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Napoli a occhio nudo: Lettere ad un amico

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LETTERA II.
Dove si parla della popolazione

Napoli, 8 maggio 1877.

S'io ti dovessi dipingere i colori del camaleonte o disegnarti le forme di Proteo, in verità mi sentirei meno imbrogliato che a darti una netta definizione di quello che mi è sembrato essere il carattere di questo popolo.

È così instabile, così pieno di contradizioni; si presenta sotto tanti e così disparati aspetti dagli infiniti punti di vista da cui può essere osservato, che su le prime è impossibile raccapezzarsi. Ad un tratto ti sembreranno ingenue creature e ti sentirai portato ad amarle; non avrai anche finito di concepire questo sentimento che ti appariranno furfanti matricolati. Ora laboriosissimi per parerti dopo accidiosi; talvolta sobrii come Arabi del deserto, tal'altra intemperanti come parasiti; audaci e generosi in un'azione, egoisti e vigliacchi in un'altra. Passano dal riso al pianto, dalla gioja più schietta all'ira più forsennata, con la massima rapidità, per modo che in un momento li crederesti deboli donne o fanciulli, in un altro, uomini in tutto il vigore della parola; insomma, la loro indole non saprei in massima definirla altro che con la parola: anguilliforme, poichè ti guizza, ti scivola così rapidamente da ogni parte che quando credi d'averla afferrata, allora proprio è quando ti scapola e ti lascia con tanto di naso e con le mani in mano.

Spieghiamoci subito. Sappi dunque che dicendoti tutto quello che ti dirò di questo popolo, intendo soltanto parlarti dell'ultima plebe. In un paese, dove i quattro quinti della popolazione sono rappresentati da questo ceto, è naturale che un viaggiatore, il quale, come me, non se ne proponga uno scopo di studio, non veda altro che quello. L'aristocrazia l'ho appena osservata a Chiaja nell'ora del passeggio, e non ne conosco altro che lo sfarzo vistoso degli abiti e degli equipaggi. Di quello che si chiama il medio ceto, ho avvicinato soltanto una ventina di rispettabili e care persone, delle quali non saprei dir mai tutto quel bene che si meritano, e non mi son curato d'altro e non sono andato più in là.

La plebe sola, questa massa enorme di straccioni, in mezzo ai quali quasi si perdono e sembrano ospitalmente tollerati gli altri ceti, mi ha dato nell'occhio ed ho preso diletto ad osservarla, come ora mi divertirò a dirtene quello che me ne è sembrato, buttando da parte quella rancida lira che ogni rispettabile citrullo, capitando in questo paese, agguanta insatirito per cantare il vieto inno di moda alla Sirena, senza capire che è tempo di smetterla, perchè di Grazielle, di chitarre e di Sirene se n'è detto già tanto che ora basta.

Di tutte le plebi, in mezzo alle quali mi son ritrovato girellando per l'Italia, quella di Napoli è senza dubbio la più originale e la più grottesca di tutte. Basta guardare in viso questa gente per capire che son furbi come gatti; serve dare un'occhiata alle loro membra per ammirarne la eleganza delle proporzioni e per ridere del modo, col quale le adoperano negli usi più comuni della vita. Allorchè parlano, la lingua è il membro che soffre minore attrito di tutti. Chiudono gli occhi, li riaprono e li battono come bertucce; sgualciscono le labbra; con le mani affettano l'aria in tutti i sensi; si scuotono, si torcono su la vita in modo che qualche volta la lingua si mette in riposo assoluto e conversano ed esprimono i più riposti sentimenti dell'animo con un gergo tacito che chiamerei semaforico, corrugando la fronte, stralunando gli occhi e lavorando di braccia, di mani e di dita come allievi perfetti del più accreditato istituto di sordomuti.

Siamo a Santa Lucia davanti al banco di Salvadore Capezzuto ostricaro fisico. – «Avete vongole, compare?» Il compare alza la testa e chiude gli occhi. Dopo un momento, non avendo capito che il signor Salvadore vi ha risposto, ripetete la domanda correggendone la forma e: «Volevo un mezzo franco di vongole, ne avete?» Nuova alzata di testa e nuova chiusura di occhi del compare con una tirata di fiato significante che vuol dire: m'avete rot… «Vongole, volevo un mezzo franco di vongole, vongoleee» alzando la voce. Ora poi il compare è pieno fino alla gola; v'ha preso per uno stupido e ve lo vuol dimostrare. Rialza la testa, richiude gli occhi e interrompendovi dignitosamente indispettito, vi grida con voce robusta: – Non ne dengooo! – Ha ragione, povero signor Salvadore! E chi è quel piemontese di Firenze tanto imbecille da non capire che una alzata di testa e una chiusura d'occhi, in buon italiano vuol dire «non ne ho?»

