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Buch lesen: «Mezzo secolo di patriotismo», Seite 10

Bonfadini Romualdo
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Alla Congregazione Centrale, larva rappresentativa di città e di provincie, che aveva posto e grado e uniforme di magistratura governativa, un bergamasco, il consigliere Giovan Battista Nazzari presentò formale istanza perchè “scegliesse una Commissione, composta d'altrettanti deputati quante sono le lombarde provincie, incaricata di redigere un rapporto sulla condizione del paese e sulle cause del malcontento del popolo.„ Come si vede, la proposta era discreta. Una Commissione! quante non se ne nominano al dì d'oggi? Pure, la situazione era così piena di brage, che l'atto parve audacissimo e destò un altro entusiasmo. La Congregazione Centrale accolse subito la proposta; le Congregazioni speciali delle varie provincie vi fecero adesione; il Governatore tentò invano di snaturare la proposta; Nazzari tenne fermo, e al suo domicilio furono portati quattro mila biglietti di visita. Il maresciallo Radetzki dichiarò che quei quattro mila biglietti esigevano quaranta mila soldati.

La mozione, discussa e votata dalla Congregazione Centrale, conchiudeva a quella domanda di Costituzione speciale pel Lombardo-Veneto che il generale Bellegarde aveva promesso fin dal 1814 e che era stata così slealmente dimenticata.

Ma il principe di Metternich aveva, sulla questione lombarda, altre idee. Scriveva al conte di Ficquelmont57: “Voulez-vous un jugement de ma part que vous n'avez peut-être point encore entendu prononcer, et qui, à mon avis, renferme la vérité sur l'une des grandes fautes commises par notre Gouvernement dans ses relations avec ses administrés italiens? vous le trouverez dans ce peu de mots: “Nous les avons ennuyés.„ Le peuple qui veut le panem et circenses ne veut pas être ennuyé. Il veut être gouverné avec une main ferme et amusé.„

E per tradurre in pratica un programma così solennemente annunciato, il principe di Metternich e il conte di Ficquelmont deliberavano la grave risoluzione politica di mandare a Milano… Fanny Elssler, prima ballerina nel teatro alla Scala.

A questa gran macchina politica rispose uno dei soliti inviti anonimi, di cui amiamo citare un brano perchè ci riconduce nel più fitto di quel singolare movimento:

AI MILANESI

“Un altro sacrificio, fratelli! Bisogna assolutamente astenersi dal teatro alle rappresentazioni dell'Elssler. Cedete il luogo ai Tedeschi che vorranno applaudirla anche in nome nostro. L'Elssler fu benefica verso i poveri, ed abbiasi tutta la riconoscenza, non il sacrificio del nostro decoro. Perchè non si possa dire: i Milanesi furono vinti dai vezzi di una ballerina, è necessario esserne lontani. La silfide può diventare una sirena ed ammaliarvi. Il silenzio di mille può essere guasto dall'applauso di pochi.„

È inutile soggiungere che il consiglio fu rigorosamente rispettato. La Elssler danzò ad esclusivo uso e consumo degli ufficiali austriaci. L'impresa della Scala fu una delle prime vittime del patriotismo. In una di quelle sere non s'aprirono che quattro palchi e si fecero nove biglietti. Una sera soltanto, gran folla e grande allegria; tutti i palchi pieni di dame. Gli ufficiali austriaci non sapevano che pensare di questa novità; – era giunta la notizia dell'insurrezione di Palermo. Il teatro tornò vuoto il giorno dopo.

Fu ai primi di gennajo che il dramma volse a tragedia.

La dimostrazione escogitata pel primo giorno dell'anno era di carattere più serio delle altre. Bisognava astenersi dal fumare, per danneggiare anche ne' suoi cespiti più vitali la finanza degli oppressori. L'invito che a quest'uopo era stato diramato s'appoggiava ad argomenti curiosissimi. Diceva fra le altre cose: “mal s'addice il fumo del tabacco fra le dolci aure olezzanti dei fiori d'Italia.„ La rettorica fu perdonata al Comitato in grazia della politica. Non era un pensiero nuovo. Già fin dal 1760 in Lombardia s'era adottato per alcuni giorni questo partito per dimostrare l'antipatia che suscitava la Ferma Generale. In America, la rivolta delle colonie inglesi era appunto cominciata con un'agitazione di questa natura, astenendosi di prendere il thè per non pagare la gabella che lo aggravava. In ventiquattr'ore, come al solito, il nuovo espediente fu conosciuto in tutta la Lombardia, e dappertutto, come al solito, vi si obbedì. Vecchi ed ostinati fumatori buttarono sulla via le loro provvigioni di zigari e da un'ora all'altra quella che pareva abitudine impossibile a sradicarsi completamente cessò.

