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Napoli a occhio nudo: Lettere ad un amico

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In mezzo alla putredine di una società costituita su tali basi, la peggiore anarchia morale trovò il suo alimento, ed in tempo che da un lato rare ed eroiche individualità sorgevano sdegnose a fare intendere il loro grido di ribellione fra le torture, le galere e gli esilii, la gran massa degli oppressi volgari, irritata contro tutto e contro tutti dalle continue e minute sevizie d'una sbirraglia selvaggia, prepotente e brutale, ribollì nel suo fango, e la camorra che fino allora aveva strisciato umile e scalza nei bassifondi sociali, alzò ardita la testa; ferocemente oppose la prepotenza de' suoi muscoli e de' suoi coltelli alla prepotenza legale, spesso con quella si accoppiò e giunse allora al mostruoso apogeo della sua grandezza.

Tanti hanno detto di questa terribile associazione e con profonda conoscenza di causa, che io non m'impancherò ora a parlartene. Ti dirò soltanto che da quel tempo in poi la camorra non ha mai cessato di esistere e che non cesserà mai, nonostante le sfuriate di persecuzione che si è preteso farle, finchè non sarà affatto scomparsa l'ultima delle cause che le dànno vita.

La plebaglia ne ha paura, ma la rispetta, perchè da questa specie di prepotenti che la opprimono, è sicura di esser difesa, quando la prepotenza e l'abuso le cadano addosso da altre parti. In qualche momento potrà anche odiarla, ma la difenderà sempre, riguardandola come la sola, come l'unica autorità, dalla quale possa sperare qualche cosa che somigli alla giustizia, fino a quando non avrà appreso per esperienza e palpato con mano che i tempi e le cose sono cambiati in meglio anche per lei.

Capisco che la gravità di quest'ultimo sproloquio è una stonatura di fronte alla leggerezza, con la quale ti ho parlato di altre cose; ma credi pure che una volta veduta da vicino ed annusata questa lebbra, siamo presi da tal malumore, che non è possibile fare diversamente.

O prima o poi accadrà qualche cosa di grave, e allora vedrai le nuove sfuriate di persecuzioni. Leggeremo tutti i giorni sui fogli pubblici che è stata fatta una razzìa di camorristi, ed avranno fatto bene e ci crederò. Dopo un certo tempo sarà anche annunziato a grandi lettere: – La camorra è estirpata. – Nossignori, non vi crederò. I camorristi hanno polsi e perciò si possono ammanettare; hanno corpo e figura e perciò si possono imprigionare e deportare, ma la camorra non si ammanetta, non si carcera, nè si deporta.

Io ho veduto i camorristi, ho parlato con loro, gli ho veduti nell'esercizio delle loro funzioni in Napoli, nei dintorni, a bordo dei bastimenti; gli ho guardati, ho parlato con loro, gli ho perfino toccati, gli ho perfino veduti giocare a briscola con chi aveva il dovere d'intimar loro l'arresto, ma la camorra non l'ho veduta mai. Mi è parso vedere qualcuna delle sue mille cause e mi basta di averle accennate a te come meglio ho saputo; al resto ci pensi chi vi vorrà pensare.

Proposte di rimedj non te ne faccio per la grande ragione che non saprei farne. Soltanto mi contenterò di osservare, e sempre in linea d'impressioni di viaggio, che nelle condizioni morali di questa plebe altro non m'è parso scorgere che un pericolo manifesto e una vergogna per l'Italia intera.

Saluta al solito e addio.

LETTERA III.
Dove si parla di Sorrento, d'Amalfi e di Pompei

Napoli, 11 maggio 1877.

… No, amico mio. Chi ti ha detto che è possibile, o non ha mai veduto questo paese, o t'ha ingannato. Napoli coi suoi dintorni è l'unica terra d'Italia, io credo, che non ha delusioni anche pel viaggiatore che ci capiti inebriato, dopo averne sentito parlare da un pazzo! La descrizione più pittoresca; il quadro di un pennello prodigioso; il capitolo d'una penna sublime, impallidiscono davanti alla realtà. È così grande questa bellezza, e tanti elementi vi concorrono che occhio e cervello umano non possono esser capaci di afferrarla intera, non che di descriverla. La più pittoresca descrizione che un uomo possa farne, la ebbi l'altro giorno dalla bocca di un modesto fraticello di Camaldoli. – Vedete, signore, – mi disse, – son cinquant'anni che tutte le mattine vengo su questa terrazza a dare un'occhiata al Golfo, e tutte le mattine lo guardo e mi rattrista come se non l'avessi veduto mai. – E intanto la fresca brezza del mare mi rinfrescava la fronte, mentre affacciato alla finestra del vagone, mi bruciavo gli occhi guardando il sole che sfacciatamente bello si slanciava nel cielo dalle criniere dei lontani Appennini.

