebbe stato possibile descrivere l'aspetto di quella sepoltura di vivi, tanta era l'oscurità che regnava là dentro. Ne accesi uno ed allora potei scorgere tutto il lusso asiatico del palazzo, nel quale era capitato.

Il terreno era ingombro di lordure d'ogni genere; le pareti e il palco erano coperti di ragnateli e di una patina lucida e viscosa; la mobilia consisteva in qualche pietra che teneva il posto di seggiola rasente al muro ed in un pagliericcio color del terreno, steso in un canto.

Una figura umana, rintanata nell'angolo più buio della stanza, mi dette nell'occhio. Le andai incontro per osservarla con passo lesto, perchè non vedevo l'ora d'uscire dal tanfo che mi levava il respiro, quando sentii partire da quel mucchio d'ossa e di sozzure una voce rantolosa che diceva qualche parola che non intesi. – Chi è? – domandai a quella donna che mi accompagnava. – Vavama (la mia nonna) – mi rispose – che vi dice che gli avete scacciato le zoccole (le talpe). – Guardai per terra e vidi infatti qua e là alcune talpe grasse bracate che sedute dignitosamente si lustravano le basette, aspettando che quest'importuno avesse loro levato l'incomodo. M'impostai per dare una pedata a quella che m'era più vicina, ma la vecchia mandò un grido fioco e disperato. – Che t'è seguito? – le domandai. – Non le scacciate, – mi rispose brontolando, – non le scacciate, son creature di Dio anche loro.

– Ma come! E saresti proprio affezionata a quelle bestie? – Son trent'anni che ci ajutiamo fra noi, signorino. Date un soldo a questa povera vecchia, – e stese verso di me un braccio mummificato. In tempo che mettevo mano a tasca, la volli osservare. Era cieca da un occhio; la carne del suo viso e delle sue braccia era a squamme color del tabacco per una malattia della pelle; aveva una larga piaga in una gamba, che non le permetteva di camminare, onde senza muoversi dal sedile di pietra su cui stava da qualche giorno, faceva lì i suoi pasti luculliani e lì intorno deponeva i suoi escrementi. L'amicizia delle talpe non era tutta disinteressata.

Non credere, amico mio, che ti racconti novelle. Ti scrivo, è vero, dalla Magna Grecia, ma la mia, lo sai per prova, non è – græca fides. —

Su quel pagliericcio ammuffito veniva a dormire la sera il resto della famiglia, composta di otto persone. Due le avevo conosciute, le altre sei, quando io mi trovavo là dentro, erano per le vie di Napoli a guadagnare la giornata. Gl'inquilini di questo maraviglioso locale pagano nove lire al mese! Eppure nessuno ancora si è dato per inteso di questa specie di crudele rapina!

Appena ebbi messo qualche soldo nella mano della vecchia, cominciò un baccano diabolico nel gruppo di donne, che affollate mi stavano ad aspettare su la porta, per voler qualche cosa anch'esse. Uscii fuori inorridito, presi una larga boccata d'aria meno peggio e promettendo soldi a condizione, seguitai con le altre megere il disgustoso pellegrinaggio. Non starò a farti una descrizione particolareggiata di quello che vidi in appresso, per non allungar troppo questa lettera, ma per sommi capi cercherò di dartene una idea.

In una specie di fondaco che esiste nell'interno di questo vico, dove i piani terreni o bassi sono tutti dello stesso genere di quello che ti ho descritto, volli salire ad un primo piano e per una scoscesa gradinata che molti anni addietro deve esser sembrata una scala, capitai in un vespaio di altre spelonche fetide e buje. Traballando ora per gli avvallamenti dell'impiantito, ora per aver inciampato in un monte di spazzatura, in uno de' soliti pagliericci stesi per terra, feci un giro alla lesta, perchè il tanfo e il caldo umido mandato dai corpi d'una moltitudine d'infelici che languivano là dentro, era insopportabile. Nel fondo d'uno di questi antri mi arrivò al core una voce fioca e lamentevole. Cercai con gli occhi nell'oscurità, ma non potei scorgere l'infelice che la mandava. Domandai allora di che si trattasse. Mi fu risposto: – È una povera partoriente che chiede la vostra carità. – Sola! – osservai. – No, guardate, ci stanno d'appresso due comari. —

Mi fecero premura perchè la vedessi, ma con qualche scusa potei scansare quella vista dolorosa. Domandai soltanto se fra quelle donne che l'assistevano v'era la levatrice, ma non intesero nemmeno il vocabolo. In un'altra stanza trovai un bambino di tre in quattro anni addormentato sopra un mucchio di spazzatura. Mi chinai ad osservarlo alla luce d'un fiammifero, e vidi che aveva le gote nere affatto dalle cimici; i capelli poi si muovevano addirittura sotto il brulichìo di altri insetti. Fui scosso tanto dolorosamente da quella vista che, vinta ogni repugnanza, mi chinai e con una mano mi misi a pulirgli le gote. La madre, che fino allora io non aveva saputo qual fosse, in mezzo all'orrida tregenda che mi faceva ala e corteggio, mi si avventò furibonda al braccio, gridando come una cornacchia e me lo tirò indietro. Io m'alzai indispettito e la guardai arcigno. Essa mi ficcò in viso due occhi che schizzavano faville di rabbia, e alzando i pugni in aria di minaccia, mi disse, digrignando i denti e tremando di rabbia, che non toccassi la sua creatura. Alcune donne del gruppo ed un vecchio che avevano capito la mia intenzione, furono subito intorno a noi, cercando persuaderla, ma su le prime non fu possibile farle intender ragione; seguitò a guardarmi inferocita ed a gridare che non toccassi la sua creatura.