Che questo risparmio di fiato sia effetto d'indolenza? Non t'importerà di saperlo, ma se anche fosse questa la causa, mi somiglierebbe alla economia del prodigo, il quale risparmia ora un franco in una spesa utile, per darne via mille poi in cose superflue.

Il loro vestiario non saprei dirti quale sia. Sparito il pretto tipo del Lazzaro, il quale aveva stabilito quasi un costume, nelle sue brachette fino al ginocchio, camicia aperta sul petto, maniche rimboccate e tradizionale scazzetta in capo, quello de' suoi eredi non ha nulla di uniforme altro che negli strappi e nel sudiciume. Un grosso volume parlerebbe meno del loro abbrutimento, di quel che lo facciano i luridi cenci che questi atleti della miseria hanno il coraggio di portare addosso sorridendo. Una balla da carbone lacera in mano di cotesta gente, parlo sempre dell'infima plebe, con pochi colpi di forbice si trasforma in una comoda sottana per signora; con pochi stracci raccattati fra le immondizie della via e qualche metro di spago di diverse qualità, la madre di famiglia ha trovato stoffa e guarnizione per provvedere di un intero tout-de-mème da ogni stagione il marito e i suoi guaglioncelli, che fino ad ora hanno avuto abiti un po' troppo di confidenza: o una sola camicia con poco davanti e meno di dietro, o un abito adamitico addirittura, tranne l'incomodo della foglia.

Di questi vestiarii ho avuto occasione di notarne di tutti i generi. Vidi un bambino in Borgo Loreto, che se ne passeggiava allegramente in mezzo alla via, avendo addosso per unico vestito un panciotto da uomo tutto sbottonato che gli ciondolava fino ai calcagni; un altro aveva soltanto due mezze trombe di calzoni, che rette da spaghi gli coprivano le gambe dal ginocchio in giù: il resto della persona era nudo affatto. Altri ne ho veduti, non solo bambini, ma uomini e donne adulti, con abiti così laceri, formati da tante cinquantine di pezzi, retti da tanti fili, ciondolanti e spenerati da tante parti, da volerci un archeologo per capire approssimativamente a che tempo rimontino ed un matematico che risolva un problema di statica, per arrivare a comprendere come facciano a reggerseli addosso. Abbondano poi nelle giovinette i vestiarii alla Belle Hélène, voglio dire: una sottana sola aperta da cima a fondo su i fianchi da due strappi, dentro i quali l'occhio del curioso ha libero accesso in compagnia del maestrale che apre le cortine e del Sole che compiacente illumina co' suoi raggi la scena.

La dolcezza del clima favorisce la semplicità del vestiario e la perdita del pudore, per modo che io credo che la puntura del freddo potrebbe persuadere quelle giovinette a nascondere la loro nudità, ma il senso della vergogna mai.

Quanto è portentosa la prolificità di questa gente, altrettanto sono facili i matrimonj. Il pensiero dell'avvenire degli sposi e dei figli non deve recare sgomento. Una tana, dove un lupo morirebbe asfittico, sarà la loro abitazione; una stoja e pochi stracci, il talamo; i ragnateli e un mucchio di paglia, la mobilia. Verranno poi i figli. Tanto meglio. I rigetti dei banchi d'ortolani e di pescivendoli, e le tasche dei passanti, dove la piccola destra troverà quasi sempre un oggetto qualunque da ghermire, mentre la sinistra si stenderà a chiedere il soldo dell'elemosina, provvederanno all'esistenza ed alla educazione loro. Che razza di genìa scaturisca da questo genere di palestra, tu puoi figurartelo senza torturarti molto il cervello.

