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Buch lesen: «Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3», Seite 13

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Premesse adunque le predette cose, soggiugne l’autore quello che da Virgilio detto gli fosse, dicendo: «Allor lo duca mio parlò di forza, Tanto ch’io non l’avea sí forte udito,» parlare infino a questo punto: – «O Campaneo, in ciò che non s’ammorza», cioè s’attuta per martirio che tu abbi, «La tua superbia, se’ tu piú punito;» e soggiugne la cagione: percioché «Nullo martiro», quantunque grande, «fuor che la tua rabbia», con la quale, oltre al fuoco che t’affligge, tu ti rodi di te medesimo, «Sarebbe al tuo furor dolor compito». —

«Poi si rivolse». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale, poiché ha ammaestrato chi fosse questo grande, del quale di sapere disiderava, per certe circunlocuziuni Virgilio piú pienamente gliele dichiara. Dice adunque: «Poi», che cosí di forza ebbe parlato a quello arrogante spirito, «si rivolse a me con miglior labbia», cioè aspetto; erasi per avventura commosso, udendo Campaneo cosí superbamente parlare, e perciò cambiato nel viso; «Dicendo: – Quel fu l’un de’ sette regi Ch’assiser Tebe», cioè assediarono, come di sopra è mostrato, «ed ebbe, e par ch’egli abbia Dio in dispregio, e poco par che’l pregi; Ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti Sono al suo petto assai debiti fregi». Impropriamente parla qui l’autore, trasportando, auctoritate poetica, in dimostrazion d’ornamenti, quello che vuol che s’intenda per accrescimento di tormenti; dice adunque che, come i fregi sono ornamento al petto, cioè a quella parte del vestimento che cuopre il petto, cosí i dispetti di costui sono debito tormento all’anima sua.

«Or mi vien’ dietro». Qui comincia la quinta parte del presente canto, nella quale l’autore discrive dove, ammonito da Virgilio, divenisse; e dice: «Or mi vien’ dietro», senza piú ragionare di Campaneo, «e guarda che non metti Ancor li piedi nella rena arsiccia», cioè inarsicciata per la continua piova delle fiamme, che veniva di sopra: «Ma sempre al bosco», del quale è detto di sopra, e lungo il quale andavano, «fa’ li tenghi stretti», – cioè accostati.

«Tacendo divenimmo lá ove spiccia, Fuor della selva», cioè del bosco predetto, «un picciol fiumicello, Lo cui rossore ancor mi raccapriccia», cioè mi commuove, come si commuovono gli uomini, quando veggono alcuna orribil cosa: e questo fiumicello era orribile per la sua rossezza, in quanto pareva sangue, e però il dice essere rosso, perché si comprenda quello dirivarsi da quel fosso di sangue, nel quale di sopra ha mostrato essere puniti i tiranni e gli altri violenti nel prossimo.

E appresso questo, per una comparazion di scrive la grandezza e ’l corso di quello, dicendo: «Quale del bulicame», cioè di quello lago bogliente, il quale è vicino di Viterbo, cosí chiamato, «esce il ruscello», cioè un piccol rivo, «Che parton poi tra lor le peccatrici». Dicono alcuni appresso a questo bulicame essere stanze, nelle quali dimorano le femmine publiche, e queste, per lavare lor vestimenti, come questo ruscello viene discendendo, cosí alcuna particella di quello volgono verso la loro stanza. «Tal per la rena giú sen giva quello», che usciva fuori della selva. «Lo fondo suo ed ambo le pendici», cioè le ripe, le quali perciò chiama «pendici» perché pendono verso l’acqua, «Fatte eran pietra, e i margini d’allato», come nel presente mondo fanno alcuni fiumi, sí come qui fra noi l’Elsa, e presso di Napoli Sarno; «Per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici», dove le pendici erano cosí divenute di pietra.

