Buch lesen: «Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts», Seite 5

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Giovanni Sercambi di Lucca sembra adottare nella cornice della propria raccolta di novelle uno schema in superficie analogo a quello del Decameron: un gruppo di persone s’allontana dalla città natale per evitare la moría, proponendosi tuttavia sin dall’inizio di tornare quando i brutti tempi siano passati:

[…] pensonno con un bello exercizio passare tempo tanto l’arie di Lucca fusse purificata e di pestilenzia netta; e raunati insieme, li ditti diliberonno di Lucca partirsi e per la Italia fare i loro camino con ordine bello e con onesti e santi modi.28

Il motivo narrativo suggerito dal Boccaccio viene tuttavia sfruttato per veicolare contenuti assai diversi, in quanto l’esilio volontario dei lucchesi assume due aspetti originali: politico e religioso. Analogamente a quanto avveniva nella cornice del Decameron, si tratta di una scelta superficialmente volontaria ma, in realtà, imposta dall’incombente pericolo di morte. Tuttavia, mentre nella raccolta boccacciana si trattava di un’iniziativa privata che riguardava un esiguo gruppo d’amici e di parenti, desiderosi di seguire l’esempio d’altri, simili e piú o meno anonimi gruppi, nella cornice sercambiana si tratta d’una scelta civica. La posta in gioco non è solo la propria vita ma il destino dell’intera comunità, e la morte incombente non è soltanto quella materiale, ma altresí quella spirituale. Anzi, la questione della morte fisica e la problematica materiale della peste sembrano presto respinti in secondo piano da considerazioni di carattere spirituale e moralizzante. Lo preannunciano già le parole con cui il Sercambi dà inizio al proprio racconto:

È la natura umana creata e fatta da Lui a Sua somiglianza acciò che tale umana natura la celestiale corte debbia possedere, se di peccati non è ripieno; e quando per follia dessa dal celestie paradiso è privata non se ne dè dare colpa se non ad essa umana natura, e simile se E’ li dàe diversitadi per li nostri peccati comissi […].29

L’epidemia di peste non è altro, infatti, che una severa e collettiva punizione dei peccati mandata da Dio; per sottrarsi al pericolo d’annientamento, la comunità deve rompere con il passato e rinascere dando prova di corretta condotta morale:

neuna medicina può riparare, né ricchezza stato né e altro argomento che prender si possa sia sofficiente a schifar la morte altro che solo il bene, ch’è quello che da tutte pestilenzie scampa; e quella è la medicina che salva l’anima e ‘l corpo.30

Per questo, appunto,

alquanti omini e donne, frati e preti et altre della città di Lucca […] diliberonno, se piacer di Dio fusse, […] prima accostarsi con Dio per bene adoperare e da tutti i vizii astenersi; e questo faccendo la pestilenzia e li altri mali che ora e per l’avenire si spettano, Idio per sua pietà da noi cesserà.31

Nell’allontanarsi dalla città contagiata, i protagonisti sercambiani non soltanto vogliono fuggire un luogo nefasto, ma anche intendono avvicinarsi all’agognata meta spirituale seguendo l’insegnamento del loro nuovo leader:

poiché diliberati siemo per campare la vita e fuggire la peste, debiamo eziandio pensare di fuggire la morte dell’anima, la quale è piú d’averne cura che lo corpo. E acciò che l’uno e l’altro pericolo si fugga, è di necessità pigliare la via di Dio e’ suoi comandamenti e, con quelli savi modi che si denno, guidare le nostre persone.32