Più che il danno, l'ira tolse ogni lume di moderazione alle autorità militari. Senza accordi nè col Fiquelmont, nè col Governatore, nè col Vicerè, trattarono Milano come paese di conquista. Il primo giorno, si limitarono a fare sfoggio di zigari sulle labbra dei loro ufficiali. A questi la moltitudine non si oppose; erano le persone in abito civile che s'invitavano, prima colle buone, poi colle brusche, a gettare lo zigaro. Solamente a un atto provocante di un giovane capitano, uscito da magnanimi lombi, che sulla porta di un caffè58 affettava di cacciarsi in bocca tre o quattro zigari, fu risposto con una ceffata che ruppe fra i denti gli zigari al petulante ufficiale. Era il conte Gustavo di Neipperg, figlio di quell'Adamo Adalberto, conte di Montenuovo, che trent'anni prima aveva consolato de' suoi omaggi la moglie, non ancor vedova, del prigioniero di Sant'Elena.

Il secondo giorno, torme di sgherri travestiti, di canaglia uscita dalle prigioni, percorsero, provocando, le vie, a zigaro acceso, gettando il fumo negli occhi ai passanti. Alcuni si schivarono, altri reagirono; vi furono baruffe, arresti, ma tutto finì senza sangue. Al terzo giorno, si sguinzagliarono le torve brutalità. Lo Stato Maggiore distribuì trentamila zigari alla guarnigione; poi, venuta la sera, lanciò granatieri, croati, ussari, dragoni per le vie della sventurata città, con istruzione di fumare, di obbligare altri a fumare, di provocare, di usare delle armi. Si può immaginarsi che risultati doveva produrre in quei cervelli ottusi, in quei corpi ebbri, il consiglio d'essere turbolenti, – il disordine imposto in nome della disciplina.

Fu una terribile sera, il cui ricordo, oggi ancora, a 38 anni di distanza, ci scuote l'animo come la visione di una tregenda.

Quei cittadini passeggiavano tranquilli, colle spose al fianco, coi bimbi innanzi, sui noti selciati pacificamente percorsi da quarant'anni. Irrompevano soldati, a due, a dieci, a cinquanta insieme raccolti. Uscivano da un vicolo, da una bettola, affrontavano, inseguivano, gridando, agitando braccia, sguainando sciabole, bestemmiando. Le famigliuole fuggivano, le botteghe si chiudevano, le lampade municipali illuminavano di fioca luce la scena. E in quella semi-oscurità accaddero cose orrende. Giovanetti che si vollero obbligare ad accendere uno zigaro, e che, resistendo, vennero colpiti di bajonetta; uomini inoffensivi, padri di famiglia, operaj che tornavano dal lavoro, inseguiti, gettati a terra, percossi di piatto e di punta. Il terrore faceva fuggire alcuni, l'ira e il coraggio facevano resistere altri. Ma erano inermi contro armati, pochi contro molti. La zuffa era breve. Poi s'udiva lontano, dal fondo della via, sorgere e crescere un romore noto e pauroso: la cavalleria. E questa giungeva a galoppo, spazzava le contrade, calpestava i caduti, feriva di lancia chi non era pronto a schermirsi. Poi, i dragoni dai mantelli bianchi si allontanavano, e restavano sulla via deserta, oscura, i poveri feriti, i poveri morti.

