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Buch lesen: «Mezzo secolo di patriotismo», Seite 13

Bonfadini Romualdo
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Forse che se Cattaneo avesse avuto, in un quarto d'ora di debolezza, l'inspirazione di sostituire un sì ad un no, forse che il popolo l'avrebbe seguito? lo ha seguito forse due giorni prima, quand'egli voleva, con un altro no, che si sostituissero agitazioni pacifiche a insurrezione popolare? Che sugo c'è, quando si hanno parecchi cittadini a cui far risalire l'onore di una decisione virile, nel volerla attribuire a beneficio di uno solo?

È tutta perdita per una nazione l'essere in pochi, peggio poi l'essere uno solo a veder giusto. E a noi fa meraviglia come la democrazia, smentendo di sè stessa la parola e l'idea, si affanni talvolta a sfrondare essa di questa gloria la cittadinanza milanese, consultata ne' suoi combattenti, per farne il patrimonio esclusivo di un uomo che, quand'anche ne avesse avuto la volontà, non aveva in quell'ora il potere di agitare, come Argante, fra le pieghe del suo mantello o la pace o la guerra.

Quanto meglio avremmo provveduto alle ragioni del vero ed alla dignità della nostra rivoluzione, se, abdicando almeno per cinque giorni sopra un secolo alle passioni di parte, avessimo francamente riconosciuto la lealtà e il patriottismo di tutti.

Giacchè è un'altra esagerazione, – è un'altra ingiustizia, dopo avere fatto merito ad uno solo dell'opinione trionfante, l'avere addossata a troppi l'opinione sconfitta. Quelle tre o quattro persone che l'avevano patrocinata erano uomini rispettabili, di sicuro amor patrio, e i cui argomenti, se anche non riconosciuti opportuni, s'inspiravano però a quello stesso programma d'indipendenza a cui si appoggiava l'opinione contraria. Negandolo, non si fa della storia, si scrivono dei libelli.

E il Cattaneo, che nella sua violenta pubblicazione non rifinisce di chiamare i suoi avversarj del Governo Provvisorio i servili o i ligi o i municipali o i ciambellani malcontenti o i faccendieri regi, dimentica troppo che questi stessi uomini, poco tempo dopo, respingevano, contro il desiderio di Carlo Alberto, la pace al Mincio offerta loro dall'Austria; e ciò per un'altra preoccupazione d'italianità, che oggi si può discutere, che si può forse biasimare, ma che ad ogni modo moveva da intenti assai diversi e affatto contrarj a quelli che il Cattaneo costantemente loro suppone79.

Guai se l'orgoglio del successo ci fa dimenticare il quarto d'ora dell'incertezza! guai se portiamo nel giudizio postumo sugli eventi politici quella stessa intransigenza che talvolta è necessaria per compierli!

Gli uomini che avrebbero accettato l'armistizio come un modo più sicuro di vincere, non hanno poi esitato ad assumere intera, coi loro atti e coi loro nomi, la responsabilità e le conseguenze dell'opinione contraria, accettata dalla gran maggioranza. È tutto quello che si può domandare, in una discussione patriottica, ad uomini di cuore. Nè la storia giudica minore, nella spedizione di Marsala, la gloria di Sirtori, benchè, nel consiglio che la precedette, avesse espresso opinione contraria all'impresa.

Ci siamo alquanto dilungati intorno a questa pagina della rivoluzione milanese, perchè ci pare veramente una di quelle, intorno a cui le passioni o i pregiudizj di parte hanno piuttosto addensato il bujo che cercato il vero.

Ora, noi pensiamo che uno storico – per minuscolo che sia il suo nome o il valor suo – da nessuna passione deve lasciarsi investire, da nessun pregiudizio dominare. Anzi, dove scorge o gli pare di scorgere un pregiudizio od una passione, ivi è dover suo accumulare chiarezza di esposizione e lealtà di argomenti perchè solo rifulga il vero, che mette al loro posto uomini e partiti.

Viviamo in un tempo in cui l'indagine universale chiama alla propria sbarra gli scrittori del tempo antico, per controllare le loro asserzioni al lume di una critica inesorabile. Si sono pubblicati dei volumi per dimostrare inesatto un passo di Erodoto o appassionata un'affermazione di Tito Livio. Ci parrebbe dunque di andar contro allo spirito dell'epoca nostra, lasciando, per quanto sta in noi, che di cose accadute meno di quarant'anni fa, mentre son vive ancora le persone a cui quegli eventi s'annodano, si radichi senza contrasto un concetto sintetico pieno d'ingiustizia e di esagerazione. Le verità che urtiamo del gomito non debbono esserci meno sacre di quelle da cui ci dividono duemila anni.