Da una parte, lo star lontano dalla patria coincide con il compimento d’un lungo viaggio di carattere penitenziale, con un’importante tappa romana dedicata soprattutto a pratiche devozionali. Dall’altra, quell’esperienza serve a mettere a punto la nuova organizzazione sociale e politica dei lucchesi. Infatti, per poter mantenere il giusto rigore morale, essi s’organizzano in una società di tipo signorile: dopo aver scelto un preposto, tutti gli giurano ubbidienza, gli affidano la gestione delle finanze comuni e la scelta dell’itinerario. È lui che comanda per l’intera durata della permanenza fuori Lucca, è lui che nomina i responsabili dell’organizzazione del viaggio, è lui che stabilisce il ritmo delle giornate. Non si tratta, di contro al Decameron, semplicemente d’assegnare i compiti alla servitú, bensí di nominare veri e proprî funzionarî del nuovo potere signorile. Del raffinato clima d’uguaglianza e di reciproco rispetto che regnava nel Decameron non rimane alcuna traccia. In tale contesto cambia anche la funzione attribuita all’atto del narrare: esso non deve servire ad altro che all’indottrinamento degli ascoltatori e tale delicata missione viene affidata esplicitamente e personalmente a un fedele e autorevole portavoce del preposto. L’unico narratore è poi facilmente identificabile, grazie all’acrostico che si trova in un «piacevole sonetto» iniziale, nello stesso Sercambi, noto tra i suoi concittadini come storico e cronachista.33 La brigata sercambiana non dialoga, ma ascolta e impara, limitandosi a lodare gli insegnamenti morali, condannare i vizî e concedersi a volte qualche risata. La voce del narratore unico, e autore della relazione del viaggio,34 è accompagnata esclusivamente da canzoni e poesie moralizzanti; se ci sono tracce di polemiche e divergenze d’opinione, esse sono e rimangono velate e allusive.35 Le analogie tra simile raffigurazione fortemente ideologica – e idealizzata, poiché il nuovo assetto sociale e politico implicitamente s’identifica, nella narrazione sercambiana, con la volontà di Dio – e il reale impegno politico dell’autore sembrano confermare quest’interpretazione.36 Siccome l’unico manoscritto pervenutoci dell’opera è mutilo e tronco, nulla sappiamo del ritorno in patria dei lucchesi. Ma le reali vicende storiche di Lucca e l’instaurazione del potere signorile appoggiata dal Sercambi sembrano offrire una soluzione all’enigma.

Per il Sercambi, dunque, l’esilio è una scelta, che si direbbe inevitabile e ovvia, operata dai giusti di fronte a una corruzione che scatena l’ira di Dio, e contro la quale non si scorgono rimedî diversi. Per fuggire il peccato ci si deve sottoporre a un periodo di prova e di perfezionamento. Se i pragmatici e concreti obiettivi sono per l’autore consoni all’attuale situazione politica della patria, la fase dell’esilio li nobilita e li sublima.

Non stupisce il fatto che in un’opera di cosí evidente carattere politico il motivo dell’esilio o quello del bando ritornino in numerose novelle. Nel mondo narrativo sercambiano l’esilio di un protagonista e di un gruppo di persone consente d’individuare e di caratterizzare un determinato momento storico, quasi a confermare il ruolo emblematico che il fenomeno ebbe nella realtà politica toscana dell’epoca (cfr. Nov. CV, 5: «nella nostra città, molti cittadini lucchesi per male stato di Lucca si partirono», CXXVIIII, 5: «essendo in Vinegia per lo male stato di Lucca andati a stare»), oppure serve a descrivere piú generalmente la condizione politica e sociale (cfr. Nov. CXXXVI e CXXXVII). L’esilio sembra quasi una condizione «abituale» nell’instabile mondo dei potenti (cfr. Nov. CXXXVIII, 9: «i Rossi di Parma furono cacciati»). E il tema ritorna addirittura in una delle canzoni (Nov. CXXXVII, 3) :

chi caccia e chi è cacciato

e tel che piglia quel ch’un altro leva

cosí non mai han tregua

i corpi governati di fortuna.