– «Tra tutto l’altro». Qui comincia la sesta parte del presente canto, nella quale Virgilio gli discrive l’origine de’ fiumi infernali, dicendo: – «Tra tutto l’altro ch’io t’ho dimostrato, Posciaché noi entrammo per la porta, Il cui sogliare a nessuno è negato», di poterlo, entrando dentro, trapassare (e questo «sogliare» è quello della prima porta dello ’nferno, sopra la quale è scritto: «Per me si va», ecc.), «Cosa non fu dalli tuoi occhi scorta», cioè veduta, «Notabil come lo presente rio», che uscendo dalla selva qui corre, e «Che sopra sé tutte fiammelle», di quelle che quivi continuamente piovono, «ammorta», – cioè spegne.

«Queste parole fûr del duca mio» (cioè quelle che dette sono, «Cosa non fu», ecc.), «Per ch’io ’l pregai che mi largisse», cioè donasse, «il pasto», cioè che egli mi facesse chiaro perché questo ruscello fosse la piú notabil cosa che io veduta avessi per infino a qui in inferno: «Di cui largito m’aveva ’l disio», cioè fatto nascer disiderio di sapere.

Per lo qual priego dell’autore, Virgilio incomincia a discrivergli l’origine de’ detti fiumi, cosí: – «In mezzo ’l mar siede un paese guasto, – Diss’egli allora, – che s’appella Creta».

Creti è una isola dell’ Arcipelago, ed è una delle Cicladi, e perciò dice che ella siede in mezzo mare, perché ella è, sí come ogni altra isola, intorniata dall’acque del mare: e chiamala «paese guasto», e cosí è, per rispetto a quello che anticamente esser solea, percioché d’essa scrivono gli antichi che ella fu nobilissima isola, di molti e nobili abitanti, di molte cittá, e fruttuosissima molto; e fu dinominata Creti da un re, il quale ella ebbe, che si chiamò «Cres». Oggi la tengono i vineziani tirannescamente, e hanno di quella cacciati molti antichi paesani e gran parte d’essa, il cui terreno è ottimo e fruttifero, fanno star sodo e per pasture, per tener magri quegli della contrada.

E séguita: «sotto’ l cui rege fu giá il mondo casto». Séguita in questa parte l’autore l’opinion volgare delle genti, la qual tiene che Saturno fosse re di Creti; la qual cosa Evemero nella istoria sacra mostra non esser cosí, anzi dice che egli fu re d’Olimpo, il quale è un monte altissimo in Macedonia. È ben vero che ella era sotto la sua signoria, e perciò dice che sotto il re di questa isola fu il mondo casto; percioché, come altra volta è stato detto, regnante Saturno, fu il mondo o non corrotto, o men corrotto alle lascivie che poi stato non è; e però dice Giovenale,

 
Credo pudicitiam, Saturno rege, moratam
in terris, ecc.
 

«Una montagna v’è», in questo paese guasto, «che giá fu lieta, D’acqua e di frondi», sí come quella nella quale eran molte e belle fontane e dilettevoli boschi, «che si chiamò Ida»; e cosí dallo effetto ebbe il nome, percioché Ida vuol tanto dire quanto «cosa formosa e bella». E qui è da guardare questa Ida non esser quella nella quale si legge che Paris die’ la sentenza tra le tre dèe, peroché quella è una selva vicina ad Ilione. «Ora è diserta», cioè abbandonata, «come cosa vieta», cioè vecchia e guasta. «Rea la scelse giá per cuna», cioè per culla, volendo per questo nome intendere il luogo atto a dovervi poter nudrire e allevare il figliuolo, sí come le nutrici gli allievano nelle culle; «fida», cioè sicura, «Del suo figliuolo», cioè di Giove, il quale quivi allevar fece nascosamente; «e per celarlo meglio, Quando piangea», questo fanciullo, il quale occultamente faceva in questa montagna allevare, «vi facea far le grida», cioè avea ordinato che, piangendo il fanciullo, vi si facesse rom ore da coloro alli quali raccomandato l’avea, accioché il pianto del fanciullo da alcun circunstante non fosse udito né conosciuto.