Allora nacque un bisbiglio diabolicamente animato. Chi la riprendeva per me, chi per lei. Io pure m'adopravo a dire le mie ragioni, ma predicavo al deserto, perchè non ero inteso; ma finalmente le vidi ammansire la collera e, dopo poco, accostossi a me raumiliata, quasi a chiedermi scusa, pregandomi però di non toccare il suo figlio, perchè aveva la febbre e appena desto, si sarebbe messo a strillare. Io cedei volentieri alle sue preghiere, e feci le viste di credere a quanto mi diceva, ma dalla scena violenta che aveva avuto luogo senza un motivo plausibile e dalla paurosa diffidenza, con la quale seguitò a guardarmi, non mi ci volle molto per capire che il timore della jettatura avea suscitato quel disgustoso parapiglia.

Che impasto orrendo di stupidità, d'amore e di ferocia!

Visitai anche gli altri chiassuoli e da per tutto lo stesso umido, lo stesso fetore, la stessa nuda miseria.

Una vecchia che stava seduta come un orso spelèo su la soglia della sua tana, rosicando una lisca di pesce, raccattata poco fa fra i rigetti d'un'osteria, fermò la mia attenzione e le chiesi di visitare il suo appartamento. Sul principio mostrò diffidenza e restò un pezzo a darmi risposte evasive, squadrandomi sospettosa da capo a piedi. Ma finalmente, persuasa dalle mie dolci compagne, mi fece segno che passassi. Il suo letto era una vecchia imposta d'uscio su due seggiole sconquassate. Finsi di non credere che essa dormisse lì sopra e intanto, ricordandomi della nostra comune amica signora X, la quale stette tre notti intere senza chiuder occhio, perchè il tappezziere tardò a riportarle il suo letto di piuma con le molle che aveva preso ad accomodare, sentii un sorriso doloroso passarmi su la faccia.

Alla vecchia non sfuggì il mio sorriso che credè fatto per sè. Allora per darmi una prova evidente di quanto mi asseriva, distese sopra all'imposta qualche straccio che andava raccattando qua e là per la stanza, ed una stuoja di giunchi ridotta in brani, e quando ebbe tutto disposto, giurandomi su la Madonna che quello era il suo letto, e stendendo le braccia verso un immagine che pendeva irriconoscibile ad una parete, vi si sdrajò supina, mandando un Oooh! lungo lungo di compiacenza. Quando fu scesa mi disse che provassi a sdraiarmivi anch'io, ripetendomi che non vi si stava poi tanto male, quanto pareva che io mi fossi immaginato. Come puoi credere, non feci altre osservazioni in contrario, anzi per liberarmi dalla terribile prova, convenni addirittura che per lo meno nell'estate doveva essere una fortuna l'avere un letto così ventilato e salubre. E a lei non balenò neanche l'idea che io scherzassi, perchè indicandomi un spazio libero in terra, in mezzo a due letti che erano in fondo alla stanza, mi disse: – Guardate, signorino, chi starà peggio di me stanotte! – E mi raccontò che essa, con gli altri quattordici inquilini della stanza, faceva la carità ad una vedova che rimasta sul lastrico per la morte del marito, sarebbe venuta per qualche tempo a dormire lì sul terreno nudo coi suoi cinque figlioli, il maggiore dei quali aveva dodici anni. Non rifiatai; la vecchia aveva ragione.

Eh, Dio mio! Ma se volessi seguitare a raccontarti di questi graziosi episodj non la finirei più.

In un sottoscala, al solito buio, trovai una giovinetta orfana di circa sedici anni, che preparava il desinare per sei fratellini e sorelline tutti minori a lei. Questo desinare si componeva di ventidue chiocciole che bollivano in una pentola sbocconcellata, e di altrettante castagne secche che aveva date a rinvenire ad una sua vicina, perchè a lei mancava un recipiente qualunque per fare quella operazione. I sette fratelli e sorelle dormivano sopra un pagliericcio tanto corto e tanto stretto (non dico tanto lercio, perchè si sa) che appena due esili persone ci sarebbero potute entrare rannicchiandosi. Come avranno fatto a entrarvi tutti? Non lo so. E le conseguenze di questo guazzabuglio mascolino e femminino? Maestro Raffaele, non te ne incaricà. Eh! ma n'ho viste anche delle peggio, e di queste ti parlerò a voce al mio ritorno.

Ho visitato anche la famosa grotta alle Rampe di Brancaccio. È una caverna, divisa in quattro o cinque ambienti, tutti in comunicazione fra loro, scavata nel tufo della collina.