Ben nota all’autore sembra la precaria condizione dell’esiliato (cfr. Nov. LXXI, 6: «Dante di Firenze non potendo stare in Firenze, né in terra dove la Chiesa potesse, si riducea il preditto Dante alcuna volta con quelli della Scala, et alcuna volta al Signore di Mantova, e tutto il piú al duge di Lucca, cioè con messere Castruccio Castracani»; CXVIII, 9: «stando i preditti […] oggi in un luogo domane in uno altro come li sbanditi fanno»), mentre in una serie di novelle viene messa in risalto la conflittualità provocata dal ritorno degli esiliati in patria (cfr. Nov. CXXXVI, CXXXVII, CXXXVIIII e CXLV).37 L’esilio emerge anche nei racconti di tipo fiabesco, ove dà luogo a una serie d’avventure miracolose (cfr. Nov. LXXXXVI) o porta a una esemplare presa di coscienza, quando l’umiliazione subita insegna al figlio dell’imperatore il vero valore del proprio ruolo sociale (cfr. Nov. LXV).

Il bando non è tuttavia solo l’«appannaggio» dei potenti: è una frequentissima forma di punizione per varî tipi di trasgressione o di reati comuni (cfr. Nov. LXXXXII, LXXXXIIII e LXXXXVIIII) applicata anche a persone di modesta condizione sociale. Sembra che per il Sercambi si tratti d’una soluzione incompiuta o lasciata a metà: il trasgressore non può piú far male ed è quindi «neutralizzato», ma ciò non equivale alla giustizia, soprattutto se il malfattore può nonostante tutto godersi ugualmente i frutti dei proprî reati (cfr. Nov. LXXXXII). Spesse volte il bandito commette nuovi crimini che portano all’unica, per il narratore, giusta soluzione finale ch’è la pena capitale (cfr. Nov. CXV, 57: «li fé tagliare la testa come la ragion vuole»; e CXXXIII, 20: «con belli et onesti modi la donna morire fé»).

Si potrebbe sostenere che nella raccolta novellistica del Sercambi il motivo dell’esilio / allontanamento focalizzi due aspetti dell’intero suo progetto narrativo. Da una parte si tratta d’una forte carica idealizzante e moralizzante: l’abbandono dello spazio domestico può equivalere all’abbandono dei vizî quotidiani e di routine, al rinnovamento spirituale e alla ricerca d’una vita nuova e migliore. Dall’altra, invece, l’esilio è intrinseco elemento della realtà sociale e soprattutto politica che va affrontato con mezzi pragmatici ed efficaci. Si tratta di fenomeni e situazioni fondamentalmente diversi e che vanno valutati, e soprattutto gestiti, con criterî diversi.38

La terza raccolta che vorrei ricordare in questa sede è Il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino, opera rimasta finora sostanzialmente anonima in quanto nessun tentativo d’individuarne l’autore storico ha portato a risultati soddisfacenti.39 In proposito, una delle piste da seguire sarebbe, secondo taluni esegeti, per l’appunto legata al motivo dell’esilio, che nel Proemio della raccolta appare in modo tale da meritare che vi ci si soffermi. Come nei casi precedenti, anche in questo il narratore si autopresenta:

[…] ritrovandomi io a Doàdola, isfolgorato e cacciato dalla fortuna, come per lo presente libro leggendo nello fotturo potrete udire, e avendo inventiva e caggione da potere dire, cominciai questo negli anni di Cristo MCCCLXXVIII, essendo eletto per vero e sommo apostolico della divina grazia papa Urbano sesto, nostro italiano; regnando lo ingesuato Carlo quarto, per la Dio grazia re di Buemmia, e imperadore e re de’ Romani.40