Fortunatamente i miei tre compagni di viaggio erano allo stesso grado d'entusiasmo, se no, avrebbero riso delle mie smanie. – Che festa incantevole! che dovizia di colori e di luce! che sterminato sorriso di natura è questo! Se Egli stesso mi dicesse di no, non ci crederei. Dio si deve esser pentito d'essersi lasciato cadere questo pezzo di paradiso su la terra. Per correggere lo sbaglio, ha aperto quaggiù gole d'inferno che vomitan fiamme e minacciano distruzione da ogni parte, ma, per il suo scopo, ha fatto peggio che a lasciar correre. – Ormai lo sbaglio è fatto e non si rimedia, e questi abitanti ridono, cuocendo le bistecche al fuoco delle lave, e questo mare e questo cielo e queste piante ridono, ridono e ridono come nelle ore del chilo devon ridere i beati a pancia all'aria, per le viottole del paradiso.

Il treno strisciando turbinoso per la pianura allargava i polmoni ad un lungo sibilo che pareva d'allegrezza, attraversando le polverose borgate tanto fitte tra Napoli e Torre del Greco, da sembrare una continuazione della vecchia città. – E noi si guardava maravigliati. Da una parte il Vesuvio che taciturno fumava la sua vecchia pipa, e sopra a' suoi fianchi gli sterminati campi di lava che a distanza sembrano, in mezzo al verde smagliante della campagna che li contorna, ombre immobili portate da grosse nubi; giù nella valle, affondate in un soffice tappeto di verdura, centinaia di casette rurali o solitarie o raggruppate intorno a goffe chiesuole, alle quali mancavano soltanto i minaretti, per aspettare da un momento all'altro che la voce del Muezzin si alzasse misteriosa dalle loro cime, per chiamare i fedeli alla preghiera. E tutti questi edifizj bruni e smantellati come avanzi d'incendio, pareva che dicessero al vulcano: Vuota su noi le tue viscere di fuoco; non avrai nè fatica nè rimorsi; guardaci, siamo preparati. – Ritirando lo sguardo da questa scena secca e abbrustolita, compariva dall'altro lato il mare biancheggiante di spuma e di vele, e in lontananza i villaggi di Vico, Mèta, Sant'Aniello e Sorrento, tuffati fra i boschetti d'aranci e candidi come gruppi di piume che potevan credersi quelle cadute dalle ali degli Angeli, quando scesero ad amoreggiare colle figlie della Terra, e poi Capri con le sue pergamene di granito, e Ischia e Procida e la nebulosa Ponza, dietro alla quale la dubbia caligine del mare lontano diceva agli occhi insaziabili: Ora basta.

I miei compagni erano tre: il pittore S. di Firenze, il B. di Bologna, anche egli pittore, e la sua signora; una bella figlia della animosa Romagna, i cui occhi bruni e lucenti stavano su quel viso ridente come due tormaline nere incassate in un cristallo di quarzo roseo. Chiassoni, allegri e spensierati come me; pieni di voglia di godere, e capaci d'intendere tutto il linguaggio di quella natura divina. Migliori compagni non avrei potuto desiderare.