E tanto più dobbiamo cercare e constatare lealmente questa verità contemporanea, perchè il travisarla o l'abbujarla parrebbe non avere ormai altro scopo che di gettare un'ombra sulla riputazione di tre o quattro cittadini, a cui tutti abbiamo riconosciuto onestà di vita e azione patriottica; mentre un morboso furore di riabilitazioni umanitarie ci spinge a disseppellire Tiberio, Lucrezia Borgia e Filippo II per rifar loro possibilmente fisonomie più dolci e virtuose.

Di errori nel 1848 se ne fecero più troppi che pochi; e la storia imparziale li additerà. Forse nessuno, al suo cospetto, andrà immune da rimproveri per quello che ha fatto o detto. È bene dunque cercare fin d'ora che le fonti, a cui attingeranno gli storici futuri, siano serene, e che a ciascuno si attribuisca non più e non meno di quello che ha detto o fatto.

Le cinque giornate toccarono alla più alta espressione dei loro entusiasmi la mattina del 23 marzo, quando, dopo il terribile cannoneggiamento dell'intera notte, corse per la città il grido frenetico che gli Austriaci erano partiti. Fu un'emozione immensa, insuperabile, il cui ricordo oggi ancora fa dare un tuffo al sangue; fu la frenesia della gioja, che per ventiquattr'ore fece di Milano una sola famiglia, – che faceva prodigare a sconosciuti le dimostrazioni d'affetto ordinariamente serbate all'intimità.

Il maresciallo Radetzki, decidendo di ritirarsi la sera del 22, ci lanciava però un nuovo tizzone che avrebbe più tardi ridestata un'altra delle nostre ardenti discussioni politiche.

Fu l'insurrezione cittadina o la sicurezza dell'intervento piemontese che consigliò la ritirata del maresciallo? ecco il tema, che parve di grande interesse il discutere alla massima parte di quelli che non avevano combattuto. Eppure nessuna questione è più oziosa, nessuna è più chiara. Gli eventi politici non hanno quasi mai una sola cagione. E quanto sarebbe odioso il negare che l'insurrezione milanese sia stata una vera e propria vittoria, altrettanto sarebbe puerile l'affermare che, senza la marcia offensiva dell'esercito piemontese, Radetzki avrebbe dovuto ritirarsi a Verona. Forse nessuno dei superstiti delle cinque giornate oserebbe oggi sostenere siffatta tesi.

Nè questa è necessaria alla gloriosa riputazione di quella battaglia cittadina. La quale, ripetutasi pochi mesi dopo, e certo con eroismo non minore, fra le patriottiche mura di Brescia, è finita con una tremenda catastrofe, appunto perchè nessun ajuto d'esercito ha potuto secondare in campo aperto la difesa delle contrade.

Non torturiamo i fatti per trarne più di quello che possono dare. Bisogna essere orgogliosi delle Cinque Giornate, perchè rappresentano una somma di attività morali e di virtù militari, che il patriottismo solo ha saputo far sorgere e disciplinare a splendidi risultati.

Non bisogna però avvezzare l'animo nostro a credere riassunta la virilità di una nazione in questi scatti d'audacia; disinganni durevoli seguirebbero da vicino la passeggiera vanità.

Dopo l'epopea delle cinque giornate, è venuta pur troppo un'elegia: elegia lunga e dolorosa, di cui furono in gran parte responsabili quelli stessi che erano stati fattori dell'epopea.

Vuol dire che nella vita dei popoli, come in quella degli individui, il dolore tien dietro presto alla gioja e rompe i facili orgogli.

Quei cinque giorni di virtù, di concordia, di devozione a grandi ideali partorirono quattro mesi di fiacchezze, di rancori, di lotte intestine e ingenerose. Sembrammo indegni di una libertà che s'era conquistata con tanto vigore. E la libertà ci abbandonò, infatti, presto. Ma, fuggendo da noi, sostò al di là del Ticino, in mezzo ad una popolazione forte, solidale con principato gagliardo.

E mentre essa rifaceva istituzioni, armi e politica, da noi si rifacevano gli animi. Ci persuadevamo che a popoli moderni l'eroismo non basta. Imparavamo a nostre spese che alle virtù necessarie per crearsi una patria bisogna saper aggiungere, sotto pena di morte, le virtù necessarie per conservarla.

IL DECENNIO DI RESISTENZA
(DAL 1849 AL 1859)

Nulla è più triste del 1849. Fu un'epoca di squallore del pensiero politico in tutta Italia, un'epoca di naufragio dei sentimenti ragionevoli e generosi.