Eppure, anche con tutto questo, non riescono antipatici, nè sgarbati nè di rozze maniere; anzi, per la persona decentemente vestita e che non abbia con loro altro che relazioni superficiali, hanno modi gentili e sono addirittura simpatici. Sono vispi, pronti d'ingegno, spensierati e docili per natura; il turpiloquio e la bestemmia che tanto qualificano la plebe della nostra gentile Toscana, sono sconosciuti o quasi per loro. Qualche parola sconcia l'ho udita escire dalle loro bocche nel parossismo dell'ira, ma questa sconcezza non si accosta nemmeno da lontano alle oscenità che è capace vomitare un nostro vetturino, non solo nella rabbia, ma anche quando, ad alta voce perchè sia notato il suo spirito, scherza piacevolmente con un compagno.

Scaltro e ladruncolo per eccellenza, il Lazzaro rubacchia indubitatamente quando gli si presenti facile l'occasione; ma dove ci sia da mettere a repentaglio la pelle, Pulcinella difficilmente si espone. Scamotta colla massima facilità l'orologio, il fazzoletto, il portasigari che fa capolino dalla tasca di petto e gli basta, ed è contento perchè, quando s'è abbuscato qualche cosa con la sua destrezza, corre subito dal camorrista manutengolo che gli dà forse il quinto del suo guadagno, e con que' pochi vola al primo de' millemila botteghini di lotto; ne deposita lì una parte e con quell'altra celebra subito in qualche bettola la voluttuosa scialata.

Ciarliero e millantatore implacabile, allorchè narra le sue gesta, racconta dieci ed ha compiuto uno. – Quando attacca litigio, però, prima di venire alle mani ci pensa. Strilla, impreca e gestisce con una mimica sublime, forse per far paura alla paura che ha. S'avanza se l'avversario si ritira, e si ritira subito se l'avversario s'avanza, ed ordinariamente i suoi litigi finiscono in grida, mentre i due litiganti si partono in direzione opposta, brontolando e ostentando di mordere il freno, ma in fondo contenti come pasque d'essersela cavata a quella maniera. Se vengono alle mani, però, son cattivi. Alla paura succede la reazione, ed a non scompartirli a tempo, facilmente verranno al sangue.

 

Ferocemente gelosi, sfregiano in volto la donna del loro amore anche nel dubbio d'infedeltà. Un rasoio o una moneta arrotata sono gli strumenti, dei quali si servono, e di questo barbaro trattamento in generale le donne vanno liete e orgogliose, riguardandolo come una prova sicura dell'affetto dei loro amanti.

Provvisto per natura di uno spirito d'indipendenza quasi selvaggio, muore di fame, muore sul lastrico delle vie o nel tanfo delle spelonche dove abita, ma non vuole intendere nè di spedali, nè di ricoveri, nè di benefizii che gl'impongano il minimo legame. Potrei citare, per prova di quanto asserisco, mille esempj che mi sono noti, ma per non perdermi in lungaggini, te ne dirò uno solo che mi sembra abbastanza eloquente. Una signora napoletana di mia relazione prese a soccorrere, facendogli settimanalmente la elemosina, un piccolo orfano di circa nove anni, il quale in mezzo a privazioni di ogni genere durante la giornata andava la sera a dormire in un forno se d'inverno, ed al sereno se d'estate. Questa signora seguitò per qualche tempo ad usargli in tal modo la sua carità; ma volendo da ultimo provvedere efficacemente ai bisogni di quella infelice creatura, ottenne per lui un posto, non mi ricordo più in quale asilo di beneficenza. Comunicò tutta lieta la buona notizia al suo protetto; gli parlò dei vantaggi e dei comodi che avrebbe trovati là dentro; gli dipinse a colori seducenti il suo avvenire e fissò il giorno nel quale lo avrebbe aspettato, per condurlo all'asilo. Il guaglioncello dimostrò molta compiacenza nell'ascoltare tutte le oneste cose che gli furono dette; promise di non mancare all'appuntamento; si allontanò e non si è fatto più rivedere.

Per questa medesima ragione, non è facile trovare fra loro persone di servizio. Ogni lavoro che gli obblighi lo scansano con ribrezzo, e non vi si adattano finchè il bisogno non gli abbia presi per la gola. Da questa tendenza della loro indole e dalla scarsità di opificj che potrebbero accogliere quelli che stretti dalla necessità vi si adatterebbero, resulta quella enorme moltitudine di semioziosi, che si dànno al lavoro avventizio nei luoghi di maggior movimento commerciale o al piccolo commercio ambulante per le vie della città, tormentando il prossimo in centomila maniere dalla mattina alla sera.