Arrivammo a Castellammare. La patria dei più arditi navigatori di queste coste, del famigerato Duilio e dei più abili costruttori navali d'Italia, è un pezzo di Napoli portato in quella cala e nulla più, ma le montagne che le stanno a ridosso e il panorama del Golfo che si gode di là, è stupendo. Conservo uno spiacevole ricordo di quella città. Appena che fummo scesi dal treno ed assaltati da uno sciame di ciceroni, ciucai, vetturini, accattoni et cætera animalia, m'accorsi di non aver più addosso il portafogli. Non volevo mettere gli amici a parte del mio disturbo, ma non avendo potuto nasconder loro l'imbarazzo, nel quale mi trovavo e l'alterazione della mia faccia, mi domandarono con ansietà che cosa avessi. – Mi hanno rubato il portafogli! – Ma come! ma dove? ma quando? – Ora, ora nel momento; due minuti fa l'ho tirato fuori per dare qualche cosa a quel vecchio… – E ci avevi molto? – Ci avevo tutto – Ma ti sei cercato bene addosso? – Ho frugato da per tutto e non l'ho più. Guardate: qui, niente; qua nemmeno… non l'ho, non l'ho più assolutamente. Addio, amici; proseguite pure per Sorrento; io torno indietro; divertitevi e compatitemi se… Uno scoppio di risa sonore interruppe le mie parole d'addio. Domandai alquanto indispettito il perchè di quel riso e mi risposero con un'altra risata più grossa della prima. E perchè quelle risa così crudelmente inopportune? Avevo il portafogli in mano.

Dileguata la breve, ma rabbiosa tempesta, mi scusai ad alta voce con gli amici, per aver loro procurato quel disturbo, e nell'animo mio chiesi scusa anche ai ciucai, vetturini, ciceroni e accattoni castellammaresi, dei gravi dubbj che per dieci minuti avevo avuto su la loro onestà, e proseguii il cammino lungo la marina tutto umiliato, parendomi di scorgere in ogni occhio languido che mi fissava, il dolce rimprovero di Cristo a Pietro: amice, quare dubitasti? Per questa volta avevo avuto torto.

La giornata non era riuscita degna della fama di questo cielo, ma considerato che la monotonia finisce con lo stancare, anche se del genere migliore, non ci dispiacque punto che certi bianchi farfalloni di nebbia, volando celeri per l'aria come cigni giganteschi, ci riparassero, di quando in quando, dalle carezze un po' troppo calde d'un sole, che mezz'ora fa aveva arrostito le palme di Siria; ma altri nuvoli un po' troppo compatti e forse troppo terrestri, ci facevan pagar caro il benefizio di quelli aerei.

Il nuvolo dei parasiti ambulanti che ci ronzavano d'intorno, pigolando vigliaccamente l'eterno soldo, era anche troppo nauseante, e siccome tra questi brillava molestissimamente l'ottava piaga del genere umano, voglio dire un vetturino che non si chetava mai, mai alla lettera, di offrirci i suoi disinteressati servigi, e che ci avrebbe seguiti indubitatamente fino a Sorrento, invitandoci nella sua vettura, se ci fosse piaciuto di far la gita a piedi, insaccammo finalmente nella sua carrozza che, del resto, era comoda e bella, e ci mettemmo in cammino per la desiderata Sorrento.

 

Attraversato rapidamente il breve piano della marina di Castellammare, incomincia subito lo stupendo tratto di strada incassato fra dirupate scogliere. Questa via per me è quella che contribuisce essenzialmente alla grandissima e giustificata fama delle bellezze di Sorrento, il quale di per se stesso altro non è che un meschino e sparpagliato villaggio che, abbordato dalla via di mare, piuttosto che soddisfare al desiderio del visitatore, mostrando una bellezza sorridente, gentile ed intonata col grato effluvio de' suoi cedri fioriti, presenta invece l'aspetto d'un castello da burattini, collocato in cima a un rozzo muraglione ciclopico. Il Sorrento dei poeti non è Sorrento, ma la strada che conduce a Sorrento.

E questa strada è maravigliosa. È un succedersi continuato di punti di vista uno più stupendo dell'altro. Dopo aver attraversato un tratto di via di un orrido pittoresco, irto di scogliere maestose e di precipizj, in un momento ci troviamo in fondo a graziose vallicelle, in una specie di giardini d'Armida, sparse di ameni casolari rimpiattati fra boschetti di cedri giganteschi, sopra i quali passando la brezza del mare c'investe e ci ricrea con un'onda di profumo e ci ricopre, con una pioggia di petali bianchi. È una scena delle più fantastiche, è un idillio soave della Natura cantato dalla voce del vento.