Mentre la reazione od aveva vinto o si preparava a stravincere, il liberalismo si nascondeva sfiduciato, e la rivoluzione sperdeva in audacie, talvolta generose, ma sempre isolate e insufficienti, le forze materiali e morali che il pensiero nazionale aveva faticosamente raccolte.

Nessun governo indipendente in Italia, tranne quel piccolo Piemonte, strozzato dalle indennità di guerra e dall'occupazione militare austriaca. Radetzki padrone di Alessandria, D'Aspre di Firenze, Oudinot di Roma, Hoyos di Bologna, Haynau di Brescia; a Milano si bastonavano le donne, a Napoli s'accoppiavano Poerio e Spaventa cogli assassini; Garibaldi si trafugava per tutte le sinuosità dell'Appennino, traccheggiato da quattro eserciti e da cinque polizie; Venezia moriva di bombardamento e di colera; l'Ungheria, svenata, cadeva bocconi ai piedi dello Czar; e le nostre popolazioni, tradite nelle loro speranze, vacillanti nella loro fede, erano malmenate da giornali e da giornalisti senza pudore, che dopo averle abbeverate, nei giorni lieti, d'odio e di menzogna, s'erano rifugiati, nei giorni tristi, fra le schiere degli oppressori, mescolando il loro scettico ghigno al romore delle fucilazioni dei patrioti, da loro aizzati e abbandonati80.

Alle catastrofi militari s'aggiungeva la catastrofe intellettuale e morale. Nulla di organico aveva potuto resistere ai colpi della sfortuna. Le autorità personali erano sfatate; i metodi di governo screditati; l'energia rivoluzionaria si svaporava in proclami, in coccarde, in feste, in saturnali di palazzo e di piazza; si diffidava degli onesti; si credeva ai birbi, che degli onesti sorgevano accusatori. Gli elettori politici, traviati dall'orgia delle idee false, preferivano un Pansoya al conte di Cavour. I patrioti erano diventati traditori, i traditori diventavano a loro volta patrioti. Era insomma un'aberrazione di menti da ricordare le follíe degli untori, – un palleggiarsi di accuse e di recriminazioni, che lasciava nelle maggioranze un infinito disgusto di cose pubbliche. I partiti politici erano saliti… o discesi alla più acuta espressione dell'intolleranza. Monarchici e repubblicani, radicali e moderati, unitarj e federali parevano odiarsi fra loro ancora più che non si odiassero gli stranieri da ciascuno di loro. A Roma non si accordavano Mazzini e Garibaldi; a Firenze, Montanelli e Guerrazzi si tenevano il broncio; in Piemonte spesseggiavano le crisi ministeriali; Genova insorgeva contro Torino, Napoli inveiva contro Messina. Lo stesso esercito piemontese, – l'unica speranza dell'avvenire – era lacerato dalle fazioni; e una parte dei soldati non volevano battersi, perchè turbati da seduzioni clericali, e il generale Ramorino non si batteva perchè corrotto da seduzioni repubblicane.

È facile immaginare che effetti dovesse cagionare lo spettacolo di quest'anarchia italiana sulla popolazione milanese, ripiombata, dopo quattro mesi di romorosa illusione, sotto un regime reso senza paragone più duro dall'ebbrezza della vittoria e dal ricordo delle vicendevoli offese.

Forse anzi fu questa stessa durezza che la salvò. Fu la terribile realtà delle conseguenze che produce nella vita dei popoli la rettorica sostituita all'esperienza, la petulanza sostituita all'ingegno, che abbreviò meravigliosamente per Milano, e in genere per tutte le provincie ricadute sotto la dominazione straniera, il periodo della convalescenza. Milano si trovò come un ebbro sotto la doccia. Quel bagno gelato dissipò in un minuto i fantastici orgogli e le allucinazioni delle fibre eccitate. La città si trovò nuovamente di fronte alle altere uniformi bianche, allo strascico delle sciabole sui selciati, agli aspri suoni del linguaggio straniero, alle brutali intimazioni di pattuglie e di sentinelle, alla pettoruta insolenza di una bieca e irresponsabile polizia. Comprese che tutto ciò voleva dire la fine di un'egloga e il principio di un dramma. Si guardò intorno e si vide sola. Nessun ajuto possibile dall'interno, nessuna speranza, neanche lontana, da fuori.