Pajono racconti da far paura ai bimbi, e son cose vere! Nessuna parte della città fu risparmiata da questi assassinj. A Porta Comasina, a S. Angelo, a S. Celso, all'Orso Olmetto, sul corso dei Servi. Chi scrive s'è trovato con un amico appiccicato ad uno spigolo della chiusa profumeria di Pasquale Scandelari nella Galleria De Cristoforis, mentre un centinajo di granatieri ungheresi l'avevano invasa e la percorrevano con libertà forsennata. Ebbimo urti e bestemmie e fumo negli occhi, ma nessuna offesa. Un quarto d'ora dopo, a due passi di lì, il settuagenario Manganini, consigliere d'appello e amico del Torresani, ebbe il capo spaccato da un fendente di sciabola. Altrove, trovossi nella folla investita, e perì di lancia, il cuoco del conte di Ficquelmont59. Nella Piazza dei Mercanti, un sicario immergeva un pugnale nei cuore ad un fabbro-ottonajo, perchè aveva preso le difese d'un ragazzo maltrattato. Si disse allora e si stampò sulle bugiarde effemeridi che erano stati trenta i feriti in quella occasione. Si sa oggi, pei documenti raccolti, che furono cinquantanove le vittime dell'eccidio, cinque morti sul colpo.

La carneficina del 3 gennajo ebbe un'eco immensa in Italia. In Milano fu veramente il boute-selle, il rullo di tamburo della rivoluzione.

Dal Piemonte Roberto d'Azeglio, autorevole personaggio, rispose, con un brindisi ad una società di fabbri-ferraj, augurandosi che presto non avrebbero solamente usato il ferro come industria, ma come arma contro nemici assassini. A Torino, a Genova, a Firenze, si fecero solenni funerali per le vittime di Lombardia; e accorrevano in grande uniforme i ministri e i diplomatici presso le Corti; da Vicenza, da Verona, da Treviso, dove i funerali erano impossibili, giungevano soccorsi in denaro e indirizzi di fratellanza; le contesse Bentivoglio e Michiel sfidavano a Venezia le ire poliziesche, facendo pubblicamente questue pei feriti di Milano; a Roma, la principessa di Belgiojoso organizzava splendide esequie, a cui interveniva in pompa il gran dignitario ecclesiastico milanese, monsignor Borromeo.

Ma dove le proteste suonavano ancora maggiori di virtù e di efficacia, per l'aperto pericolo, era nella stessa città.

Il conte Gabrio Casati, podestà di Milano, non aveva potuto sfuggire nella giornata del 3 gennajo alle improntitudini della sbirraglia. Preso in mezzo da una pattuglia, mentre alzava la voce contro le ignobili provocazioni, fu trascinato a pugni e a calciate di fucili. Riconosciuto, lungo la via, da un delegato di pubblica sicurezza, non volle essere posto in libertà, ma esigette d'essere condotto innanzi al Direttore generale, barone Torresani, perchè vedesse come agivano i suoi dipendenti. Uscito di lì, corse dove sperava poter trovare pronti gli elementi d'una deputazione, al Casino allora dei Nobili, oggi dell'Unione. Quattordici o quindici persone ivi raccolte lo seguirono tutte, fra le quali ricordiamo Carlo D'Adda, Cesare Giulini, Manfredo Camperio, Enrico Besana. Andarono al vicino palazzo Marino, dove alloggiava il conte di Ficquelmont. Appena entrati nel cortile, le porte si chiudono e si trovano in mezzo ad un vero accampamento, che li guarda con bieca ostilità. Pochi minuti dopo, ecco scendere dallo scalone lo stesso conte di Ficquelmont, accompagnato dal governatore, conte di Spaur. Gabrio Casati si avanza come capo della deputazione ed espone con vive parole lo stato della città e l'eccidio che vi si consuma. Aggiunge fiere ed eloquenti parole il conte Cesare Giulini Della Porta. I due alti dignitarj rispondono imbarazzati, con parole incoerenti: “certo è deplorabile… daremo ordini… ma la colpa è degli individui che provocano le autorità.„ Qui s'ode una voce, quella di Carlo d'Adda che domanda con tono fra l'ironico e lo sdegnoso: “forse che il cuoco del signor conte di Ficquelmont era d'accordo con noi per provocare gli Austriaci?„