La madreselva e il glicene flessuosi, attorcigliandosi alle cancellate dei giardini, s'inerpicano di balcone in balcone, e correndo lungo le facciate delle case, vanno a nasconderle sotto una coltre di verdura e di fiori; agave colossali, fichi d'india, palme, carubbi e olivi dalla foglia scura come quella dei lecci, ed ai quali l'acqua del mare bagna di spuma i tronchi sottili, slanciano le loro braccia in aria e si affollano sull'orlo dei dirupi, sollevando le loro chiome uno al di sopra dell'altro, come se anch'essi volessero bearsi nella vista del mare e del paese divino che li circonda.

Che sogno fantastico, che gioja dell'anima era quella! Io me la bevvi a larghi sorsi e mi trovai felicemente beato, ripetendomi l'ottava dell'Ariosto:

 
Vaghi boschetti di soavi allori,
Di palme e d'amenissime mortelle,
Cedri ed aranci ch'avean frutti e fiori
Contesti in varie forme e tutte belle,
Facean riparo ai fervidi calori
De' giorni estivi con lor spesse ombrelle;
E tra que' rami, con securi voli,
Cantando se ne gìano i rosignoli.
 

I rosignoli mancavano; il resto c'era tutto.

A quando a quando s'incontrano gruppi festosi di giovanetti che vi salutano strillando e gesticolando, invitandovi quasi istintivamente coi loro u bì! u bì! (guardate! guardate!) a contemplare la scena incantevole che vi sta davanti. Pare che tutto brilli, che tutto si muova, che tutto intuoni una dolcissima armonia intorno a noi; pare che il cielo e la terra siano impazzati e che sorridano delle nostre faccie melense perdute in un oceano di estasi contemplativa.

A brevi intervalli, una borgata piena di bighelloni inconsci del privilegio loro dato dalla natura, d'averli fatti nascere sotto questo cielo meraviglioso, anima il paese tranquillo che si percorre.

Tutto è intonato in questa beata regione: il cielo, il mare e la terra rivaleggiano di splendore, di luce e di vita; l'uomo solo rimane inferiore in questa artistica gara e quanto al di sotto! Sarò stato sfortunato ne' miei incontri, ma quello che dico è precisamente quello che ho visto, senza coda nè amputazioni. Le donne della campagna, specialmente, sono addirittura brutte, e Dio sa se questa delusione è dolorosa, quando non si dubita neanche per ombra che la Natura non abbia voluto fare compiuta quaggiù la sua opera, popolando di angeli questa regione divina. Dio che angioli decaduti! Sono brutti i loro visi, ma più brutti poi se li riducono, perchè avendo il costume di tenere in testa una pezzola che contorna loro la fronte fermandola con un nodo alla nuca, sono costrette dai raggi cocenti di un sole mezzo africano a tener gli occhi bassi ed accigliati, ed a guardare di sotto in su in un modo che dà alla loro espressione qualche cosa di bestiale e di feroce. Ah! una bella figlia degli uomini l'avrei incontrata con tanto entusiasmo in mezzo ad una selva d'aranci! ma non ebbi l'onesta soddisfazione. Gli uomini sono emaciati (quelli che ho visto io, veh! perchè il caso potrebbe avermi fatto veder lucciole per lanterne), pallidi e di forme così grossolane, che tuttora mi rimane il dubbio d'essermi ingannato, perchè mi pare impossibile tale anomalia in mezzo alla vita sana e gentile che spira da ogni foglia, da ogni sasso di questo paese benedetto. Oh! Amalfi, Amalfi! In mezzo allo splendore dei colli di Sorrento, rammentai Amalfi ai miei amici con questa esclamazione: Oh! Amalfi, Amalfi! – Sei già stato ad Amalfi? – mi domandarono subito. – Sì. – Diccene, diccene qualche cosa, perchè prima di tornare alle nostre case, vogliamo andarvi anche noi. – Andatevi e farete bene, ma andatevi dopo d'aver visto tutte le bellezze dei prossimi dintorni di Napoli, perchè la costiera d'Amalfi vi farà lo stesso effetto che a guardar fissi nel disco del Sole; vi troverete abbagliati e per qualche tempo non sarete capaci di veder altro.