[E, a piú dichiarazion di questo, è da sapere che, come altra volta di sopra è detto, secondo che si legge nella Sacra istoria, che, avendo Uranio due figliuoli, Titano e Saturno, ed essendo Titano in altre contrade, morendo Uranio, Saturno prese il regno del padre, il quale apparteneva a Titano, sí come a colui che di piú tempo era; il quale poi tornando, e volendo il regno, Saturno non glielo volle dare, sconfortatone dalla madre e dalle sorelle: per che venne Titano a questa composizione, che tutti i figliuoli maschi, ch’egli avesse ovvero che gli nascessero, esso dovesse uccidere; e in questa guisa Titano, senza altra quistione, gli lasciò possedere il regno. Avvenne che la moglie di Saturno, la quale era gravida, e il cui nome fu Opis e Rea, e ancora ebbe alcuno altro nome, partorí e fece due figliuoli, uno maschio e una femmina, e presentò la femmina a Saturno, senza fargli sentire alcuna cosa del maschio, il quale essa chiamò Giove, e occultamente nel mandò in Creti; e quivi fattolo raccomandare ad un popolo, il qual si chiamava i cureti, il fece occultamente allevare. E questi cureti, avendo solenne guardia del fanciullo, accioché alcuno non ne potesse avere alcun sentore, avean fra sé preso questo ordine tra gli altri, che, quando il fanciullo piagneva, essi co’ bastoni battevano o gli scudi loro o bacini o altra cosa che facesse romore, accioché il pianto non fosse sentito.]

E poi segue l’autore: «Dentro dal monte», Ida, «sta dritto un gran veglio», cioè la statua d’un gran veglio, cioè vecchio, «Che tien volte le spalle inver’ Damiata»; Damiata è buona e grande cittá d’Egitto posta sopra il fiume del Nilo; «E Roma guarda sí come suo speglio», cioè suo specchio; e cosí tien le spalle verso levante e il viso verso ponente. «La testa sua», di questa statua, «è di fin òr formata, E puro argento son le braccia e ’l petto», di questa statua, «Poi è di rame fino alla forcata. Da indi in giú», cioè dalla inforcatura insino ai piedi è tutto ferro eletto», cioè senza alcuna mistura d’altro metallo, «Salvo che ’l destro piede», di questa statua, «è terra cotta», come sono i mattoni; «E sta su quel, piú che ’n su l’altro», cioè in sul sinistro, «eretto»; e cosí mostra si fermi piú in sul destro che in sul sinistro, come generalmente tutti facciamo, percioché i membri del corpo nostro, li quali sono dalla parte destra, hanno piú di vigore e di forza che i sinistri: e ciò si crede che avvenga, percioché la bocca del cuore è vòlta verso il destro lato del corpo, e verso quello versa il sangue, il quale poi per tutte le vene del corpo si spande, il calore del quale si crede essere cagion di piú forza a’ membri destri.

Poi séguita: «Ciascuna parte», delle predette del corpo di questa statua, cioè quella ch’è d’ariento e quella di rame e quella di ferro e quella che è di terra cotta, «fuor che l’oro», cioè eccettuata quella che è d’oro, «è rotta D’una fessura che lagrime goccia», cioè gocciola, «Le quali», lagrime gemute da queste parti del corpo di questa statua, «accolte» insieme, «foran questa grotta», cioè quella terra, la quale è interposta tra questa statua e ’l primo cerchio dello ’nferno. «Lor corso», di queste lagrime accolte, «in questa valle», nella quale noi siamo al presente, o in questa valle, cioè in inferno, «si diroccia», cioè va cadendo di roccia in roccia, cioè di balzo in balzo, per li quali di cerchio in cerchio, come veder s’è potuto infino a qui, si discende al profondo dello ’nferno: «Fanno», queste lagrime di sé, cosí discendendo, «Acheronte», il primo fiume dello ’nferno, del quale è detto di sopra nel primo canto; e fanno «Stige», cioè quella palude della quale è mostrato di sopra nel settimo e nell’ottavo canto, la quale si diriva dal superchio che esce del fiume d’Acheronte; e «Flegetonta», ancora fanno, il quale è il terzo fiume dello ’nferno, e dirivasi dall’acqua la qual esce di Stige; e trovossi questo fiume all’entrata di questo settimo cerchio, il qual l’autor discrive esser vermiglio e bollire in esso la prima spezie de’ violenti. «Poi sen va giú per questa stretta doccia», cioè per questo stretto ruscello il qual tu vedi, il quale per la sua strettezza assomiglia ad una «doccia», per la quale, come assai è manifesto, qui si menano l’acque prestamente d’una parte ad un’altra; e però è detta «doccia» da questo verbo «duco ducis», il quale sta per «menare». Poi mostra questo rivo andarne giú, «Insin lá ove piú non si dismonta», cioè infino al centro della terra. E quivi «Fanno», queste lagrime, «Cocíto», un fiume cosí chiamato, ed è il quarto fiume dello ’nferno; «e qual sia quello stagno», di Cocíto, il quale egli meritamente chiama «stagno», percioché piú avanti non si muove, e gli stagni sono acque le quali non hanno alcun movimento, e perciò son chiamate «stagno» da «sto stas», il qual viene a dire «stare»; «Tu il vedrai», questo stagno, discendendo noi giuso; «però qui non si conta», – come fatto sia. Quasi come se gli altri tre avesse discritti, il che egli non ha fatto; ma intende in luogo della descrizione l’avergli l’autor veduti, dove Cocíto ancora veduto non ha.