Il giorno dopo, le proteste diventano ancora più solenni e più gravi. Il venerando arciprete del Duomo, monsignor Opizzoni, vecchio di 85 anni, si presenta al Vicerè e gli dice: “Altezza, ho visto a' miei tempi i Russi, i Francesi e gli Austriaci invadere come nemici la nostra Milano; ma un giorno come quello di jeri non lo vidi mai; si assassinava per le strade, il mio ministero mi obbliga a ripeterlo, si assassinava.„

Il conte Vitaliano Borromeo, fregiato del più eccelso ordine cavalleresco dell'Austria, scriveva al Vicerè che se non si dava soddisfazione al paese avrebbe restituito il Toson d'Oro, macchiato di sangue. E l'arcivescovo, predicando dal pergamo del Duomo, diceva: “unite le vostre preghiere alle mie, onde quelli che ci governano siano più giusti e serbino modi più umani.„

Forse ancora più significativo e più caratteristico della situazione era il contegno assunto dalle stesse autorità civili austriache, dagli uomini più miti del partito conservatore.

Il conte Giorgio Giulini, padre di Cesare, era uno dei patrizj che nel 1814 avevano contribuito, nella Reggenza di Governo, alla ristorazione del regime austriaco. Ed egli era stato incaricato dal conte di Ficquelmont di presentargli, insieme coll'avvocato Robecchi, un rapporto sullo stato degli animi e sulle misure da prendersi. Questo rapporto era finito e copiato il 1.º gennajo. Lo presentarono il giorno 4 con un breve poscritto che i due onorandi cittadini chiudevano così: “Il sangue scava un abisso fra governanti e governati. Questi possono essere ancora compressi dalla forza brutale; ma il regno della forza è breve.„

Il cav. Decio, consigliere di Governo, presentò le sue dimissioni, allegando di non voler più oltre servire sicarj. Il Delegato Provinciale Bellati, uomo di studj e di coscienza, firmò la protesta pei fatti del 3 gennajo, aggiungendovi una frase dolorosa: “colui che diventò infame pel suo troppo attaccamento al governo austriaco.„ Più vigoroso di tutti, nella schiera dell'alta burocrazia, fu il Procuratore Camerale Enrico Guicciardi60, che, armandosi d'un articolo elastico del Regolamento organico, denunciava al Governatore i Capi supremi della polizia e dell'esercito come responsabili, per abuso di competenza, degli ultimi fatti; e domandava, con alto sentimento del proprio ufficio, che la sua denuncia fosse mandata a Vienna, qualora il Governatore non si sentisse abbastanza autorizzato a provvedere, contro questi abusi, da sè.

Quella protesta, che infatti venne spedita a Vienna, è un atto notevole per la novità ardita e per l'acuta esposizione dei criterj d'indole amministrativa e politica. Voleva essere, secondo le forme burocratiche, un atto d'ufficio contenente “rispettose osservazioni.„ Ma a giudicare che tono avesse assunta in quei giorni, fra impiegati italiani e superiorità austriache, una “rispettosa osservazione„ basterebbero questi periodi: “… oltre l'abuso della forza di polizia è intervenuta la forza militare per uccidere e ferire in seguito a provocazioni del genere di sopra da me indicato, per parte di molti militari, od isolati, od uniti in numero ben sensibile„. E altrove: “… A sedare i disordini si è usata la forza di polizia e la forza militare. Come la medesima siasi usata, è troppo noto all'E. V. Si commisero degli atti che la sola barbara legge di guerra scuserebbe in una città presa d'assalto.„ Chiudeva dicendo: “L'intervento della forza militare, non richiesta da V. E., costituisce per subordinato avviso del procuratore camerale, un abuso di competenza delle attribuzioni esclusivamente demandate dalle Sovrane Patenti all'E. V. perchè fa sottomettere alla polizia militare queste provincie, da S. M. assoggettate unicamente alla polizia civile61.

Che cosa fu risposto a tutte queste proteste?

