Buch lesen: «Giuramento Fraterno », Seite 2

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CAPITOLO DUE

Gwendolyn si trovava in cima alla collina e guardava l’alba che sorgeva nel cielo deserto e il cuore le batteva nell’attesa mentre si preparava a colpire. Guardando il confronto dell’Impero contro i paesani da lontano aveva condotto lì i suoi uomini portandosi ai bordi del campo di battaglia e posizionandosi dietro le righe dell’Impero. I soldati dell’Impero, così concentrati sui paesani e sulla battaglia, non li avevano neanche visti arrivare. E ora, mentre i paesani stavano iniziando a morire là sotto, era ora di fargliela pagare.

Fin da quando aveva deciso di far tornare indietro i suoi uomini per aiutare gli abitanti del villaggio, Gwen si era sentita pervasa da una sensazione di fatalità. Che avessero vinto o perso, sapeva che era la cosa giusta da fare. Aveva visto il duello dispiegarsi dall’alta catena di monti, aveva visto gli eserciti dell’Impero avvicinarsi con le loro zerte e i loro soldati professionisti riportandole alla mente sentimenti freschi, ricordandole l’invasione dell’Anello per mano di Andronico e poi di Romolo. Aveva visto Dario farsi avanti da solo per affrontarli e il suo cuore aveva esultato quando lo aveva visto uccidere il comandante. Era una cosa che anche Thor avrebbe fatto. Che lei stessa avrebbe fatto.

Ora Gwen stava lì, con Krohn che ringhiava sommessamente accanto a lei; Kendrick, Steffen, Brandt, Atme e decine di soldati dell’Argento e centinaia di uomini alle sue spalle, tutti con le armature che indossavano da quando avevano lasciato l’Anello, tutti con le loro armi, tutti in paziente attesa di un suo ordine. Il suo era un esercito di professionisti e non combattevano da quando erano stati esiliati dalla loro madrepatria.

Ora era giunto il momento.

“ORA!” gridò Gwen.

Si levò un grandioso grido di battaglia e tutti i suoi uomini, condotti da Kendrick, si lanciarono giù dalla collina, con le loro voci che sembravano quelle di migliaia di leoni alla luce del primo mattino.

Gwen vide i suoi uomini raggiungere le righe dell’Impero mentre i soldati nemici, preoccupati a combattere contro i paesani, si voltavano lentamente, stupiti, chiaramente senza capire chi li stesse attaccando o perché. Evidentemente quei soldati non erano mai stati presi alla sprovvista prima d’ora e sicuramente non da un esercito di professionisti.

Kendrick non diede loro il tempo di riorganizzarsi e di capire cosa stesse accadendo. Si lanciò in avanti pugnalando il primo uomo che incontrò, mentre Brandt, Atme, Steffen e decine di altri soldati dell’Argento combattevano al suo fianco, gridando e calando le loro armi contro i soldati nemici. Tutti i suoi uomini portavano un grosso rancore e tutti avevano voglia ormai da tempo di combattere, avevano sete di vendetta, desideravano scatenare la loro ira sull’Impero fin da quando avevano lasciato l’Anello, Gwen lo sapeva bene. In questa battaglia avevano trovato il loro sfogo migliore. Negli occhi di tutti i suoi uomini ardeva un fuoco, un fuoco che conteneva le anime di tutti i cari che avevano perduto nell’Anello e nelle Isole Superiori. Era un bisogno di vendetta che si erano portati attraverso l’oceano. Gwen si rendeva conto che in molti modi la causa di quegli abitanti era anche dall’altra parte del mondo la loro stessa causa.

Gli uomini gridavano mentre combattevano corpo a corpo e Kendrick e gli altri usarono il loro slancio per colpire da ogni parte nella mischia, abbattendo file di soldati dell’Impero prima che potessero anche solo rendersene conto. Gwen era estremamente fiera mentre guardava Kendrick bloccare due colpi con lo scudo, ruotare su se stesso e colpire un soldato in faccia con lo stesso e poi prenderne un altro al petto. Vide Brandt dare un calcio alle gambe del soldato facendogli perdere l’equilibrio e poi pugnalarlo alla schiena e da lì al cuore spingendo la spada con entrambe le mani fino in fondo. Vide Steffen brandire la sua spada corta e tagliare la gamba a un soldato, poi fare un passo avanti e dare un calcio al ventre a un altro, poi una testata, mettendolo al tappeto. Atme fece roteare il suo mazzafrusto e colpì due soldati con un unico giro.