Se poi mi domandate in che consiste tanta bellezza, io vi risponderò come se mi aveste domandato: perchè i poemi d'Omero sono belli? I poemi d'Omero son belli, perchè sono belli, e se qualcuno volesse provarvelo con altri argomenti, ditegli che non capisce nulla e non avrete sbagliato.

Nel tragitto da Vietri ad Amalfi, uno che sia un po' facile all'entusiasmo, corre rischio d'impazzare. E io ebbi dei momenti, nei quali credetti di perdere il cervello da vero. La strada che corre lungo la riviera alla metà dei fianchi di montagne scoscese, o meglio, di enormi scogliere, in qualche tratto è sospesa addirittura sul mare profondo, e su la superficie di questo mare, che sembra un tappeto di cobalto, vedevo sotto di me grosse navi mercantili filare con l'intera velatura spiegata e formicolare la ciurma sul ponte di piroscafi che la distanza faceva sembrare immobili e piccoli come balocchi da fanciulli. Provai la voluttà di una navigazione aerea senza l'orrore del pericolo. Di tratto in tratto s'incontrano deserte rovine di castelli Normanni che abbandonati all'opera del tempo cadono a pezzi, e qua e là, accucciate fra gli scogli in mezzo a piccole oasi di verdura, solitarie casette bianche bianche, pulite pulite, i felici abitatori delle quali salendo alla cima del monte colgono i frutti del castagno, la pianta che segna il principio delle zone frigide, e scendendo verso la marina, il dolce fico d'india, il fiore d'arancio per profumare le loro stanzuccie ed i rami della palma che incrociati su la porta di casa, allontanano i fulmini e le streghe.

Le marine di Majori, Minori e Atrani, la patria di Masaniello, che s'incontrano per via, sono quel che può esservi di più ameno e di più pittoresco su la terra. Nel contemplare quei tranquilli e ridenti gruppi di case che partendo dal mare s'inerpicano come caprette su per i dirupi della montagna; le cupole delle loro chiese che coperte di maioliche colorate luccicano alla luce del sole; i boschetti di agrumi che le contornano; i viottolucci scoscesi che scendono serpeggiando fino alla spiaggia, dove una popolazione tranquilla di pescatori lavora e canta fra lunghe file di reti che brillano al sole, si prova una gioja ineffabile, una pace serena, un tal senso di beatitudine che posandosi sul core lo stringe, e lo stringe con tanta dolcezza che a poco a poco ci sentiamo nascere il desiderio doloroso di passare su quelle spiagge serene la nostra vita, magari anche di morirvi, quantunque l'idea della morte sembri tanto strana su quelle magiche rive che, incontrando un trasporto funebre, c'è da maravigliarsene credendolo una finzione. Il giorno del giudizio, per gli Amalfitani che andranno in Paradiso, sarà un giorno come tutti gli altri.

Come deve esser dolce l'ozio all'ombra d'un olivo d'Amalfi! In verità, se quegli abitanti sono capaci di guadagnarsi il pane col sudore che tutti chiamano soltanto della fronte, bisogna riconoscere in loro una grande virtù, poichè l'unico bisogno potente che si fa sentire in quel clima è il bisogno di non far nulla; la vita d'Adamo prima dello sbaglio e niente più. Povero Adamo!