Allora Milano rientrò in sè stessa; vide di essere la sentinella avanzata di un esercito impotente a riprendere l'offensiva; sentì la nobiltà della sua missione, la fiera ma gloriosa inesorabilità del suo dovere. Deliberò di restare al suo posto, finchè dietro ad essa l'esercito avesse potuto ricomporsi. Raccolse le sue forze; non contò i nemici, ma li guardò in faccia senza paura; e cominciò quella lotta giornaliera, multiforme, implacabile contro ogni elemento, contro ogni esigenza di dominio straniero; una lotta che il conquistatore leggeva in ogni sguardo e sospettava in ogni parola; una lotta che avvolgeva in una salda solidarietà d'affetti e d'intenti tutti i partiti, tutte le classi, tutti i gruppi della cittadinanza; – quella lotta che, dal 1849 al 1859, fu una pagina illustre della virtù nazionale.

Questa lotta fu combattuta da tutti, in tutti i modi, secondo le forme ed i metodi che a ciascuno, in ciascuna occasione, parvero preferibili. Noi non pretendiamo raccontarla, cercheremo riassumerla nelle sue linee principalissime. Chi la racconterà – assai più tardi – potrà essere giusto con tutte le persone; noi non potremo ora che essere giusti rispetto alle cose. Delle persone diremo con sobrietà quello soltanto di cui siamo sicuri. E non di tutte; giacchè, naturalmente, nè tutte conoscemmo, nè di molte sarebbe ancor bene dir tutto. A quelli che, pur essendo stati in prima linea, fossero o si credessero dimenticati, mandiamo fin d'ora schiettissime le nostre scuse. Si vendichino, dicendo che questo nostro non è neanche un riassunto, è semplicemente una sfumatura del poema. Noi non li smentiremo. Saremo paghi se gli uomini imparziali riconosceranno la nostra imparzialità, e se diranno che, avendo pure scritto il vero, abbiamo scritto soltanto il vero a noi noto.

Caduta, con Venezia, l'ultima fioca speranza di ripresa politica, l'opinione pubblica milanese subì un periodo sussultorio, quello che segue davvicino inevitabilmente le grandi catastrofi. L'onda commossa continua a spumeggiare sul lido lungo tempo dopo che la tempesta in alto mare è cessata. Però il periodo fu breve; e il partito nazionale si adagiò virilmente nella considerazione dell'avvenire, frazionandosi, secondo l'indole delle cose e la fisonomia morale degli individui, in tre compagini principali, che si proposero di camminare, con proprj metodi, verso l'intento comune dell'indipendenza.

Queste compagini ebbero subito e necessariamente capi locali, mezzi locali, direzioni indipendenti e locali. Le autorità intellettuali che avevano creato il movimento, le influenze statevi fino allora prevalenti erano tutte sparite. Gli uomini di maggiore notorietà del precedente periodo avevano dovuto subire le conseguenze della sconfitta. Il Cattaneo s'era ritratto a Lugano, inutilmente e ingiustamente sdegnoso; il Correnti cercava di rifar programmi a Torino, accarezzato pel fervido ingegno e per l'inquieto ideale; Casati, Borromeo, Arese, Mauri, Burini, Torelli, Guerrieri-Gonzaga, Giorgio Pallavicino, emigrati volontarj o forzati, reclutavano aderenze e simpatie fra i nuclei politici a cui appartenevano, o a Genova o a Torino o a Parigi. Luciano Manara era morto eroicamente coll'armi in pugno; Cernuschi e Maestri, appartati dal movimento paesano o imbronciati con esso, avevano trovato a Parigi, con diversa fortuna, nuove occupazioni e nuove clientele.

Ned era facile allora – come fu possibile poi – avviare cogli emigrati intelligenze dirette e costanti. Oltrechè, le necessità milanesi esigevano evoluzioni così rapide e così varie, che ogni direzione da fuori sarebbe stata inevitabilmente o tarda o inefficace o disastrosa. Bisognò dunque, sino dai primi giorni, rifare i quadri; e trarre da nuovi elementi, presenti sempre ed attivi, le virtù nuove rese necessarie dalla mutata natura delle difficoltà e dei pericoli.