Il Guicciardi fu immediatamente destituito; gli fu negato ogni diritto a pensione e tolta anche la facoltà di esercitare privatamente l'avvocatura. Il Vicerè pubblicava il 5 gennajo un proclama ipocritamente mellifluo, nel quale deplorava “che la condotta dei cittadini paralizzasse le sue più fondate speranze di ottenere dal trono di S. M. benigni provvedimenti.„ Il Comando Militare faceva leggere il giorno 6 alle truppe un Befehl (ordine del giorno) nel quale lodava “l'obbedienza e la fermezza mostrata dai militari nella giornata del 3 corrente.„ L'imperatore Ferdinando pubblicava “non essere inclinato a fare ulteriori concessioni; fidarsi unicamente nella fedeltà e nel valore delle sue truppe.„ Finalmente, al giorno 22 febbrajo giunge l'ultima risposta e l'ultima concessione – la proclamazione dello stato d'assedio col giudizio statario. Il Vicerè, il Governatore, le alte autorità di governo partivano o stavano per partire; il Regno Lombardo-Veneto era consegnato senza guarentigie nelle mani dell'inflessibile maresciallo, che aveva detto, a proposito dei casi di gennajo: tre giorni di terrore, trent'anni di pace.

Qui ha termine lo stadio di preparazione, e comincia lo stadio della rivoluzione, di cui ci occuperemo più innanzi.

In tutto questo cupo periodo, un solo atto di bene scende dalle eccelse regioni del governo straniero.

Da Vienna arriva un giorno un plico suggellato all'ufficio che dirigeva la colletta apertasi pei feriti del 3 gennajo in casa Borromeo. Conteneva diecimila lire, e le mandava l'imperatrice d'Austria, quella Maria Anna, figlia di Vittorio Emanuele I, re di Sardegna, morta due anni or sono.

Ci par bene e giusto ricordare che da una donna, da una italiana, da una principessa di Casa Savoja era partita in quei giorni, frammezzo a così truce ribollir di passioni, l'unica inspirazione alta di politica e di umanità.

II.
LA RIVOLUZIONE

Un moto popolare di natura politica ha bisogno, per essere efficace, di tre diversi stadj o fenomeni: la preparazione morale, la preparazione materiale e l'azione. Sopprimiamo la prima, avremo ordinariamente un tumulto; sopprimiamo l'ultima, resteremo nei limiti di una congiura; togliamo la preparazione materiale, cadremo, nove volte su dieci, in una ribellione repressa.

Il moto milanese del 1848 fu una vera e propria rivoluzione, coronata di successo, perchè non gli è mancato nessuno dei tre fenomeni necessarj.

Abbiamo visto quanta preparazione morale avessero ammassata gli anni anteriori al 1848; dal 18 al 23 marzo l'azione non poteva essere più decisa e più vigorosa; ma il primo trimestre dell'anno aveva veduto svolgersi una preparazione materiale, che sarebbe ingiusto dimenticare, perchè non ebbe minori ostacoli nè minore virtù.

Infatti, le brutalità del 3 gennajo ebbero questo effetto immediato, di persuadere i direttori del movimento che la preparazione morale era completa e di spingerli a tutt'uomo verso la preparazione materiale. Della popolazione non si poteva più dubitare. Aveva chiaro l'istinto della situazione rivoluzionaria, aveva dimostrato di possedere in grado eminente il desiderio e l'intelletto della disciplina. Occorreva quindi stringere accordi rivolti a scopi pratici, avvicinarsi con altre operazioni al momento decisivo, che le occasioni avrebbero determinato.

Rinnovatesi a Pavia le stragi di Milano, una circolare segreta avvertiva che, per evitare nuovo sangue, si sarebbe posto fine alle dimostrazioni di carattere pubblico. “Adesso possiamo aspettare senza vergogna„ diceva; e infatti si aspettò, ma con una aspettazione piena di febbrile energia.

L'intento della concordia s'era ormai raggiunto al di là d'ogni previsione patriottica. I popolani ardevano dal desiderio di vendicare i loro morti e feriti, e traevano da questo stesso desiderio una fiducia, che nulla poteva scuotere, nei misteriosi scrittori dei bollettini. La parte più conservativa del patriziato aveva smesso, dopo il 3 gennajo, ogni esitazione; il conte Vitaliano Borromeo aveva voluto conoscere di persona Cesare Correnti, e in un colloquio tenuto in casa del marchese Anselmo Guerrieri, patrizio di scuola mazziniana e di larghissime aspirazioni, s'erano appianate le ultime difficoltà, schiarite e accettate le ultime modalità del programma.