«Ed io a lui: – Se ’l presente rigagno», cioè ruscello, il quale chiama «rigagno» da «rigo rigas», che sta per «rigare», e questo rio rigava la rena sopra la qual correva, «Si deriva cosí dal nostro mondo», come tu mi dimostri, «Perché ci appar pure a questo vivagno?» – cioè in questa parte sola e non altrove? Della qual domanda dell’autore io mi maraviglio, conciosiacosaché egli l’abbia in piú parti veduto di sopra, sí come manifestamente appare nella lettera e ancor nella dimostrazion di Virgilio. E se alcun volesse forse dire: egli sono appariti i fiumi nati da questo rigagno, ma non il suo diclinare; e questo ancora gli è apparito di sopra, dove nel canto settimo scrive che pervennero sopra una fonte, donde usciva acqua, la quale correva per un fossato, e faceva poi la padule di Stige. E di questo io non so veder la cagione, conciosiacosaché egli ancora il raffermi nella risposta, la qual Virgilio gli fa, dicendo: «Ed egli a me: – Tu sai che ’l luogo è tondo», cioè il luogo dello ’nferno, come piú volte di sopra è dimostrato; «E tutto che tu sia venuto molto», scendendo, «Pure a sinistra giú calando al fondo, Non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto», di questa ritonditá dello ’nferno: «per che se cosa n’apparisse nuova», nel rimanente del cerchio, il qual tu hai ancora a volgere discendendo, «Non dee addur maraviglia al tuo volto», – come che per avventura potrebbe addurre, se tu fossi vòlto per tutto il cerchio. Quasi voglia dire: e però non ti maravigliare se ancora veduto non hai lo scender di quest’acqua, percioché tu non eri ancora pervenuto a quella parte del cerchio, della quale ella scende.

«Ed io ancor: – Maestro». Qui comincia la settima parte di questo canto, nella qual, poi che Virgilio gli ha dimostrata l’origine de’ quattro fiumi infernali, fa l’autore una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele solve. Dice adunque: «Ed io ancor: – Maestro, ove si truova Flegetonte e Letè?», li quali, secondo Virgilio e gli altri poeti, sono similmente fiumi infernali, «ché dell’un taci», cioè di Letè, senza dirne alcuna cosa, «E l’altro», cioè Flegetonte, «di’ che si fa d’esta piova», cioè delle lagrime, le quali escono delle fessure, le quali sono nella statua predetta.