All'accesso di estasi contemplativa davanti a tanto lusso di quella splendida natura, tenne dietro un altro accesso d'entusiasmo rumoroso. E non so quello che avrei detto e che avrei fatto, se non mi avesse tenuto in freno l'aspetto taciturno dell'unico mio compagno di viaggio che non aprì bocca, altro che sul principio della nostra gita, per chiedermi se gli permettevo di fare abbassare il mantice della carrozza. – Mio padrone, gli risposi, purchè non si tenga offeso se per godermi questo sole, scendo subito e vado a cassetta. Non me lo permise. Era un Francese e tanto basta, per capire che doveva essere una persona gentile; ma, del resto, non capiva nulla. Era biondo, era grasso ed era pallido! che potevo io pretender da lui? – Ma non pare anche a lei impossibile che questo sole abbia il coraggio di tramontare dopo essersi veduto tanto bello nello specchio di questo mare? – mi guardava e sorrideva. – Ma guardi Salerno, le prime catene della Calabria col suo Cilento nevoso! ma contempli quelle isolette che si perdono quasi in un velo di nebbia infuocata; quella casetta lassù in cima, dove pare che non si possa andare altro che con l'ali; ma si serva degli occhi, Dio lo benedica, davanti a quel gruppo di giovinette che ci vengono incontro coi busti dai colori orientali e coi capelli nerissimi arricchiti di fiori di ginestra; quei pescatori, guardi quei pescatori laggiù in fondo in fondo che fanno matanza nella tonnara; se non vuole urlare com'ho urlato io poco fa «fuori l'autore!» mi dica almeno che qualche cosa è bello, che qualche cosa le piace, mi dia un segno, un segno solo d'ammirazione, ed alla prima occasione non mancherò di raccomandarlo alla misericordia del Signore, ma mi dica qualche cosa se no scoppio. – Mi guardò di nuovo sorridendo, e per mostrarmi quanta parte prendeva al mio entusiasmo mi disse che quel sole era intollerabile, e dètte un'occhiata tenera al mantice calato. – Ebbi pietà del suo cervello; il mantice fu tirato su ed io me n'andai a cassetta. Non ne ho l'ombra del dubbio, io devo esser sembrato a lui un grande imbecille, ma non mai quanto egli sembrò felice a me. Ma dove avrà rimpiattato colui i suoi charmant, i suoi éclatant, e tutti i rimbombanti étonnant, coi quali i febbricitanti figli della Gallia étonnano le strade di questa piccola Italia ammirandone le infinite maraviglie? Chi sa! Lo scusai in parte, perchè seppi poi che andava ad annunziare ad un nipote d'Amalfi la morte d'uno zio di Napoli. Ed infatti conobbi al ritorno anche il nipote, il quale, viaggiando in nostra compagnia, ostentò con molta disinvoltura un profondo dolore e si mostrò abbastanza soddisfatto della irreparabile perdita sofferta.

Arrivammo ad Amalfi. L'arrivo d'una carrozza in quel remoto cantuccio della terra è un mezzo avvenimento. Tutti si affollano intorno ai nuovi arrivati; li guardano, li osservano, ma stando però a distanza e mantenendo un contegno semplice e rispettoso; vi si offrono per servigi, vi esibiscono indirizzi di locande, vi domandano notizie dei paese, dal quale venite e se volete cavalcature per visitare i dintorni, ma tutto con garbatezza di modi, con un sorriso onesto su la faccia, e… inarcate le ciglia, amici miei, non vi domandano l'elemosina! Crediate pure che nel trovare, uscendo di Napoli, un paese dove non ci chiedano l'elemosina, c'è da sentirsi venire un accidente dalla consolazione. «Signurì, u soldo» Dio eternamente misericordioso!

Amalfi, nella sua solitudine, è gaia. In mezzo a tanta profusione di caldo, di luce e di colori, non è possibile concepire l'idea di mestizia. Le sue case sono bianche e pulite, il mare che strepita fra le ghiaie della sua spiaggia è limpido e azzurro come il suo cielo; soltanto le rupi che protendono su la piccola città le loro masse brune e minacciose, si proverebbero ad essere orride pei loro profili scabrosi e taglienti, ma i bracci montuosi dei caseggiati che s'inerpicano su quelle come tralci di edera bianca, e i ciuffi di verdura che ne smussano le aspre sinuosità, le contornano, le avviluppano e se le stringono con tanto affetto fra loro che, quasi soffocate, anche esse son costrette a sorridere sotto un profluvio di carezze, di baci e d'allegria.

 

L'unica strada di Amalfi che possa veramente chiamarsi una strada, ha usurpato il corso del torrente che dovrebbe scaricarsi giù per la stretta forra, dentro la quale è incastrata la capricciosa città; le altre arterie di comunicazione non sono che lunghi e stretti antri percorsi da scalinate, i quali s'internano bui e profondi nel corpo dei fabbricati, dando origine ad altre scalinate secondarie, finchè non fanno capo a qualche scosceso viottolo che serpeggiando si perde su per i dirupi della montagna.