“Dario!” gridò una voce.

Gwen guardò oltre e vide Sandara accanto a lei che indicava verso il campo di battaglia.

“Mio fratello!” gridò ancora.

Gwen scorse Dario a terra, sdraiato sulla schiena e circondato dai soldati dell’Impero che si stavano stringendo attorno a lui. Il cuore le fece un balzo di apprensione, ma vide con grossa soddisfazione come Kendrick si fece avanti tenendo lo scudo e salvando Dario da un colpo d’ascia che altrimenti l’avrebbe colpito al volto.

Sandara gridò e Gwen poté vedere il suo sollievo, capendo quanto amasse suo fratello.

Gwendolyn prese un arco da uno dei soldati che stavano di guardia accanto a lei. Mise una freccia in posizione, lo tese e prese la mira.

“ARCIERI!” gridò.

Tutt’attorno a lei una decina di arcieri prese la mira tendendo gli archi e aspettando un suo commando.

“FUOCO!”

Gwen scoccò una freccia in alto nel cielo, al di sopra dei suoi uomini e insieme a lei tirarono la sua decina di arcieri.

La raffica piombò nel fitto dei restanti soldati dell’Impero e le grida risuonarono mentre una decina di soldati cadevano in ginocchio.

“FUOCO!” gridò di nuovo.

Seguì un’altra raffica, poi un’altra ancora.

Kendrick e i suoi uomini entrarono nella mischia uccidendo tutti gli uomini che erano caduti in ginocchio colpiti dalle frecce.

I soldati dell’Impero furono costretti a smettere di attaccare i paesani e a fare dietrofront con il loro esercito per affrontare gli uomini di Kendrick.

Questo diede un’opportunità agli uomini del villaggio. Levarono un forte grido e attaccarono, pugnalando alla schiena i soldati dell’Impero che ora venivano macellati da ogni parte.

I nemici, schiacciati tra due forze ostili, con i numeri che calavano rapidamente, alla fine iniziarono a rendersi conto di essere in svantaggio. I loro ranghi di centinaia si ridussero presto a decine e coloro che rimanevano si voltarono cercando di fuggire a piedi, dato che le loro zerte erano state uccise o catturate.

Ma non riuscirono a percorrere molta strada prima di essere raggiunti e uccisi.

Si levò un alto grido di trionfo da entrambe le parti, abitanti del villaggio e uomini di Gwendolyn. Si unirono tutti insieme, esultando e abbracciandosi come fratelli. Gwen corse giù dalla collina e si unì a loro, con Krohn alle calcagna, lanciandosi nel fitto del gruppo, circondata da uomini, l’odore del sudore e della paura ancora forte nell’aria, il sangue che scorreva fresco sul suolo desertico. Qui, nonostante tutto ciò che era accaduto nell’Anello, Gwen provò un senso di trionfo. Era stata una vittoria gloriosa lì nel deserto, gli abitanti del villaggio e gli esiliati dell’Anello uniti contro il nemico.

I paesani avevano perso molti buoni uomini e pure Gwen ne aveva persi alcuni dei suoi. Ma Dario almeno era vivo, in piedi sebbene barcollante e lei era felice di constatarlo.

Gwen sapeva che l’Impero aveva milioni di altri uomini. Sapeva che sarebbe giunto un giorno per la resa dei conti.

Ma quel giorno non era oggi. Quel giorno non aveva preso la decisione più saggia, ma quella più coraggiosa. Quella giusta. Sentiva che era una decisione che suo padre avrebbe preso. Aveva scelto la strada più difficile. La strada di ciò che era giusto. La strada della giustizia. La strada del valore. E noncurante di ciò che sarebbe accaduto in futuro, quel giorno aveva vissuto.

Aveva vissuto sul serio.

CAPITOLO TRE

Volusia si trovava sul balcone di pietra e guardava verso il basso, verso il cortile di ciottoli di Maltolis che si dispiegava sotto di lei e là vide il corpo disteso del principe, immobile, gli arti aperti in una posizione grottesca. Sembrava così distante da lassù, così minuscolo, così debole. Volusia si meravigliò di come, solo pochi istanti prima, lui fosse uno dei più potenti sovrani dell’Impero. Era sorprendente quanto la vita fosse fragile, che genere di illusione fosse il potere e soprattutto di come lei, con il suo infinito potere, ora una vera dea, detenesse il potere di vita o di morte su chiunque. Adesso nessuno, neppure un grande principe, poteva fermarla.