– «In tutte tue quistion certo mi piaci, – Rispose; – ma ’l bollor dell’acqua rossa», il qual vedesti all’entrar di questo cerchio settimo, «Dovea ben solver l’una che tu faci», cioè dove sia Flegetonte. Conciosiacosaché Flegetonte sia interpretato «ardente», l’aver veduta quell’acqua rossa bollire come vedesti, e similmente esser rossa, ti dovea assai manifestare quello esser Flegetonte. «Letè», l’altro fiume del qual tu domandi, «vedrai, ma fuor di questa fossa», dello ’nferno: percioché in questo si scosta l’autore dall’opinione degli altri poeti, li quali tutti scrivono Letè essere in inferno, dove l’autore il pone essere nella sommitá del monte di purgatorio, ben però con quella medesima intenzione che i poeti il pongono in inferno; percioché essi il pongono l’ultimo fiume dello ’nferno, e dicono che, quando l’anime hanno lungamente sofferte pene, e son divenute tali che, secondo la giustizia piú non ne deono sofferire, esse vanno a questo fiume di Letè, e, beúta dell’acqua di quello, dimenticano tutte le fatiche e noie passate, e quindi passano ne’ Campi elisi, li quali dicevano essere luoghi dilettevoli, e in quegli abitare l’anime de’ beati: e cosí l’autore il pone nella sommitá del purgatorio, accioché l’anime purgate e degne di salire a Dio, prima béano di quell’acqua, accioché ogni peccato commesso, ogni noia e ogni fatica dimentichino; accioché, essendo poi nella gloria di Dio, il rammemorarsi di quelle cose non désse cagione di diminuzione alla loro beatitudine. E perciò séguita Virgilio, e dice: – Tu il vedrai, «Lá dove vanno l’anime», dei purgati, «a lavarsi, Quando la colpa è ben tutta rimossa», – per la penitenza.

«Poi disse». Qui comincia la ottava ed ultima parte del presente canto, nella quale, poi che alle sue quistioni è stato satisfatto, ne mostra l’autore come Virgilio l’ammonisce che dietro a lui vada. Dice adunque: «Poi disse: – Omai è tempo da scostarsi», scendendo o procedendo, «Dal bosco», del quale di sopra è stato detto: «fa’, che diretro a me vegne. Li margini», del ruscello, «fan via, ché non son arsi», cioè scaldati dall’arsura la qual quivi piovea, «E sopra loro ogni vapor si spegne», – di questi che piovono, e perciò vi si puote senza cuocere andare.

II
Senso allegorico

«Poiché la caritá del natio loco», ecc. Poiché l’autore ne’ precedenti due canti, per dimostrazion della ragione, ha vedute e conosciute le colpe e i supplici per quelle dati dalla divina giustizia alle due spezie de’ violenti, cioè a coloro li quali usaron violenza verso il prossimo e contro alle cose di quello, e a coloro li quali usarono violenza nelle proprie persone e nelle loro medesime cose; esso, seguitando la ragione, in questo canto ne dimostra come vedesse punire la terza spezie dei violenti, cioè coloro li quali usaron violenza nella deitá e nelle sue cose. E costoro dimostra esser in tre parti divisi, si come contro a tre cose peccarono, cioè contro a Dio, e appresso contro alla natura, e, oltre a ciò, contro all’arte, le quali son cose di Dio. E, comeché in tre parti divisi sieno, nondimeno ad un medesimo tormento esser dannati gli dimostra, in quanto tutte e tre maniere sono in una ardentissima rena, e sotto continuo fuoco, che piove loro addosso, tormentati; ma in tanto son differenti, che coloro, li quali nella divinitá si sforzaron di far violenza, sono sopra la detta rena ardente a giacere supini, sopra sé ricevendo lo ’ncendio, il quale continuo cade loro addosso; e coloro, li quali fecero violenza alla natura, sono in continuo movimento sopra la detta rena, similmente sopra sé ricevendo l’arsura; e coloro, li quali contro all’arte adoperarono, sempre sopra la detta rena seggono, infestati dalle fiamme che piovono. E. percioché, si come chiaro si vede, hanno la maggior parte del tormento comune, estimo, se separata mente di ciascuno dicessi l’allegoria, si converrebbe una medesima cosa piú volte ripetere, il che sarebbe tedioso e fatica superflua; e però, per fuggire questo inconveniente, mi pare debba essere il migliore il dovere in una sola parte di tutte e tre maniere trattare. E questo, sí com’io credo, sará piú utile a dover dire nella fine di tutte e tre le maniere de’ puniti, che nel principio o nel mezzo; e però nella fine del canto diciassettesimo, nel quale di loro la dimostrazion si finisce, come conceduto mi fia, m’ingegnerò d’aprire qual fosse intorno a ciò la ’ntenzion dell’autore.