La breve presentazione è ricca di puntuali riferimenti politici: nell’inquieto anno 1378 a Firenze si ricorreva piú frequentemente del solito a condanne al bando che dovevano colpire collettivamente, a ondate, gli avversari politici.41 Nel definire o caratterizzare in modo succinto e adeguato quel momento storico, l’autore si serve spontaneamente dei riferimenti alle massime autorità politiche, a lui ben note. Anche la scelta di Dovadola per rifugio sembra alludere a condizionamenti di carattere politico: si trattava infatti d’un feudo dei conti Guidi, casata ben presente nelle vicende politiche toscane e fiorentine. La problematica politica ritornerà poi massicciamente nelle novelle, piú della metà delle quali riprende brani interi della Cronaca del Villani, che viene introdotta nel discorso come «uno morale e alto ragionamento».42 Tutto ciò non permette tuttavia di precisare meglio le condizioni dell’esilio del narratore, e la lettura delle novelle «del presente libro» risulta da questo punto di vista deludente. La questione rimane sospesa e perciò, come tante altre del Pecorone, ambigua fino alla fine. Le allusioni politiche s’intrecciano tuttavia ad altre di ben diversa natura. L’autore intraprende il proprio compito apparentemente sulla scia del Boccaccio:

per dare alcuna stilla di refriggero e di consolazione a chi sente nella mente quello che nel passato tempo ho già sentito io, mi muove zelo di caritevole amore a principiare questo libro, nel quale, per la grazia di Dio e della sua santissima Madre, tratteremo di uno frate e d’una sorore, i quali furono profondatissimamente innamorati l’uno dell’altro, come per lo presente potrete udire; e sepponsi sí saviamente mantenere, e si seppon portare il giogo dello isfavillante amore, che a me dierono materia di seguire il presente libro.43

Il giovane uomo menzionato dal narratore non è poi altro che l’autore stesso, come si può facilmente desumere dal nome, Lauretto, che n’è un semplice anagramma. Pur ammettendo che il suo esilio avesse motivazioni politiche, va rilevato ch’esse non sembrano avergli causato dolori sufficienti a raccontarne piú estesamente le miserie. Il soggiorno a Dovadola, nei pressi di Forlí, luogo delle antiche passioni dell’autore, l’ozio forzato di questi e il molto tempo libero a sua disposizione, sembrano tuttavia aver ben ravvivato in lui la memoria delle cose passate: la raccolta di novelle sarebbe in un certo senso un by-product, un imprevisto effetto dell’esilio. Notiamo infine che, contrariamente alle raccolte citate in precedenza, nel Pecorone non si accenna al ritorno in patria e, in questo senso, non v’è alcun lieto fine. Non è infatti quello l’obiettivo del narratore, che raggiunge il proprio scopo nel momento stesso in cui ricorda la felicità passata:

e’ detti due amanti con singularissimo diletto piú e piú volte s’abbracciorono insieme con molte amorose e dolcissime parole […]. E cosí il detto frate Oretto ebbe dalla Saturnina quella consolazione e quel diletto che onestamente si può avere. E cosí puoson fine a’ lor disiati e dilettevoli ragionamenti, e ciascuno si partí con buona ventura.44

La funzione dell’esilio sembra interamente esaurirsi nell’occasione materiale e nello stimolo psicologico da esso offerti per tornare con la mente ai momenti felici del passato. «Ricordarsi i tempi felici nella miseria» non è motivo di dolore, ma induce riflessione, pace e consolazione. Un sapiente atteggiamento mentale permette di trovare anche nell’esclusione forzata dal proprio ambiente abituale – nella condizione di uomo «isfolgorato e cacciato dalla fortuna» – un tempo di serena tregua dalle stressanti battaglie quotidiane. Appare coerente con quest’impostazione il fatto che il motivo dell’esilio compaia alquanto sporadicamente nelle novelle, sia quelle «familiari» della prima parte della raccolta che quelle “storiche” desunte dalla Cronaca del Villani, non diventandovi mai centrale e riducendosi, anzi, a pochi e scontati ricordi delle reciproche «cacciate» delle varie fazioni politiche nelle città d’Italia, oppure a far da sfondo ad avventurose vicende di carattere fiabesco.