Non credo che fantasia di scenografo possa immaginare nulla di più pittoresco. Nessuno dei rumorosi prodotti dell'incivilimento: carrozze, omnibus, tramway, corni, trombe, e il Diavolo che se li porti, turba la quiete serena di quelle spiagge; ed anche il vizio non deve esser giunto laggiù alla sua ultima espressione, poichè il sangue di quei pacifici marini è fresco e colorito. L'antica razza dei robusti e feroci pirati non ha perduto nella discendenza altro che la ferocia; la robustezza v'è rimasta intatta. Belle carni, bei capelli, belli occhi e bellissimi denti, sono i connotati distintivi dei fortunati abitatori di quella fantastica regione, uomini e donne. L'aureola di gloria che contorna i ricordi di Amalfi, ispira anche un senso di ammirazione per quegli umili pescatori, quando si misura con l'occhio la piccolezza di quel nido che sembra ora di falchi, ma che è stato di aquile, di poche aquile e dalla vita breve, ma aquile ardite che in piccolo stuolo, o correndo sui mari o meditando sul loro inaccessibile scoglio, hanno arricchito con le armi di fatti gloriosi le vergogne del Medio Evo, dato alla scienza una delle più grandi invenzioni umane, la bussola, e serbato attraverso al bujo di secolare ignoranza i codici di Giustiniano, la più ricca eredità che sia giunta a noi dell'antico incivilimento, e davanti alla quale ognuno dovrebbe inchinarsi reverente, se, contrariamente al suo scopo, non servisse tuttora da inesausta miniera di laidi cavilli alle coscienze più agguerrite che vestan carne sotto la cappa del sole.

Chiusi con questa eresia il racconto delle mie impressioni d'Amalfi, perchè eravamo già arrivati a Sorrento. Ti saluto, bellissima Sorrento; ti saluto, o patria, per caso, del sublime e languido cantore degli amori di Olindo e Sofronia; e ti saluto, o patria degli accattoni più petulanti che si battezzino fra i quattordici milioni d'analfabeti del regno beato! e scendendo dalla carrozza segnai sul mio taccuino: arrivato a Sorrento il dì 10 maggio 1877 a ore 11 antimeridiane precise. Mentre scrivevo, mi si accostò una faccia torva domandandomi: – Eccellenza, state scrivendo le vostre memorie? – (cominciò di lì per chiedermi u soldo.) – Sì, – gli risposi – e tu le tue prigioni quando le scriverai? – «Ah! eccellenza, nun saccio a scrittura.» – E questa risposta me la fece con tanto abbandono, con tale intrigliatura delle pupille che mi avrebbe fatto tenerezza, se accompagnato da un suono speciale del suo rimpianto non avessi visto un lampo della sua anima falsaria schizzargli un palmo fuori degli occhi. Scendemmo alla marina, visitammo i giardini e i più prossimi dintorni del paese tutti bellissimi, e dopo andammo ad ammirare l'abitazione che fu della Imperatrice di Russia. Che vi trovammo da ammirare? Mah! Quattro mura che son celebri, perchè vi ha alloggiato una Imperatrice, la quale è celebre, perchè è Imperatrice!

– Ah! signorino, – mi diceva una donnicciuola, – che gran signora era quella! – Quando le si offriva un mazzo di fiori ci diceva grazie, e ci guardava ridendo. – Corpo di settantamila cosacchi, non mi burlate! – Davvero, signorino, – e mi presentò una rosa. Povere creature! abituati a non vedersi guardare altro che in cagnesco da tutti quelli che essi chiamano li galantomini, non rammentano le elemosine della danarosa Czarina; rammentano invece i suoi «grazie» e i suoi umani sorrisi. Il nostro cicerone che non mancava mai di levarsi il cappello e di eccellenzarci ogni volta che ci volgeva la parola, pretendeva d'esser tanto pratico nel riconoscere di che provincia erano gl'Italiani che gli capitavano sotto, che non sbagliava mai. Allora io lo invitai a dirmi di dove credeva che fossi. – Piemontese, – mi rispose subito. – No. – Lombardo. – Nemmeno. – Romagnolo. – Neanche. – Veneziano. – Meno che mai. – Stette un po' a pensare e non gli venendo detto altro, gli dissi che ero Toscano; e deridendo la sua presunzione, gli domandai come mai non mi aveva riconosciuto per tale. Mi rispose: – Eccellenza, non avete bestemmiato il nome d'Iddio e non m'avete detto figlio d'un cane. – Oh! – Mandando in burla la cosa, risposi che non gli avevo detto niente di tutto questo, perchè non me ne aveva presentata l'occasione, ma il viso mi deve esser diventato leggermente rossiccio, quando pensai alla gentilezza della mia Toscana così ingenuamente confutata da un cicerone di Sorrento. —