Appresso questo, è da dichiarare nel presente canto quello che l’autore intenda per la statua la quale egli discrive, e per le rotture che in essa sono, e per i quattro fiumi che da essa procedono; e intorno a ciò è prima da vedere quello che l’autore abbia voluto sentire, avendo questa statua piú tosto figurata nell’isola di Creti che in altra parte del mondo; appresso, perché nella montagna chiamata Ida; e, oltre a ciò, quello che esso senta per i quattro metalli e per la terracotta, de’ quali esso la forma; e similmente quello che voglia che noi intendiamo per le fessure, le quali in ciascun degli altri metalli, fuor che nell’oro, sono, e le lagrime che d’esse escono; e ultimamente quello che egli per li quattro fiumi abbia voluto.

Dice adunque primieramente questa statua essere locata nell’isola di Creti: la qual cosa senza grandissimo sentimento non dice, percioché alla sua intenzione è ottimamente il luogo e il nome conforme. Intendendo adunque l’autore di volere, poeticamente fingendo, fare una dimostrazione, la quale cosí all’indiano come allo ispagnuolo, e all’etiopo come all’iperboreo appartiene, e dalla quale né paese, né regno, né nazione alcuna, dove che ella sopra la terra sia, non è chiusa; estimò esser convenevol cosa quella dover fingere in quella parte del mondo, la quale a tutte le nazioni fosse comune, ed egli non è nel mondo alcuna parte, che a tutte le nazioni dir si possa comune, se non l’isola di Creti, sí come io intendo di dimostrare.

Piacque agli antichi che tutto il mondo abitabile in questo nostro emisperio superiore fosse in tre parti diviso, le quali nominarono Asia, Europa e Affrica; e queste terminarono in questa guisa. E primieramente Asia dissono essere terminata dalla parte superiore del mare Oceano, cominciando appunto sotto il settentrione, e procedendo verso il greco, e di quindi verso il levante, e dal levante verso lo scilocco, infino all’Oceano etiopico posto sotto il mezzodí; e poi dissero quella essere separata dall’Europa dal fiume chiamato Tanai, il quale si muove sotto tramontana, e, venendone verso il mezzodí, mette nel mar Maggiore; il qual similmente, queste due parti dividendo con l’onde sue, e continovandosi per lo stretto di Costantinopoli, e quindi per lo mare chiamato Propontide, e per lo stretto d’Aveo, esce nel mare Egeo, il quale noi chiamiamo Arcipelago, e perviene infino all’isola di Creti, la quale è in su lo stremo del detto mare; di verso mezzodí la dividono dall’Affrica col corso del fiume chiamato Nilo, il quale per l’Etiopia correndo, e venendo verso tramontana, lasciata l’isola di Meroe, e venendose ne in Egitto, e quello col piú occidental suo ramo inchiudendo in Asia, mette nel mare Asiatico, il quale perviene dalla parte del levante infino all’isola di Creti. Poi confinano Affrica dal detto corso del Nilo per terra, e dal mare Oceano etiopico, infino al mare Oceano atalantico, il quale è in occidente; e di verso tramontana dicono quella essere terminata dal mare Mediterraneo, il qual perviene in quello che ad Affrica appartiene infino all’isola di Creti, e quella bagna dalla parte del mezzodí, e in parte dalla parte di ver’ ponente. Europa confinano dalla parte di ver’ levante dallo estremo del mare Egeo, e dallo stretto d’Aveo, e dal mar chiamato Proponto, e dallo stretto di Costantinopoli, e dal mar Maggiore, e dal corso del fiume Tanai; dalla parte di tramontana dall’Oceano settentrionale, il quale, dichinando verso l’occidente, bagna Norvea, l’Inghilterra e le parti occidentali di Spagna, insino lá dove comincia il mare Mediterraneo; appresso di verso mezzodí dicono lei esser terminata dal mare Mediterraneo, il quale è continuo col mare, il quale dicemmo Affricano; e cosí come quello che verso Affrica si distende, chiamano Affricano, cosí questo, Europico, il quale si stende infino all’isola di Creti, dove dicemmo terminarsi il mare Egeo. E cosí l’isola di Creti appare essere in su ’l confine di queste tre parti del mondo. E, dovendo di cosa spettante a ciascuna nazione, come predetto è, fingere alcuna cosa, senza alcun dubbio in alcuna altra parte non si potea meglio attribuire la stanza alla essenza materiale della fizione che in sui confini di tutte e tre le parti del mondo, sopra i quali è posta l’isola di Creti, come dimostrato è.