Bisognavano denari, armi, alleanze; i tre nervi, le tre basi d'ogni guerra.

Le collette raccolte in casa Borromeo avevano fruttato più di 150 mila lire; primo fondo che servì a comperare utensili e mantenere operaj, ad organizzare un po' di spionaggio e di stazioni nelle campagne. Ma non era quella pel momento la maggiore preoccupazione. I forzieri del patriziato si sapevano pronti ad ogni richiesta, e infatti, appena sorsero le occasioni opportune, furono visti gareggiare di liberalità e il duca Litta e il conte Arese e il duca Scotti e il marchese Arconati e il conte Annoni e il duca Visconti di Modrone e quanti insomma avevano pari all'antichità della stirpe o alla tradizione del patriotismo la larghezza del censo62.

Di alleanze non si poteva cercarne che al di là del Ticino. Un solo Stato in Italia aveva esercito valido e politica indipendente; un solo sovrano aveva mostrato da qualche tempo comunanza di aspirazioni coi rinnovatori lombardi.

Carlo Alberto aveva infatti mantenuta ed accentuata, col progredir degli eventi, la situazione politica e personale da lui presa in Italia. Era sempre il Re cauto, ma deliberato, che fronteggiava l'Austria nella questione italiana. Non aveva smesse ancora le forme assolute di governo, ma se ne valeva per moversi più liberamente nell'orbita sua, con intonazioni democratiche, di cui forse un ministero costituzionale non gli avrebbe lasciato libertà. Visitando Genova, durante il Congresso degli scienziati, s'era lasciato avvicinare, senza titubanza, da un giovane, non illustre allora, ma caldo di patriottismo, che ponendogli la mano ardita sulle briglie del cavallo, gli aveva detto, con voce squillante: “Maestà, bisogna prepararsi a combattere.„ Era Nino Bixio. Assai più tardi, recandosi a Casale per inaugurarvi congressi d'agricoltura, aveva detto a Lorenzo Valerio: “Quando l'ora sarà suonata, monterò a cavallo e combatterò per la patria come Sciamyl combatte nel Caucaso.„

Coi patriotti lombardi aveva sempre conservato indirette comunicazioni, specialmente per opera del suo segretario particolare, il conte di Castagneto, uomo di specchiata probità e di lealissimi sensi, a cui l'Italia deve, per quel periodo, una parte notevole della riconoscenza che sembra avere esclusivamente serbata per altri. Col Castagneto carteggiavano da parecchi mesi alcuni rappresentanti del patriziato, segnatamente il conte Gabrio Casati, col quale si dibattevano, senza chiasso, parecchie delle questioni fondamentali che l'unione presagita del Piemonte e della Lombardia metteva in primissima linea. Dopo il 3 gennajo, parve che a queste relazioni indirette fosse necessario sostituire azione più viva; che all'orecchio di Carlo Alberto dovesse giungere, con maggiore frequenza ed intimità, la parola di chi fosse più attivamente mescolato a tutta la situazione lombarda degli ultimi tempi.

Carlo D'Adda fu scelto a questa missione; ed egli recossi, secondo il desiderio degli amici, a Torino, dove il conte di Castagneto lo accolse con grande simpatia e lo presentò senza indugio a Carlo Alberto. Furono relazioni curiose quelle che si stabilirono allora fra questo Re di diritto divino ed un inviato, senza credenziali, d'un Comitato senza poteri. Carlo D'Adda saliva ordinariamente dal Re in ore eccentriche, in abito dimesso, condotto dal Castagneto per usci secreti, per corridoj polverosi, come un ladro… o come un adultero. Il Re lo riceveva ad ogni richiesta, accettava senza esitazione questi andamenti cospiratorj, voleva informazioni di persone e di fatti, dava assicurazioni, non si sdegnava di consigli. Uscito di lì, ripigliava la maschera severa, il linguaggio riservato e l'occhio freddo del monarca legittimo. Nessuno avrebbe indovinato il patriota sotto quella rigida fisonomia di Re; pochi si sarebbero accorti del Re, intrattenendo famigliarmente il patriota.