Le loro occupazioni perciò sono intermittenti. Fra l'arrivo e la partenza dei convogli della strada ferrata e fra quello di battelli postali e navi mercantili nel porto, il lavoro cessa e negl'intervalli migliaia di persone restano disoccupate. Alla stanchezza per il lavoro fatto si aggiunge l'influenza del clima, e allora chi casca di qua e chi di là, e tutti si buttano allo sdraio sui muriccioli, sui marciapiedi, giù per gli scali, lungo la marina, sui carri, su le balle, su le casse, in qualunque luogo insomma dove ci sia da schiacciare un pisolino in pace, presentando così agli occhi dei passanti quel pittoresco, ma ributtante spettacolo che forse ha fatto alquanto esagerare l'idea che generalmente si ha della fiaccona e della indolenza di questo popolo.

Son troppi quelli che abbisognano di lavoro, di fronte al movimento industriale e commerciale del paese, onde molti, lo ripeto, rimangono involontariamente inoperosi; ma quando offriamo loro da lavorare, è un'atroce calunnia, almeno ora, il dire che lo ricusino, perchè hanno mangiato. Sono stato troppe volte e sul molo e nei quartieri poveri, dove abbondano gli sdraiati e gli addormentati e troppe volte ho fatto la prova, destandoli e incaricandoli di qualche piccola commissione e qualche volta anche grossa e faticosa, e mai mi son sentito rispondere il famoso aggio magnato. Sorgono in piedi come se scattassero per una molla, si stropicciano gli occhi e per pochi centesimi si mettono alle fatiche più improbe, fanno due chilometri di strada correndo, e ritornano ringraziandovi, domandandovi se comandate altro, e scaricandovi addosso un diluvio di eccellenze e di don, come se avessero da voi ricevuto il più grosso favore del mondo.

Gli ho osservati nelle loro botteghe, passando per le vie, ed ho visto che lavorano; sono stato a visitare opificj e ne sono uscito con le mie convinzioni più radicate che mai. Non contento de' miei occhi, ne ho domandato ad alcuni direttori di stabilimenti manifatturieri, non napoletani e perciò non pregiudicati, e tutti mi hanno confermato nella mia scismatica opinione. Chi ha gambe venga e chi ha occhi veda, e dopo, se è onesto, dovrà convenire con me che lo sbadiglio lungo, sonoro, spasmodico, che quell'aspetto di prostrazione fisica, che quelle fisonomie assonnate e quasi sofferenti per la noia che s'incontrano specialmente nelle città di secondo ordine delle altre provincie, fra le quali non ultima la nostra leggiadra Toscanina, a Napoli non le troverà certamente; e giri, e cerchi, e osservi pure a suo piacere, assolutamente non le troverà.

Il temperamento di questa gente è troppo nervoso, è troppo adusto da poter la linfa concorrere efficacemente insieme col clima a spossarli del tutto, per cui quando hanno da lavorare lavorano, e la loro opera è intelligente e produttiva al pari di quella di qualunque altra popolazione della penisola. – Mi sarò anche ingannato, ma non lo credo.

Date Caesari quod Caesaris est, c'insegnò il Cianchi bon'anima maestro di rettorica, e giacchè sono entrato nello sdrucciolo delle eresie, mi scappa la voglia di seguitare e seguito. La seconda eresia la comincerò in forma di preghiera, pregandoti che, quando capiterai in questo paese benedetto dalla Provvidenza, in questa terra privilegiata del canto e del sentimento musicale, tu sfoderi gli orecchi, tu giri nei quartieri del popolo e tu ascolti. Principierai la tua peregrinazione immaginandoti di dover inciampare ad ogni svoltata di via in comitive di giovani spensierati, i quali se ne vadano rallegrando la poesia della notte coi loro canti, con le loro armonie di chitarre, di flauti e d'organini, come ti accadrà ad ogni passo in Toscana, e come ci accadeva incontrare tanto spesso a Milano, a Venezia e su i laghi, ma tutte le illusioni presto ti spariranno. Non ti parrà d'affacciarti a una vasca per sentir cantare i pesci, ma poco meno. Qualche truppa di suonatori e cantatori la incontrerai verso le locande o intorno ai caffè, dove vengono per danaro, anzi dove vengono in troppi e troppo spesso, ma chi canti per solo piacere di cantare le stupende e poetiche ariette che questi maestri di musica compongono a tavolino e non il popolo lungo la marina, come generalmente si crede, non lo incontrerai mai o molto, molto di rado. Una plebe che si diletta quasi esclusivamente del cembalo e della caccavella, due strumenti che dànno rumore monotono e non armonia, a mio parere, non può nè deve avere quello squisito sentimento musicale che da tutti, e senza rendersi conto del perchè, le si è voluto sempre attribuire. Un mezzo secolo addietro, quando l'Italia era da vero la terra del canto, la plebe di Napoli sarà stata per la musica tutto quello che si racconta; ma ora che questa terra del canto è diventata la terra degli urlacci, può darsi benissimo che anche quaggiù le cose vadano diversamente. Avrò preso un granchio anche questa volta? Speriamo di sì.