È il vero che questa dimostrazione riguarda piuttosto al rimuovere quel dubbio, che intorno alla esposizion litterale si potrebbe fare, che ad alcun senso allegorico, che sotto la lettera nascoso sia: e perciò, quantunque assai leggiermente veder si possa, per le cose dette, quello che sotto la corteccia letterale è nascoso, nondimeno, per darne alcuno piú manifesto senso, dico potersi per l’isola di Creti, posta in mezzo il mare, intendersi l’universal corpo di tutta la terra, la quale, come assai si può comprendere per li termini disegnati di sopra alle tre parti del mondo, è posta nel mezzo del mare, in quanto è tutta circundata dal mare Oceano, e cosí verrá ad essere isola come Creti; e dagli abitanti in essa tutto quello è addivenuto, che l’autore intende di dimostrare nella seguente sua fizione. E questo pare assai pienamente confermare il nome dell’isola, il quale esso appella Creta, conciosiacosaché «Creta» nulla altra cosa suoni che la «terra»; e cosí il nome si conforma, come davanti dissi, all’intenzion dell’autore, in quanto in Creti, cioè nella terra, prenda inizio quello che esso appresso dimostra, cioè negli uomini, i quali nulla altra cosa, quanto al corpo, siamo che terra.

Ma, per lasciare qualche cosa a riguardare all’altezza degl’ingegni che appresso verranno, senza piú dir del luogo nel quale l’autore disegna la sua fizione, passeremo a quello che appresso segue, lá dove dice che in una montagna chiamata Ida sta diritta la statua d’un gran veglio. Per la quale, secondo il mio giudicio, l’autore vuol sentire la moltitudine della umana generazione, quella figurando ad un monte, il quale è moltitudine di terra accumulata, o dalla natura delle cose o dall’artificio degli uomini, e chiamasi questo monte Ida, cioè formoso, in quanto, per rispetto dell’altre creature mortali, l’umana generazione è cosa bellissima e formosa; dentro alla quale l’autore dice esser diritto un gran veglio, percioché dentro all’esistenza, lungamente perseverata dell’umana generazione, si sono in vari tempi concreate le cose, le quali l’autor sente per la statua da lui discritta, la quale per ciò dice stare eretta, perché ancora que’ medesimi effetti, che, giá son piú migliaia d’anni, cominciarono, perseverano. E, fatta la dimostrazione del luogo universale, e ancora del particulare, discrive l’effetto formale della sua intenzione, il qual finge in una statua simile quasi ad una, la quale Daniel profeta dimostra essere stata veduta in sogno da Nabucdonosor re. Ma non ha nella sua l’autor quella intenzione, la qual Daniello dimostra essere in quella, la quale dice essere stata veduta da Nabucdonosor; percioché, dove in quella Daniel dimostra a Nabucdonosor significarsi il suo regno e alcune sue successioni, in questa l’autore intende alcuni effetti seguíti in certe varietá di tempi, cominciate dal principio del mondo infino al presente tempo.