Nessuno ha finora raccontato pubblicamente un aneddoto caratteristico.

Un giorno, si aspettavano a Novara certe condotte di polveri, che dovevano essere tragittate in Lombardia. Le polveri non erano giunte col tramite per cui dovevano essere state inviate. Carlo D'Adda riceve un biglietto dal Comitato di Novara; un biglietto, scritto secondo lo stile di quei giorni, come l'impeto dettava, in fretta e in furia: “Nulla è arrivato, Carlo Alberto ci tradisce, come nel 1821.„ D'Adda si reca difilato dal Castagneto e il Castagneto lo conduce difilato dal Re. Ma v'è Consiglio di Ministri, e il Re non può assolutamente ricevere. La cosa pareva al D'Adda pressante. “Vuol far passare quel biglietto nelle mani di Sua Maestà?„ gli dice il conte di Castagneto. L'inviato milanese lo guarda meravigliato; ma l'aspetto severo, sicuro, dell'uomo non gli permette dubbio. E il biglietto crudele, naturalmente anonimo, è portato, in una busta, sul tavolino del Re. Dieci minuti di aspettazione, diciamo pure di ansia. Poi, un servitore gallonato, riporta, chiuso in un'altra busta, lo stesso biglietto, con un breve poscritto di mano reale: “Caro D'Adda, ho dato ordine in questo punto che le polveri partano.„

Quel biglietto è andato smarrito. Oggi sarebbe uno dei documenti più importanti e più curiosi della rivoluzione italiana.

Le polveri non si potevano adoperare senza le armi da fuoco. E a questo pure si pensò in quei due mesi; e se molto non potè farsi, certo si fece assai più che non consentissero le difficoltà e i rischj gravissimi dell'impresa, più che non sia comunemente noto per le pubblicazioni uscite intorno a quei fatti.

Nelle case dei cittadini saranno stati un trecento fucili da caccia, non più; poche pistole, pochissime armi da punta e da taglio; la vigilanza sulle botteghe d'armajuolo grandissima, e tale da non potersi eludere senza provocare immediate misure di cittadino disarmo. Si dovette dunque ricorrere all'importazione od alla riduzione di armi vecchissime ed inservibili, esistenti in casse o in soffitte, talune fin dall'epoca del primo Regno d'Italia. Pure, in poco tempo parecchie case di Milano furono tramutate in depositi d'armi; quasi tutte si munirono almeno di una per le sperate battaglie. I giovani del club della Cecchina trovarono modo, a peso d'oro, d'introdurre in città cento carabine inglesi e se le distribuirono. In casa Trotti, in casa Porro, in casa Dandolo, in casa Spini, nelle case Prinetti, Simonetta, Besana, in cento case v'era accolta di fucili e di pistole; Alessandro Antongini aveva riempiuto d'armi un magazzino fuori porta; ma il difficile era introdurle, e non si potè farlo che lentamente, senza giungere in tempo a farlo completamente. Si recavano i giovani, come a sollazzo, nelle osterie suburbane: rientravano, con apparenze gioconde, portando sotto il tabarro invernale o sotto il panciotto una canna, un calcio, una baionetta, i grilletti, tutte insomma le varie parti del fucile che si sarebbero più tardi ricomposte. Vera giudizio statario; ma chi vi badava? talvolta i pezzi non combaciavano, e la vita s'era arrischiata per nulla; si ritornava il giorno dopo a prendere i pezzi che combaciassero. Si diceva che queste armi erano male fabbricate, che sarebbero scoppiate in mano agli insorgenti nel giorno della battaglia. E altri giovani si prendevano il rischio e il compito di verificare le cose. Andavano in una cascina suburbana, proprietà d'un patrizio, il cui nome non permetteva sospetti austriaci, il conte Mellerio. S'erano procurati la doppia complicità patriottica d'un fittabile e d'un armajuolo; provavano le armi, facevano accomodare quelle che apparivano difettose, le reintroducevano su carri agricoli, preparate e impagliate come peri o albicocchi.