Tutte le volte che ripenso a questa specie di disinganno procuratami da un pregiudizio che è universale, forse perchè i suonatori e cantatori napoletani (che non sono di Napoli) inondano i trivj della Terra, mi torna in mente la leggenda del cigno. Tutti i poeti hanno esaltato a cielo le dolcissime note e il canto melodioso di questo taciturno abitatore dei laghi, senza averne mai udita la voce. Bugiardi! Io l'ho sentita questa voce incantevole, l'ho udito davvero il canto di questo voluttuoso amico di Leda, e non ho saputo somigliarlo ad altro che allo strepito roco d'una canna secca stroncata bruscamente.

Ma tutto questo non tolga nulla ai lati pregevoli di queste disgraziate ed allegre creature; anzi, dopo aver trovati martiri della fatica dove non credevo trovare che sbadiglianti bighelloni, voglio accennarti altre buone qualità che ho notate con piacere fra costoro, e gentili passioni portate qualche volta fino all'eccesso dalla loro natura meridionale.

L'amore e gli affetti di famiglia li sentono con violenza; si soccorrono in caso di sventura e sono fra loro ospitali e caritatevoli fino al sacrifizio; hanno venerazione pei vecchi e li rispettano e li accarezzano affettuosamente; contentabili in modo che è raro udire un lamento dello stato di miseria più che bestiale, nella quale la maggior parte languiscono; non dediti all'ubriachezza; non punto turbolenti, almeno nei periodi di calma sociale, e questo lo prova il fatto che spesso l'Arsenale e l'officina di Pietrarsa hanno messo fuori cinquecento ed anche mille operai e la città non si è accorta minimamente di questo avvenimento; non facili alla rissa ed al coltello, sono dotati poi di molte altre qualità che non voglio rammentare, sebbene appaiano buone, perchè figlie troppo spontanee di quel fango morale, in cui sono tenute sommerse queste misere scimmie a due mani.

Ma sotto quale enorme farragine di difetti restano soffocate le loro poche virtù! – Con la più feroce usura si strozzano fra loro. La passione per il giuoco in genere ed in specie per il Lotto giunge fino alla frenesia, e forse il desiderio di soddisfare a questa sfrenata libidine, se si volessero ricercare le cause di ciò che asserivo poco fa, è quello che gli agita, che gli accapiglia e li porta a lavorare rabbiosamente, per poi più rabbiosamente che mai correre a gettare i loro miseri guadagni in quel baratro d'immoralità, che insieme colla usura concorre a spolpare questi iloti e a mantenerli nel puzzo delle loro tane, dove come porci s'imbragano e gavazzano.

Dissimulatori esimii, scaltri come volpi, timidi come lepri e bugiardi come cacciatori, la loro esistenza è una continua scherma di piccole frodi e d'inganni. Sudici un po' per necessità e molto per istinto, manca loro assolutamente il senso della nettezza. Il dare un'occhiata alle cucine della plebe, alle loro pietanze ed alle mani, con le quali se le portano alla bocca, basterebbe a travagliare uno stomaco che non fosse d'acciaro. Pròvati a far loro qualche osservazione, e vedrai. Ti guardano e ridono credendo che tu scherzi.