Mentre stava lì a guardare, si levarono le grida, in tutta la città, delle migliaia di persone, i pazzi cittadini di Maltolis, che si lamentavano: il loro frastuono riempiva il cortile e si sollevava come fossero uno sciame di locuste. Si agitavano e gridavano, sbattevano la testa contro le pareti di pietra. Si gettavano al suolo come bambini arrabbiati e si strappavano i capelli. A vedere il loro comportamento si sarebbe potuto pensare che Maltolis fosse stato un sovrano benevolo.

“IL NOSTRO PRINCIPE!” gridò uno di loro, un urlo ripetuto da molti altri mentre accorrevano e si buttavano sul corpo del principe pazzo singhiozzando e dimenandosi stringendolo a loro.

“IL NOSTRO AMATO PADRE!”

Improvvisamente le campane risuonarono nella città, una lunga successione di rintocchi che si riecheggiavano. Volusia udì della confusione e sollevò gli occhi vedendo centinaia di soldati di Maltolis marciare di fretta attraverso i cancelli della città, entrare nel cortile in fila per due mentre la grata si sollevava per farli passare. Erano tutti diretti verso il castello di Maltolis.

Volusia capì di aver messo in moto un evento che avrebbe cambiato quella città per sempre.

Si udì un improvviso e insistente battito alla spessa porta di quercia della camera, che le fece fare un balzo. Erano colpi incessanti, il rumore di decine di soldati, clangore di armature, un ariete che veniva picchiato contro la porta della stanza del principe. Volusia ovviamente l’aveva sbarrata e la porta, spessa una trentina di centimetri, era intesa per resistere a un assalto. Tuttavia i cardini cedettero e le grida degli uomini giunsero da fuori: a ogni colpo si piegava sempre più.

Slam, slam, slam.

La camera di pietra tremò e l’antico candeliere di metallo che era appeso in alto a una trave di legno oscillò prima di cadere con uno schianto al suolo.

Volusia rimase a guardare tutto con calma, aspettandosi ogni cosa. Sapeva ovviamente che erano lì per lei. Volevano vendetta e non l’avrebbero mai lasciata fuggire.

“Aprite la porta!” gridò uno dei generali del principe.

Riconobbe la voce: il capo delle forze di Maltolis, un uomo serio che aveva incontrato brevemente. Aveva una voce bassa e roca; era un uomo inetto, ma un soldato professionista con duecentomila uomini a sua disposizione.

Eppure Volusia rimaneva lì calma di fronte alla porta, per nulla scossa, guardando pazientemente e aspettando che la abbattessero. Avrebbe naturalmente potuto aprirla per loro, ma non gli avrebbe dato questa soddisfazione.

Alla fine si udì un tremendo schianto e la porta di legno cedette staccandosi dai cardini e decine di soldati, con le armature che sferragliavano, entrarono di corsa nella stanza. Il comandante di Maltolis, con addosso la sua armatura decorata e con in mano uno scettro d’oro che gli conferiva il titolo di comandante dell’esercito di Maltolis, era a capo delle truppe.

Rallentarono quando la videro lì in piedi, da sola, per niente desiderosa di fuggire. Il comandante, con volto profondamente corrugato, si diresse dritto verso Volusia e si fermò bruscamente a pochi passi da lei.

Le lanciò un’occhiataccia colma di odio e dietro di lui i suoi uomini si fermarono, ben disciplinati, in attesa di un suo comando.

Volusia stava lì tranquilla, guardandolo con un sorrisino, e si rese conto che il suo atteggiamento doveva averli confusi, dato che il comandante sembrava sconvolto.

“Cos’hai fatto, donna?” le chiese stringendo la sua spada. “Sei venuta nella nostra città da ospite e hai ucciso il nostro sovrano. Il prescelto. Colui che non poteva essere ucciso.”

Volusia gli sorrise e rispose con calma: “Vi sbagliate di grosso, generale,” disse. “Sono io quella che non può essere uccisa. E oggi l’ho provato.”

L’uomo scosse la testa furiosamente.

“Come puoi essere così sciocca?” le disse. “Dovevi per certo saperlo che avremmo ucciso te e i tuoi uomini, che non c’è via di fuga né modo di lasciare questo posto. Qui le tue poche scorte sono circondate da centinaia di migliaia dei nostri. Devi per forza averlo saputo che qui oggi avresti causato la tua condanna a morte, o peggio la tua cattura e tortura. Non trattiamo con cortesia i nostri nemici, in caso tu non l’abbia notato.”