Ciò che può invece sorprendere è la consolazione che offre a se stesso lo sfortunato autore / amante. Carlo Muscetta suggerí decennî fa che vi si rinvenisse addirittura un intento parodistico.45 Il ricordo rievocato con nostalgia è infatti una strana storia, psicologicamente immotivata, in cui i due amanti, «per mitigar la fiamma dell’ardente amore, del quale ismisuratamente ardieno»,46 s’incontrano castamente nel parlatoio di un convento e si raccontano vicendevolmente delle novelle, all’inizio spesso salaci e poi di carattere storico-erudito, talvolta smisuratamente lunghe ma comunque presentate come «la leggiadra inventiva e la vaga maniera e l’innamorati ragionamenti che insieme teneano».47 Irrisolta rimane la questione delle vistosissime incongruenze del Pecorone, e impossibile il dire s’esse siano un involontario effetto dell’incapacità del narratore, o costituiscano messaggi cifrati od obliqui da scoprire, oppure risultino da un assemblaggio approssimativo di due testi preconfezionati ed eterogenei.48

Le osservazioni sin qui presentate non sono che l’abbozzo d’uno studio dell’uso del motivo dell’esilio fatto dalla novellistica italiana dei primi secoli. Nel pur specifico e limitato campione preso in esame si rispecchia la parentela della novella con la cronaca, con l’aneddotica, con la fiaba e con la parabola. Nel riflettere varî usi e manipolazioni diverse, esso ben illustra, soprattutto se confrontato con la letteratura umanistica e d’ispirazione «alta», da un canto, l’eccezionale versatilità del racconto novellistico e ricorda, dall’altro, come ogni convenzione possa esser trasgredita e tradursi in amplissimo e multiforme diapason trascorrente dal sublime all’umile.

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II. Florenz: Cosimo de’ Medici und Filelfo /
Firenze: Cosimo de’ Medici e il Filelfo
Cosimo de’ Medici: The Exile as Hero

David Marsh (Rutgers, New Brunswick)

In the violent and volatile politics of medieval and Renaissance Italy, exile was a common punitive measure employed by rulers and regimes. But in political terms, the most important exile in the Florentine Quattrocento was that of Cosimo de’ Medici in 1433, which led to his return the following year and the consolidation of Medici power that would dominate Tuscany for three centuries. Like other exiles in Western history, and like the numerous fuorusciti of the Italian peninsula, Cosimo’s experience of exclusion was reflected in various literary works that illuminated an individual’s banishment in the wider context of history.1

A central series of texts in the Quattrocento discussion of exile was provided by Plutarch’s lives of the ancient Greeks and Romans. In her magisterial study of the translations, translators, and dedicatees, Marianne Pade concludes:

In pre-Medicean Florence and Venice the humanists working on Plutarch were themselves, to some degree, designers of the ‘myths’ of their city. In the Florence of the Medici and later in papal Rome that was probably less the case, but for various reasons they still used classical Antiquity to support the political claims of self-representation of those in power. It was important for Cosimo de’ Medici to present himself as the republican statesman who had saved his country from great danger by freeing it from a tyrant’s rule. As Alison Brown has shown, the humanists cleverly supported that image by dedicating to him Lives whose eponymous heroes had freed their country from tyrants (Timoleon), rebuilt it after a disaster (Camillus), or, after saving it from great danger, had suffered exile and then returned (Themistocles).2

Indeed, Alison Brown’s classic study of Cosimo as Pater Patriae singles out three sources for this image: two letters addressed to the banker by Poggio Bracciolini, and the prefaces to Plutarchan lives by Antonio Pacini and Lapo da Castiglionchio. But she is most concerned with the image of Cosimo as the leading republican statesman, so that she mentions the theme of exile only in passing. As is well known, this classicizing adulation reached a highpoint thirty years later, when the Signoria posthumously awarded Cosimo the title Pater Patriae, “Father of the Country”, an honor once awarded to Cicero, which in 1465 Verrocchio carved on his burial slab in San Lorenzo.