Una sera passando presso allo scalo di Santa Lucia, mi dette nell'occhio un gruppo di persone non indecentemente vestite che, sedute su panche disposte intorno ad un piccolo pozzo senza spallette e scoperto, stavano a bere, frescheggiando, bicchieri d'acqua che mi parve vedere attingere da quel pozzo. Spinto dalla curiosità, scesi e domandai. Il pozzo era quello della sorgente d'acqua ferruginosa, della quale mezza Napoli si abbevera ai mille tabernacoli d'acquajoli posti su quasi tutte le cantonate delle vie. Assistei a questo attingimento e con me vi assisterono anche gli amatori del piccolo Montecatini. Ed ecco come si attinge quest'acqua. Si levano le scarpe, tirano fuori un par di piedi come sono, ma veramente come non dovrebbero essere; si calano nel pozzo mettendo questi piedi in buchette scavate nelle sue pareti, finchè non giungono ad avere l'acqua a mezza gamba, tuffano allora l'anfora ficcandola sotto con le relative mani e dopo escono fuori a dispensare in giro 'u refrisch (il rinfresco). Il concorso degli attingitori è giornalmente di qualche centinaio ed il sistema è sempre il medesimo. A te, come a me, correrà subito al pensiero questa domanda: una tromba? o, per lo meno, una secchia, un brandello di fune, una carrucola, un ammenicolo qualunque, non renderebbe l'operazione e l'acqua più pulite, anzi meno ributtantemente laide? Io direi di sì, ma va' a dirlo a loro. Ne ricusai un bicchiere che mi venne offerto e dissi le mie ragioni, ma fu lo stesso che pestar l'acqua nel mortaio. – Si nun facimmo accussì, comm'avimmo a fà, neh, signurì? – Ecco quel che mi fu risposto.

Addentrandosi poi ad osservare più da vicino e più minutamente le condizioni morali, il disordine delle idee di questa gente e le sue conseguenze, il senso che si prova, dopo averne ammirate le fiacche virtù e sorriso su i piccoli difetti, è davvero di profondo sconforto, quando siamo arrivati a convincerci che il sentimento della dignità umana è lettera morta per costoro. Per arrivare a levarti un soldo di tasca, son capaci perfino di scendere a leccarti le scarpe, senza mostrare di sentirsi minimamente umiliati da questo atto di ultima degradazione.

Un giorno, mentre me ne stavo seduto su la marina presso Piedigrotta, leggendo un giornale, mi si accostò un giovinetto col solito: – Signurì, u soldo. – Io che conoscevo un poco l'insistenza degli accattoni, mi proposi, non avendo altro da fare, di metterla a prova con questo disgraziato. Gli dissi, in modo da lasciarlo sperare, la sacramentale parola vattènn! – e seguitai a leggere. Allora lui, per muovermi al riso o alla compassione, cominciò a far capriole, a gonfiare il torace e ad imitare voci d'animali, eppoi: – Signurì, u soldo – Ed io: – Vattènn! – e lui daccapo alla mozione degli affetti. Tirò fuori la lingua che lasciava ciondolare fuori della bocca come un cane trafelato, si arrovesciò le palpebre degli occhi, si mise a corrermi d'intorno con le mani e coi piedi e di nuovo: – Signurì, u soldo – E io daccapo: – Vattènn! – Dopo tre quarti d'ora (avevo guardato scrupolosamente l'orologio) mi alzai annoiato, ma sempre insistendo nel negare la elemosina. Non si perse di speranza. Mi si mise dietro per qualche ventina di passi, rinforzando la dose delle capriole e delle smorfie; e io: no! A che cosa ricorse questo miserabile, quando vide esaurito ogni mezzo per muovermi a tenerezza? Mi si buttò inginocchiato ai piedi, mi spolverò le scarpe col suo berretto e cominciò a baciarmele ed a leccarmele, abbracciandomi strettamente le gambe. Mi balenò l'idea di dargli un calcagno sulla testa, ma poi pensai: Perchè debbo punirti d'una vergogna che non è tua? Gli detti il soldo e tirai avanti.

 

E questa prostrazione morale, questo non senso del proprio decoro non appartiene soltanto agli ultimi straccioni, ma l'ho trovato anche più in su.

Un operaio, al quale ebbi occasione di fare un piccolo piacere, venne per ringraziarmi. L'effusione, con la quale principiò a dimostrarmi la sua gratitudine perchè nel fondo questi manierosi erbivori la stoffa del cuore non l'avrebbero cattiva, mi fece quasi tenerezza, ma rimasi bruttamente nauseato, quando, con l'aria della più spontanea ingenuità, mi disse: – Eccellenza, comandate un vostro servo; io sono pronto a fare per voi i più sporchi servigi. – Hai capito? I padroni, a forza di frustate e di dieta morale, hanno saputo addomesticarsi il cane mirabilmente, e con quanto amore badano che non si guasti!