Per chiarezza e semplicità di programma, se non per numero – allora – di aderenti, primeggiava quel nucleo di giovani patrizj che avevano risolutamente accettata, fin dal primo stadio della rivoluzione, l'iniziativa liberale e la direzione politica della monarchia piemontese. Si dicevano e si lasciavano chiamare albertisti, perchè in Carlo Alberto avevano confidato, come confidavano nel giovane ed energico suo successore. Conservatori per educazione e per interessi sociali, non erano men risoluti di ogni altro a volere, con inflessibile tenacia, l'indipendenza; ma credevano che per raggiungerla non fosse di troppo avere per sè le forze – momentaneamente impacciate – d'un vecchio Stato, d'un esercito regolare, d'una illustre e leale famiglia di principi italiani e costituzionali. L'esperienza delle discordie politiche e delle impotenze amministrative durate nei quattro mesi li avevano disgustati d'ogni soluzione provvisoria. Nè i capi, nè i programmi repubblicani, sorti durante lo stesso periodo, erano lor parsi tali da dover inspirare invincibili simpatie. Sicchè il Piemonte restava l'unico faro che illuminasse di qualche luce il tetro avvenire; ed essi, pur accettando dai loro amici di programma diverso ogni necessità di cospirazione o di lotta contro i governanti stranieri, mettevano la loro fede negli organismi della monarchia liberale; coordinavano la loro azione, il loro impulso, la loro propaganda morale alle situazioni che vedevano create o accettate da quelli fra i loro amici rimasti a Torino, per appoggiare delle loro influenze e rappresentare col loro nome la continuazione di una politica d'indipendenza.

Autorevole in questo nucleo per solidità di studj e di convinzioni era Alessandro Porro, ingegno calmo e colto, avvezzo a meditare prima di risolvere, a non pentirsi dopo avere risolto. Più spigliato d'indole e più mescolato agli aneddoti sociali ed a vivacità battagliere, Carlo D'Adda ajutava questo programma di tutte le intimità che il suo carattere e la sua schiettezza gli avevano ottenuto presso la Corte in Torino, dove Carlo Alberto gli era stato largo di così patriottici e confidenti colloquj. Uomini gravi e giovani intelligenti fra i Taverna, fra i Prinetti, fra i Greppi, fra i Trotti, fra i Litta-Modignani caldeggiavano simili aspirazioni, alle quali non mancava l'adesione, piena di modesto riserbo, dell'uomo più illustre che contasse in Italia il partito unitario, Alessandro Manzoni.

Due giovani però spiccavano sopra gli altri, in questo nucleo politico, pei loro precedenti e per la vasta azione, – il conte Cesare Giulini e il conte Emilio Dandolo.

Quest'ultimo, giovanissimo ancora e già ricco di fama, apportava al gruppo albertista tutto il profumo della squisitissima indole sua, tutto il prestigio della leggenda, che cominciava già a formarsi intorno alle vittime e ai difensori di Roma. Fratello, più che amico, di Manara e di Morosini, morti entrambi, si può dire, nelle sue braccia, Emilio Dandolo aveva potuto fare, a vent'anni, un'esperienza degli uomini che pochi sanno acquistare a quaranta, un'esperienza del dolore, che non lasciava più in lui nulla di frivolo o di spensierato. Era stato sulla breccia, coll'armi in pugno, finchè in Italia era rimasto un palmo di terra da difendere contro stranieri. Cessata la lotta, ridiventava uomo di pensiero ed aveva scritto un opuscolo: “I volontarj ed i bersaglieri lombardi„ nel quale affrontava con molto coraggio civile alcuni fra i pregiudizj che avevano allora più corso fra l'inesperta gioventù liberale. Il volontario, fido soldato di Garibaldi e di Medici, non temeva di affermare che solamente da eserciti regolari doveva l'Italia attendere la sua liberazione; il valoroso difensore della Repubblica romana sosteneva vigorosamente il programma dell'Italia monarchica, sotto la guida della dinastia di Savoja. Più tardi, un'altra idea savia e feconda avrebbe sostenuto, in apparente contrasto coll'azione sua giovanile, – l'alleanza con quella Francia, i cui soldati avevano rotta, colle loro palle, la vita dei più cari amici che avesse al mondo, suo fratello Enrico, il Morosini, il Manara.

Ma non era da lui che potesse uscire il grido di un egoismo, o di una passione, pure larvata da patriottiche ipocrisie. Entusiasta, come lo s'è a vent'anni, sapeva però discernere un affetto individuale dal grande interesse della patria. Sapeva che nelle grosse questioni di politica internazionale, non sempre possono i governi – regni o repubbliche – lasciarsi guidare dai soli impulsi simpatici. Vedeva chiaro che gl'interessi della Francia avrebbero, tosto o tardi, combaciato coi nostri, e faceva volontieri il sacrificio delle sue rimembranze ai nuovi bisogni e alle nuove amicizie del suo paese.