 

È una specie di caverna ossifera; una tana da coccodrilli, dove una iena morirebbe di puzzo e di paura. Eppure anche là dentro, accatastate alla rinfusa, fra le tenebre rotte soltanto qua e là da due o tre aperture, mi pare, e non più, tra 'l puzzo de' cessi aperti a capo dei letti, e l'umidità che cola dalle pareti, languiscono quaranta famiglie composte di circa dugento individui, che hanno il coraggio di sorridere e di scherzare. Vi fu un giovinotto, il quale conducendomi attraverso ad una quarantina di letti divisi fra loro da cenci d'ogni colore distesi su corde, volle menarmi in ogni modo a vedere quella ch'ei chiamava la sua galleria, cioè il ramo di caverna, dove aveva il suo letto, e seguitò a scherzare chiedendomi scusa se non apriva «le finestre che non v'erano.» Una cosa sola mi fece maraviglia là dentro, e fu di non trovare che un solo malato, un povero operajo d'un grado un po' superiore ai suoi rumorosi coinquilini, il quale vergognandosi di me, stette sempre rannicchiato nel suo canile, nascondendosi la faccia fra le mani.

Ma se avessi avuto almeno il gusto di sentirmi dire una insolenza, di sentirmi lanciare un insulto su la mia faccia di salute o su i miei abiti decenti, sarei escito di là dentro meno disgustato. Ma nulla! Eccellenze e riverenze e atti d'umiltà indecorosa da ogni parte; nulla che mi facesse intendere che erano uomini anch'essi. E tale l'abbattimento fisico e morale di questi infelici, che non sanno comprendere, nonchè aspirare ad un miglioramento qualunque delle loro misere condizioni. L'abitudine di vivere in quello stato è così profondamente radicata fra loro che, anche arrivando o col lavoro o con la camorra a conseguire i mezzi per liberarsene, non lo fanno.

Jeri visitai anche i centri del Pendino e del Porto, l'Imbrecciata ed altri simili letamai, e da per tutto le stesse delizie: bujo, fetore, umido, cessi rotti, fogne traboccanti, erpeti, oftalmie, piaghe, tigna, glandule ed altre gioie dell'umanità su larghissima scala in mezzo alle quali, non un numero ristretto, ma migliaja e migliaja di tribolati, come animali immondi, languiscono in silenzio ed in silenzio muojono, rassegnati alla sorte che la società ha voluto loro serbare. Vidi un giovinetto, al quale mancava un occhio che gli avevan mangiato le talpe da piccolo. In un'altra stalla umana che trovai, non mi rammento in quale altro quartiere, ma mi pare di certo nel Vico Grotta a Santa Lucia, mi fu raccontato che circa quattro anni fa una madre, dopo aver lasciato solo per qualche ora un suo figliolino in fasce, lo trovò ammazzato da queste stesse talpe, che gli avevan rosicato il naso e le labbra. A te farà ribrezzo e maraviglia il sentir dire di queste cose; a me, sì, fa ribrezzo, ma in quanto a maraviglia, neanche per ombra. La maraviglia dopo aver visto di che si tratta, la provo soltanto nel pensare come di questi fatti non se ne ripetano in maggior quantità, e come non nasca una pestilenza o una lebbra da infettare anche i pipistrelli, che a mezzo giorno svolazzano là dentro ingannati come in pieno crepuscolo. Ma dunque, tu mi domanderai, non ci sono ricoveri, non ci sono case ospitaliere? Sicuro che ci sono! ma quando tu le avessi viste, capiresti come la maggior parte di quelle non siano tali da invogliar troppo i miserabili, e come alcune poi non valgano da vero la libertà che rimane a questi disgraziati, di potere almeno sguazzare nel sudiciume natìo senza rimanere obbligati a nessuno, o crepare di stento a loro comodo, per andarsene dopo a battere in pace l'ultima capata nelle cisterne del Camposanto Vecchio. Ci sono anche le case da operai. Sicuro che ci sono! Ne fu costruito un gruppo assai grosso sulle altura di Capodimonte, ma quando furon finite, parvero tanto belle anche agl'intraprenditori di quel lavoro, che crederon bene d'andar essi ad alloggiarvi. Ma dunque nessuno, proprio nessuno s'occupa di questa inezia? Questo non saprei dirtelo; so che intanto si fanno molti e graziosi giardinetti lungo la marina; so che si profondono candelabri a gas dove non ve n'era assolutamente bisogno; e allora vedrai che qualche cosa scapperà fuori, giacchè quando si vede molto fumo per la casa, si può star certi che un po' d'arrosto, o prima o poi, comparirà anche in tavola.

L'unico essere, il quale s'occupi sul serio della questione e che provveda instancabilmente abiti nell'inverno, medicamenti e disinfettanti nelle altre stagioni, e cure e carezze di ogni maniera, con quell'amore, con quell'affetto disinteressato che qualifica il vero filantropo, è questo Sole; Lui! questo meraviglioso assessore d'igiene, che da tanti secoli brilla benefico su le miserie dell'umanità, senza aver ancora trovato un cane che vi soffi e lo spenga.