Dice adunque primieramente questa statua, la qual discrive, essere d’un uomo grande e vecchio, volendo per questi due adiettivi dimostrare, per l’uno la grandezza del tempo passato dalla creazion del mondo infino ai nostri tempi, la quale è di seimila cinquecento anni, e per l’altro la debolezza e il fine propinquo di questo tempo; percioché gli uomini vecchi il piú hanno perdute le forze, per lo sangue il quale è in loro diminuito e raffreddato; e, oltre a ciò, al processo della lor vita non hanno alcuno altro termine che la morte, la quale è fine di tutte le cose. Appresso dice che tiene vòlte le spalle verso Damiata, la quale sta a Creti per lo levante; volendo per questo mostrare il natural processo e corso delle cose mondane, le quali, come create sono, incontanente volgono le spalle al principio loro, e cominciano ad andare e a riguardare verso il fine loro; e per questo riguarda verso Roma, la quale sta a Creti per occidente. E dice la guata come suo specchio: sogliono le piú delle volte le persone specchiarsi per compiacere a se medesime della forma loro; e cosí costui, cioè questo corso del tempo, guarda in Roma, cioè nelle opere de’ romani, per compiacere a se medesimo di quelle le quali in esso furon fatte, sí come quelle che, tra l’altre cose periture fatte in qualunque parte del mondo, furono di piú eccellenzia e piú commendabili e di maggior fama; e, oltre a ciò, si può dir vi riguardi per dimostrarne che, poiché le gran cose di Roma e il suo potente imperio è andato e va continuo in diminuzione, cosí ogni cosa dagli uomini nel tempo fatta, similmente nel tempo perire e venir meno.

Susseguentemente dice questa statua esser di quattro metalli e di terracotta, primieramente dimostrando questa statua avere la testa di fino oro; volendo che, come la testa è nel corpo umano il principal membro, cosí per essa noi intendiamo il principio del tempo e quale esso fosse. E noi intendiamo per lo Genesi che nella prima creazione del mondo, nella quale il tempo, che ancora non era, fu creato da Dio, fu similmente creato Adamo, per lo quale e per li suoi discendenti doveva essere il tempo usato: e, percioché Adamo nel principio della sua creazione ottimamente alcuno spazio di tempo adoperò, e questo fu tanto, quanto egli stette infra’ termini comandatigli da Dio; vuole l’autore esser la testa, cioè il cominciamento del tempo, d’oro, cioè carissimo e bello e puro, sí come l’oro è piú prezioso che alcuno metallo; e cosí intenderemo, per questa testa d’oro, il primo stato dell’umana generazione, il quale fu puro e innocente, e per conseguente carissimo.

Dice appresso che puro argento sono le braccia e ’l petto di questa statua, volendo per questo disegnare che, quanto l’ariento è piú lucido metallo che l’oro, in quanto egli è bianchissimo (e il bianco è quel colore che piú ha di chiarezza); cosí, dopo la innocenza de’ primi parenti, l’umana generazione essere divenuta piú apparente e piú chiara che prima non era, intanto che, mentre i primi parenti servarono il comandamento di Dio, essi furon soli e senza alcuna successione; ma, dopo il comandamento passato, cacciati del paradiso, e venuti nella terra abitabile, generaron figliuoli e successori assai, per la qual cosa in processo di tempo apparve nella sua moltitudine la chiarezza della generazione umana, la quale, quantunque piú bellezza mostrasse di sé, non fu però cara né da pregiare quanto lo stato primo, figurato per l’oro. E per questo la figura di metallo molto men prezioso che l’oro.

Oltre a ciò, dice questa statua esser di rame infino alla ’nforcatura, volendone per questo dimostrare, in processo di tempo, dopo la chiarezza della moltitudine ampliata sopra la terra, essere avvenuto che gli uomini, dalla ammirazion de’ corpi superiori, e ancora dagli ordinati effetti della natura nelle cose inferiori, cominciarono a speculare, e dalla speculazione a formare le scienze, l’arti liberali e ancora le meccaniche, per le quali, sí come il rame è piú sonoro metallo che alcuno de’ predetti, divennero gli uomini fra se medesimi piú famosi e di maggior rinomèa che quegli davanti stati non erano. Ma, percioché, come per lo cognoscimento delle cose naturali e dell’altre gli uomini divennero piú acuti e piú ammaestrati e piú famosi, cosí ancora piú malvagi, adoperando le discipline acquistate piú tosto in cose viziose che in laudevoli; è questa qualitá di tempo discritta esser di rame, il quale è metallo molto piú vile che alcun de’ sopradetti.

Altersbeschränkung:
12+
Veröffentlichungsdatum auf Litres:
01 August 2017
Umfang:
360 S. 1 Illustration
Rechteinhaber:
Public Domain

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