Stringersi oggi a chi si ha combattuto jeri, o viceversa, è la legge storica di tutte le relazioni internazionali, l'andamento normale di quasi tutte le emancipazioni politiche. Guai se, adottando una politica di fanciulli o di furibondi, c'immaginassimo che i nemici trovati un giorno sopra un campo di battaglia vi fossero perchè ci odiavano! Tramuteremmo l'Europa in altrettanti campi trincerati quanti sono i popoli che, in una od altra epoca, si sono affrontati, e prostituiremmo le alte necessità della patria dinanzi alle volgari manifestazioni del rancore o della vendetta.

Uno Stato forte e intelligente prova anzi una certa voluttà virile nell'avvicinarsi ad una potenza contro cui s'è lottato sul campo o nella diplomazia. Le amicizie militari meglio sorrette dalla reciproca stima nascono ordinariamente, dopo la pace, fra gli ufficiali che si sono vigorosamente battuti durante la guerra. E se da un governo o da un principe che ci ha offesi, viene l'istante in cui la patria trae servigio o vantaggio, la grandezza d'animo consiste nel ricordarsi di questo, non nel piatire, come un compratore fedifrago, per scemare il prezzo d'una merce che s'è chiesta e accettata.

Così comprendeva il patriotismo Emilio Dandolo; e così, crediamo, lo avrebbe compreso in ogni futura epoca della sua vita, se non avesse dovuto soccombere, pochi anni dopo, al fiero morbo che già in quell'epoca si leggeva devastatore sull'emaciato e pallido viso.

Per ora, il nobile giovane, in cui l'Italia ha certamente perduto un uomo politico di prima riga, si accontentava d'essere un elemento di coesione e di forza in mezzo a tante cause di sfiducia e di dissoluzione. Simpatico di persona e di nome, gentile di modi, vigoroso di animo, gettato così presto nel vortice delle grandi emozioni, il Dandolo sentiva che il fragile tessuto della sua vita si logorava rapidamente. Questa sicurezza dava ordinariamente al suo viso una tinta di melanconia, ma nel tempo stesso – com'è natura del morbo – gli rendeva più dolce l'indole e più fine l'ingegno. Di tutti gli amici suoi, – di tutte le amiche – era l'idolo, e lo meritava. Nessuna cosa, può dirsi, facevasi intorno a lui, senza il consiglio suo. Ed egli della sua influenza non usava che per cose alte e fiere. Era di quegli uomini destinati a servire, persin morendo, la patria che amano.

Lo precedeva d'una decina d'anni il conte Cesare Giulini Della Porta, che alle stesse doti di animo e di cuore univa una vasta cultura appena dissimulata sotto la semplicità del discorso, una portentosa memoria, punto vulnerata dalle eccentriche distrazioni in lui proverbiali. Gentiluomo d'antico stampo e di largo censo, usava d'ogni forza sua, economica, intellettuale o sociale, per intenti di patria e di progresso. Nessuna iniziativa di studj81, di beneficenza, di vigore politico, trovava chiusa la sua borsa o freddo il suo cuore. Le numerose relazioni personali ch'egli manteneva e accresceva con una instancabile corrispondenza, l'autorità che gli veniva dall'essere stato nel Governo Provvisorio di Lombardia, la considerazione di cui godeva in tutta l'aristocrazia lombarda e il molto bene che gli volevano le classi popolari da lui beneficate82, lo rendevano anche rimpetto al Governo austriaco un uomo importante; ed egli ne approfittò per osare quello che altri forse non avrebbe potuto, ma che, scoperto, avrebbe tolto a lui come ad altri la libertà e probabilmente la vita.

In tutto il periodo che precedette i movimenti militari del 1859, fu il conte Giulini il centro e l'anima di quel vasto movimento di volontarj che s'avviavano ogni giorno al di là del Ticino, per accrescere combattenti all'esercito piemontese e sottrarne alle coscrizioni nemiche. Giovato dalle molte sue conoscenze e dall'affetto che avevano per lui gli affittuarj e i coloni delle sue varie tenute, il Giulini aggiungeva a questo lavoro quello di raccogliere tutti i dati relativi ai concentramenti ed alle dislocazioni delle truppe austriache; dati quasi sempre esattissimi e che, trasmessi giornalmente al quartier generale dell'esercito franco-sardo, gli furono parecchie volte d'inapprezzabile aiuto. Sprofondato in questa doppia bisogna egualmente pericolosa, ma il cui vantaggio pratico per la causa nazionale era egualmente chiaro, Cesare Giulini stette fino agli ultimi giorni in Milano, malgrado che la polizia militare avesse occhi attenti sopra di lui. Lo si vedeva nei soliti ritrovi serali, lo si incontrava per le solite vie coll'abito negletto, il passo obliquo e il sorriso distratto; ma la mente era pensosa, il cuore saldo, e tutte le sue nobili facoltà si concentravano operose in quello che per allora gli pareva il dover suo e il modo più immediato di giovare alla patria83.