Tutto quello che si racconta della famosa iettatura non è favola. E da questo pregiudizio non è attaccato il solo volgo, ma, tolte rare eccezioni, la intera città. Corna nelle botteghe; corna nelle case; amuleti alle catene degli orologi, agli anelli, ai pomi delle mazze, amuleti da per tutto. Famiglie intere di oneste e rispettabili persone sono rigettate dal consorzio civile perchè sospette di comunicare il malefico influsso. Passa un gobbo, un cieco, uno storpio, c'è lo scongiuro particolare da farsi per scansare l'atroce pericolo. Vi passano da destra, il tal segno è opportuno; da sinistra, il tale altro. E chi sa poi quante raffinatezze vi saranno che all'audace profano non è dato conoscere!

La loro scienza è la superstizione; la loro fede l'idolatria. Il ridurre il culto della divinità a idolatria non è un privilegio di costoro, ma appartiene alla intera umanità. Però fra questa gente ha le sue manifestazioni più spiccate. Ho assistito a qualche funzione religiosa ed ho potuto notare come siano stati ammaestrati anche intorno a questo soggetto. L'idea di materializzare la divinità e di figurarsi l'Ente supremo in carne ed ossa, con ampia tunica, lunga barba ed occhio fulmineo, provvisto in grado eminente di quattro almeno dei sette peccati mortali, è comune, è radicata in ogni classe di devoti; ma il lazzaro Napoletano va più in là, ed il suo Dio, o meglio il suo Santo se lo immagina addirittura un cialtrone della sua stampa e come lui cedevole davanti alla prepotenza. Egli lo prega fino ad un certo punto e se non ottien subito la grazia richiesta, lo impreca e lo minaccia con urli rabbiosi e strida selvagge: lo deride, gli fa corna e boccacce, finchè ottenuto l'intento, e credendo che il Santo abbia ceduto alla paura, si pente dell'abuso, si scusa e lo ringrazia col viso inondato da lacrime di tenerezza.

Le idee: Dio, Diavolo, numeri del lotto, streghe, iettatura, Santissima Trinità, onore, lenocinio, coltello, guadagno, furto, ec., dal modo, col quale sembrano conciliarle, non devono avere nel loro cervello un posto fisso: – Signurì, famme guadagna' 'nu soldo – te lo ripetono continuamente chiedendoti l'elemosina. Ricorrere ad una fattucchiera, per avere i numeri del terno ed accendere il lume alla Madonna, perchè sortano dall'urna, è, fra questa gente, un fatto de' più comuni. Di patria, d'Italia, di nazionalità non occorre parlarne. Essi sono napoletani e basta, ed il resto degl'Italiani, dal lato Nord son Piemontesi, dal lato Sud cafoni e niente altro; ma del rimanente, neppure per il loro nido sentono nobile affezione, non hanno altre aspirazioni che il godimento tranquillo della loro miseria. Lasciateli svoltolarsi nel loro fango e date loro chiocciole e maccheroni a poco prezzo, non chiederanno mai qual forma di Governo regga il loro paese.

Amanti all'eccesso degli ornamenti baroccamente sfarzosi, adornano a profusione e di fiori e di foglie le merci che tengono in mostra alla vendita, anche se del genere più vile. Il gonfio caballero che fa, in pubblico, maggiore ostentazione delle sue migliaia, forma l'ammirazione entusiastica di questi poveri iloti.

Concetta e Gennaro e i loro figli Peppiniello e Nennella e Totonno e Carminiello e Cannatella e il piccolo Cicillo, hanno passato la notte accatastati sopra un pagliericcio muffito, succhiati dalle cimici e dai pidocchi, intirizziti dall'umido, molestati dalle talpe e mezzi asfittici dal tanfo respirato; eppure a vederli, quando sbucano dai loro vichi che fanno capo su qualche pubblico passeggio, sembrano contenti come le anime più agiate della terra. E quando scorgono passarsi davanti i più lussureggianti equipaggi, guardano, sorridono e si crogiolano mezzi affascinati, dandosi nel gomito e accennando e dicendosi fra loro: – U bì! u bì! u nostro duca! u nostro conte! u nostro parone!… – Se li sono ammaestrati, ti dico, se li sono ammaestrati in un modo maravigliosamente maraviglioso.