Nelle case poi, smessi gli usati passatempi, le signore fabbricavano cartuccie, gli scienziati preparavano projettili e cotone fulminante; gli esercizi d'arme e lo studio dei manuali militari, delle opere di Iomini, di Montecuccoli, di Dufour, avevano sostituito i componimenti rettorici e la lettura dei trattati politico-legali pubblicati dai professori dell'Università di Pavia. Luciano Manara, Carlo de Cristoforis, Francesco Simonetta attingevano a questi studj coscienza di attitudini e di responsabilità militari; li seguivano, per ardore di belliche discipline, giovani minori d'anni, ma eletti di mente, Pietro Rasnesi, Emilio ed Enrico Dandolo, e quel simpatico e vivace ingegno di Emilio Morosini, che avrebbe certamente occupato un posto notevole nella vita politica contemporanea se una palla francese non gli avesse spezzato, sulle mura di Roma, il giovane cuore.

Dei vivi non parliamo; son molti e prodi. Parlandone, offenderemmo lunghe e silenziose modestie, provocheremmo vibrazioni importune di commossi ricordi. D'altronde agli uomini di quell'epoca una coscienza rimane intera: quella di non dovere, in così grande solidarietà di fatti, rammaricarsi di nulla e di nessuno.

Un popolo intero era riuscito a vincere la legge delle eccezioni; e in un tempo in cui il segreto della patria era su tutte le labbra, non si ebbe ad arrossire nè di una corruzione nè di una viltà. Nessun'epoca della storia dimostrò più validamente come un gran sentimento patriottico equivalga a un gran sentimento morale.

Tutta questa agitazione non era sfuggita e non poteva sfuggire ai dominatori. Sicchè non mancavano tentativi di seduzione, indagini, sorprese, perquisizioni. Ma la complicità di tutti era all'erta contro i pericoli di ciascuno. E quando la polizia si moveva, un istinto, un Nume invisibile indicava dove sarebbe andata a scendere. Il vetturino allungava la strada, il portinaio alzava la voce perchè udissero al primo piano, il monello correva ad avvertire un amico, il cameriere non aveva la chiave d'un uscio, la cuoca offriva alle guardie un manicaretto, gl'inquilini aiutavano, le carte sparivano, le armi uscivano o per gli abbaini o per le fogne; e la polizia ritornava il più delle volte convinta d'essere stata mistificata, ma, come il demone della Basvilliana:

Vuota stringendo la terribil ugna.

Quando l'Austria fu stanca di queste inutili attività, venne finalmente il decreto che ordinava le perquisizioni generali e l'immediato disarmo, sotto le pene del giudizio statario. Ma allora era già scoppiata la rivoluzione francese del 24 febbrajo, era già stato proclamato lo Statuto di Carlo Alberto. Dappertutto in Europa suonava il dies iræ. Giuseppe Sandrini, segretario del Governo, che aveva intelligenze coi liberali, trovò modo di far differire di alcuni giorni il principio delle perquisizioni. Quei giorni bastarono perchè scoppiasse la rivoluzione di Vienna e perchè a Milano giungesse il 17 mattina la notizia che gli studenti e i Polacchi avevano fatto le barricate e che il principe di Metternich abbandonava, ramingo, la capitale dell'Impero.

Qui comincia veramente il periodo attivo della rivoluzione.

57.Mémoires de Metternich, vol. VII, pag. 585.
58.Il caffè Merlo, allora esistente sull'angolo tra il Corso Vittorio Emanuele (corsia dei Servi) e la piazzetta di San Paolo.
59.Metternich, VII, 576.
60.Figlio del conte Diego, di cui s'è parlato più volte nei precedenti capitoli. Morì a Milano nell'anno 1857.
61.La copia di questo rapporto come di quello sopraccennato, di Giulini e Robecchi, si trovano entrambe fra i documenti raccolti nel Museo civico del Risorgimento Italiano.
62.I tre duchi versarono ciascuno centomila lire; novantottomila il marchese Arconati. Più tardi poi, essendosi deciso di contrarre un prestito di dodici milioni, che il banchiere cav. Brot s'era assunto di collocare, i patrizi milanesi offersero l'ipoteca sulle loro terre, per garantire, a pro dello Stato, gli assuntori del prestito.