Cercai ricordi e tradizioni del Tasso, ma non mi fu possibile trovarne traccia. Nessuno di quei popolani seppe rispondermi quando rammentai quel nome; nessuno canta le sue ottave, e ne fui maravigliato ricordandomi che i navicellai del mio piccolo Arno le cantano innamorati, rompendo la magra corrente, e i contadini delle mie solitarie campagne le intonano a gola spiegata, facendo la foglia su la cima dei pioppi. Il nemo prophæta in patria sua a nessuno è meglio applicabile che all'infelice poeta. Il cicerone stesso, che dopo i dottissimi del luogo poteva esser creduto il più dotto, almeno per ciò che riguarda le memorie storiche del paese che illustra co' suoi spropositi, conducendomi verso la casa del Tasso mi disse che avrei visto poco, e che la fabbrica era stata da poco tempo rimodernata, inquantochè quel signore, del quale domandavo, era molto tempo che non ce stava chiù. Indispettito di tanta stupidaggine, lo trattai d'ignorante. Se n'ebbe per male e si allontanò ringhiando.

 
Superbi, formidabili, feroci
Gli ultimi moti fûr, l'ultime voci.
 

Principale scopo della nostra gita era l'isola di Capri, alla quale ci eravamo proposti di andare, imbarcandoci sul piccolo piroscafo che da Napoli fa le sue gite giornaliere toccando Sorrento. Ma il battello non venne. Era domenica e la fede puritana degl'Inglesi che formano sempre la quasi totalità dei passeggeri per una tal gita, aveva impedito al capitano di trovarvi il suo tornaconto, facendola presso a poco a vuoto, onde se n'era rimasto nelle acque di Santa Lucia col suo puledrino acquatico, il quale, non dandogli biada, lascia strillare i regolamenti e l'orario, ma non si muove. Che si fa?

Andiamo a Pompei! Fu accolta con acclamazione la mia proposta, e dopo aver girellato qualche altro poco intorno a Sorrento, raggiungemmo la nostra vettura e partimmo per la morta città.

Eccoci a Pompei! ecco portato alla realtà un altro de' miei sogni dorati. Tutto quello che se ne era letto e sentito dire, diventò per noi un inganno, appena messo il piede dentro alle sue mura, perchè Pompei è più bella, è più attraente di tutto quello che ce ne era stato detto e di tutto quello che ci eravamo immaginati. I miei compagni guardavano e non muovevano labbro, percorrendo le sue vie silenziose e deserte, ed io pure, occupato da un vago senso di piacevole mestizia, guardavo maravigliato e tacevo. Eppure la vista di tanta desolazione non rattrista. Bisogna che la mente del visitatore faccia uno sforzo vigoroso, per convincersi che quelle lastre suonanti sotto i suoi passi, e, quelle mura coperte di così allegri colori sono gli avanzi, le membra inanimate d'un cadavere. Nessuna delle squallide e disgustose apparenze della morte colpisce gli occhi. Più che una morta, sembra una bella addormentata, e quei lunghi solchi formati sui selciati dalle bighe che ve li tracciarono diciotto secoli or sono, quelle cellette, quei letticciuoli, intorno ai quali si vedono su l'intonaco delle pareti le tracce dei dormienti, che milleottocento anni fa si erano alzati da quelli senza tornarvi, pare che riposandosi aspettino sempre. Ogni volta che s'incontra qualche altro visitatore vien voglia di crederlo un vecchio abitante misantropo, che è sceso appunto su la via, perchè gli altri Pompejani son fuori delle mura; e l'illusione qualche volta giunge a tal segno, che si sarebbe tentati di credere che domandandogli de' suoi concittadini ci risponderebbe: «Sono tutti scesi stamani ad Ercolano, ove il Divo Augusto assiste allo spettacolo di una battaglia navale. Stasera torneranno.»