Il programma albertista non era però nei primi anni diviso da un altro nucleo di giovani intelligenti e coltissimi, che al Giulini, al Dandolo, al D'Adda erano congiunti dai più stretti vincoli di stima e di amicizia personale.

Erano gli antichi avventori del caffè della Peppina, a cui s'era aggiunta la schiera, anche più giovane, degli scrittori e dei pubblicisti maturati alla breve esperienza liberale dei quattro mesi. Caduta Milano, avevano girovagato qua e là per l'Italia, scrivendo, cospirando, stringendo relazioni letterarie e politiche, a Firenze, a Roma, a Torino. Rientrando, dopo le catastrofi italiane, sotto il domestico focolare, sentirono il bisogno di raccostarsi, di riprendere il filo delle antiche intimità, di coordinare, se era possibile, la loro singola azione allo svolgimento di un programma comune.

Quest'ultima ipotesi sembrava e si dimostrò infatti difficile. Le impressioni individuali non erano identiche e condussero presto alla formazione di due correnti patriottiche, concordi nello scopo, divise nel metodo.

Una prima schiera accettò presto l'indirizzo che proponeva, con pensato vigore, un uomo rimasto fino allora piuttosto soldato che capitano, Carlo Tenca.

Ingegno più solido che vasto, più preciso che immaginoso, di convinzioni austere, di alta coscienza e d'irremovibile tenacità, il Tenca univa a tutte le fiere qualità della sua origine popolana l'amore a tutte quelle eleganze d'intelletto, di studj e di istinti, che sogliono ordinariamente essere la base educativa delle classi superiori. Preparato alla politica, come tutta la gioventù d'allora, dai libri del Foscolo e del Mazzini, durante i quattro mesi della nostra effimera liberazione aveva scritto per qualche tempo nel giornale ufficiale del Governo Provvisorio, da cui s'era allontanato in seguito per desiderio di azione politica più indipendente. Non era stato partigiano dell'atto di fusione colla monarchia piemontese, e si mostrò severo censore di parecchie delle disposizioni che, a quello scopo, s'erano prese o si travedevano.

Quando giunse l'epoca dei rovesci, e si trattò di sostituire al Governo Provvisorio un Comitato di Difesa, che assumesse una specie di potere dittatorio, il Tenca si oppose apertamente alla prima combinazione, che si basava sui nomi del colonnello Varesi, del conte Francesco Arese e di Cesare Correnti. Gli pareva una combinazione d carattere troppo fusionista, e fu principalmente per le insistenze sue che si procedette ad un'altra combinazione, in cui entrarono il generale Fanti, il dottor Maestri e l'avvocato Restelli, rimanendo il Correnti segretario del Comitato. Dopo l'infausta giornata del 5 agosto84, il Tenca, con altri amici suoi milanesi, s'era condotto a Firenze, dove, seguendo sempre il concetto della rivincita popolare, collaborò a giornali e ne fondò, aiutando talvolta, contrastando più spesso l'indirizzo governativo, che gli pareva or fiacco or violento, di quei governanti, in ispecie del Guerrazzi e del Montanelli.

Nel complesso, lo spettacolo di quei saturnali politici aveva fatto grande impressione sul retto ed austero animo suo. Tornava a Milano, dubitoso della efficacia d'ogni programma di azione immediata, sconfortato delle prove fatte, dolorosamente persuaso che, se poco felice era stata l'iniziativa del principato liberale, anche peggiore era stata quella delle torbide democrazie. Sicchè patrocinava un programma di ricostruzione intellettuale e morale, da lui posto come base unica e logica d'ogni futura azione. Disposto a spingere, come gli altri e più degli altri85, il contegno di intransigenza contro ogni elemento e contro ogni istituzione d'indole straniera, non credeva però ad efficacia di congiure e non intendeva mescolarvisi. Voleva che si lasciasse per allora deporre alla rivoluzione il suo limo, e che si preparasse, con civile rinnovamento di studj filosofici, giuridici, politici, economici, la generazione atta a governare più tardi con maggiore competenza e maggiore esperienza l'ulteriore movimento che i tempi avrebbero consigliato.

All'opinione sua aderirono presto parecchi fra quelli che a somiglianti discussioni prendevano parte; e si deliberò la fondazione di un giornale che a siffatte idee desse tono e avviamento. Così nacque il Crepuscolo, che fu per nove anni l'efficace stromento di una vera educazione pubblica, e di cui scrisse recentemente la storia uno dei più autorevoli fra i suoi fondatori e scrittori86.