Il Re non è nelle buone grazie di costoro, perchè sotto il suo regno i viveri sono rincarati; ma se Vittorio Emanuele attraversasse i quartieri bassi della città adornato di penne di pappagallo, di campanelli e di gemme di Murano, come il capo d'una tribù selvaggia, si prostrerebbero ad adorarlo. Non per questo tutta l'ammirazione che potessero concepire per un tal pennuto corifeo, varrebbe a sradicare dalle loro convinzioni che Governo vuol dire oppressione; autorità, arbitrio; amministrazione, ladronerìa. «Coi quattrini sarei ascoltata, ma non ne ho; e allora che volete che vada a ricorrere se non son più nè giovine nè bella?» Così mi disse una povera donna che sosteneva d'aver sofferto angheria non so da quale autorità. E credo di non ingannarmi dicendoti che questo è il vero caso di ripetere ab uno disce omnes.

Il Medio Evo, ormai evirato dal dominio spagnolo, e colpito gravemente dalle riforme di Carlo III, pareva dovesse allontanarsi per sempre da questo felice paese, quando allettato dalle sanguinose carezze di Ferdinando I, cambiò consiglio e rimase. Imbattutosi poi nei trent'anni di regno di Ferdinando II, abbandonò qualunque idea di fuga, rialzò le tende sgualcite e ritrovando in parte la quiete e la salute perduta, si trattenne beato fra gli amplessi del più brutale e pauroso tiranno, a cui tenevan bordone un clero fanatico e prodigiosamente ignorante, e la fetida caterva dei birri alti e bassi, i quali tutti insieme, reggendosi per mano, si dettero a spargere, ciascuno pel proprio utile, terrore, ignoranza e la più abbietta corruzione, senza neanche l'ombra di quel ritegno, dietro al quale cerca onestare le sue azioni anche il più sfrenato birbante. – Un cerchio di ferro chiuse la città, o meglio, l'intero Regno delle due Sicilie, all'apparire di questo fatale monarca. Questo cerchio dopo il 1848 fu anche rinforzato e ribadito maggiormente, essendosi maggiormente rinforzata la paura nell'amato sovrano, e l'isolamento divenne allora assoluto. Il nuovo pensiero che, ingrandendo ad ogni passo, svegliava l'Europa, incontrata la ferrea muraglia cadeva, o spaurito la penetrava in forma di contrabbando mortalmente pericoloso. Una grave nebbia si addensava su tutte le intelligenze; si mettevano i bracchi dietro alle nuove idee e, scovatele, si strozzavano con voluttà. Bastava ostentare devozione al Governo, perchè non aveste più nulla da temere, quantunque depravata la vostra coscienza. Lo spionaggio divenne accortezza; l'arbitrio, zelo; la prepotenza, energia; il pregiudizio, fede. La frode, il furto, la truffa furono incoraggiati ed anche legalizzati, se a questa frode, a questo furto, a questa truffa poteva partecipare l'autorità incaricata di reprimerla. Il sotterfugio diventò sistema; dal sistema sorse la generale diffidenza, la quale, giungendo al suo colmo, non si restrinse fra estraneo ed estraneo, ma fra parenti e parenti e perfino fra padre e figli. Ognuno riguardò il suo simile come un nemico, disposto a tendergli l'agguato, ogni uomo diventò una macchina per conto proprio; la simulazione, la malafede e l'inganno sotto tutte le forme, e un egoismo necessario e spontaneo vegetarono rigogliosi in un terreno così ben preparato. L'isolamento fisico si accompagnò all'isolamento morale e così la intera città, in alcuni periodi, prese l'aspetto di paese attaccato da contagio pestilenziale. D'istruzione e di educazione per il popolo non se ne parlava o, se se ne parlava, era data nelle mani di coloro che non volevano, che non sapevano, o ai quali veniva imposto di compartirla secondo le teorie di chi dichiarava opere diaboliche il vapore, il telegrafo, la fotografia e tutte, insomma, le più grandi manifestazioni dell'ingegno umano. Il vero ingegno, se rivolto alla luce delle scienze, era soffocato sotto la persecuzione; l'onestà sospetta e tenuta d'occhio.