79
  Per l'importanza della trattativa e per la poca pubblicità che hanno finora ottenuto, ci par bene pubblicare quì i due documenti che riassumono la trattativa stessa, e che neanche il Cantù ne' suoi quattro volumi della Cronistoria, così ricchi di scritture del tempo, non ha voluto o potuto inserire:
Innspruch, 13 juin 1848.  Monsieur le Comte,
  S. M. Imperiale et Royale, guidée par des sentiments d'humanité et de paix, désire vivement voir mis bientôt un terme à la guerre qui désole ses provinces italiennes.
  À cet effet je suis autorisé à ouvrir avec le Gouvernement Provisoire établi à Milan une négociation qui serait basée sur la séparation et l'indépendance de la Lombardie… (seguono le condizioni circa il debito pubblico, il commercio, gli impiegati, ecc. ecc.)…
  Vous voyez, M. le Comte, que j'aborde dès le commencement la question avec toute la franchise possible. Je vous informe en même temps que S. M. I. vient de donner des ordres pour la conclusion d'un armistice a laquelle le Gouvernement Provisoire aimera sans doute à concourir.
  Il ne resterà qu'à nommer de part et d'autre des Plénipotentiaires pour conduire la négociation en question au but désiré.
  Recevez, ecc. ecc.
Le ministre des affaires étrangèresBaron de Wessenberg.  Au comte Casati Président du Gouv. Prov.
Milano, 18 giugno 1848.  Al sig. Antonio Beretta,
  Si affretta il Governo di porvi a parte della conferenza tenuta jeri dal Presidente e da alcuni altri suoi membri col sig. consigliere De Schnitzer, mandato dal ministro degli Affari Esteri austriaco, per trattare della pacificazione.
  Dal dispaccio del barone di Wessenberg, di cui si acchiude copia confidenziale e riservata, vedrete quali fossero le basi della negoziazione, e comprenderete subito come siansi dovute rigettare a bella prima, dichiarandosi impossibile fare di una causa italiana una causa lombarda. Speriamo che il Re, al quale vorrete comunicar la cosa, rigetterà pure qualunque proposizione d'armistizio che si accenna essersi egualmente incamminata.
Casati, Guerrieri, Borromeo.

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80.Basta citare, per tutti, due nomi famigerati, Pietro Perego ed Angelo Mazzoldi.
81.Spendeva una parte notevole delle sue rendite nell'acquisto di libri italiani e stranieri, i migliori che in ogni ramo di studj si pubblicassero. E la sua vasta biblioteca, specialmente moderna, era a disposizione di tutti quelli – non solamente amici suoi – che ne avessero vaghezza o bisogno. Spesso accadeva ch'egli comperasse a gran prezzo opere voluminose, unicamente per aver sentito o saputo che qualcuno degli studiosi del tempo avesse espresso il desiderio di consultarle. L'abbiamo udito più d'una volta lagnarsi perchè i suoi amici, di ristretta fortuna, spendessero qualche somma in acquisto di libri che egli sarebbe stato felicissimo di mettere a loro disposizione.
82.Un comune amico, ancor vivo, e allora banchiere, dei più stimati, lo vide un giorno entrare nel suo studio per chiedergli un prestito di duemila lire. Avendogli l'amico espresso la sua meraviglia perchè di così piccola somma il conte Giulini facesse un'operazione di credito, lo udì rispondere quasi imbarazzato che questa somma doveva servire a scopi di beneficenza, e che non osava più farsela dare dall'intendente di casa, perchè gli aveva mosso osservazioni intorno alla frequenza di questi capitoli di spesa.
83.Non s'illudeva sulla fine che gli sarebbe probabilmente toccata, se fosse stata scoperta l'opera sua. E ricordiamo d'averlo udito dire un giorno, in un piccolo crocchio d'amici, collaboratori o devotissimi, col suo schietto vernacolo e il tranquillo sorriso: “se no me impicchen sta volta, me impicchen pù.„
84.In cui ebbe luogo la capitolazione, e Milano fu turbata dalle terribili commozioni popolari che precedettero il reingresso dell'esercito austriaco.
85.Ne diede prova, lasciandosi sopprimere la parte politica del suo giornale e peggiorandone così le sorti finanziarie, piuttosto che aderire a scrivervi il menomo cenno – neanche l'annuncio – della venuta dell'imperatore d'Austria a Milano nel 1857.
86.Tullo Massarani. – Carlo Tenca e il pensiero civile del suo tempo. Milano, Hoepli, 1886.