“L’ho notato di certo, generale, e lo ammiro,” rispose. “Eppure non metterete un solo dito su di me. Nessuno dei vostri uomini lo farà.”

Il generale scosse la testa scocciato.

“Sei più folle di quanto pensassi,” le disse. “Io ho lo scettro d’oro. Tutti i nostri eserciti faranno come dico. Esattamente come dico.”

“Davvero?” chiese lei lentamente, con un sorriso in volto.

Lentamente Volusia si voltò e guardò attraverso la finestra aperta, verso il corpo del principe che ora veniva sollevato sulle spalle dei pazzi e portato in giro per la città come un martire.

Dando le spalle al generale, Volusia continuò.

“Non dubito, generale,” disse, “che le vostre forze armate siano ben allenate. O che seguano gli ordini di chi possiede lo scettro. La loro fama li precede. So anche che sono molto più forti e grandi delle mie. E so che non c’è via di fuga da qui. Ma vedete, io non desidero fuggire. Non ne ho bisogno.”

Lui la guardò perplesso e Volusia si voltò e guardò fuori dalla finestra scrutando il cortile. In lontananza scorse Koolian, il suo stregone, che si trovava tra la folla ignorando gli altri e fissandola da laggiù con i suoi occhi verdi e il volto segnato dalle rughe. Aveva indosso il suo mantello nero ed era impossibile non vederlo tra la folla, con la mani conserte e il volto pallido rivolto verso di lei parzialmente nascosto dal cappuccio, in attesa di un suo comando. Era lì, l’unico pazientemente immobile nel caos della città.

Volusia fece un cenno appena percettibile e vide che lui immediatamente le rispondeva.

Lentamente Volusia si voltò, con il sorriso in volto, e guardò il generale.

“Potete passarmi lo scettro ora,” gli disse. “Oppure posso uccidervi e prenderlo da me.”

Lui la guardò confuso, poi scosse la testa e per la prima volta sorrise.

“Conosco la gente delirante,” le disse. “Ne ho servito uno per anni. Ma te… appartieni a una categoria tutta tua. Molto bene: se desideri morire in questo modo, che così sia.”

Fece un passo avanti e sguainò la spada.

“Mi divertirò ad ucciderti,” aggiunse. “Ho voluto farlo dal momento che ho visto la tua faccia. Tutta quell’arroganza basta a far venire la nausea a un uomo.”

Le si avvicinò e Volusia si voltò vedendo improvvisamente Koolian nella stanza accanto a lei.

Koolian si voltò a guardare il generale, sorpreso dalla sua improvvisa apparizione dal nulla. Rimase lì a bocca aperta, chiaramente senza aspettarselo ed evidentemente non sapendo cosa fare.

Koolian si tolse il cappuccio e fece un ghigno con la sua faccia grottesca, pallidissima, gli occhi verdi ruotati indietro. Lentamente sollevò le mani.

Quando lo fece improvvisamente il comandante e tutti i suoi uomini caddero in ginocchio. Gridarono e si portarono le mani alle orecchie.

“Fatelo smettere!” gridò l’uomo.

Lentamente il sangue iniziò a colare dalle orecchie e uno alla volta caddero tutti a terra immobili. Morti.

Volusia si fece avanti lentamente, con calma, e afferrò lo scettro d’oro dalla mano del comandante morto.

Lo sollevò in alto e lo esaminò, ammirandone il peso e il luccichio. Era un oggetto dal fascino sinistro.

Sorrise.

Era addirittura più pesante di quanto avesse immaginato.

*

Volusia si trovava oltre il fossato, all’esterno delle mura della città di Maltolis, con il suo stregone Koolian, il suo assassino Aksan e il comandante delle forze armate volusiane Soku al suo fianco. Guardava il vasto esercito di Maltolis raccolto davanti a sé. Le pianure deserte erano piene, a perdita d’occhio, di uomini di Maltolis. Ce n’erano duecentomila, un esercito che così grande lei non aveva mai visto. Ispirava un senso di ammirazione anche a lei.

Rimanevano lì pazientemente, senza un capo, e la guardavano, lei – Volusia – che si trovava in piedi su una pedana rialzata e li guardava. La tensione era densa nell’aria e Volusia poteva percepire che stavano tutti aspettando, pensierosi, decidendo se ucciderla o ubbidirle.

Volusia li guardava con fierezza, sentendo il proprio destino davanti a sé. Lentamente alzò lo scettro d’oro sopra la testa. Si voltò lentamente guardando da tutte le parti in modo che potessero vederla, che tutti potessero vedere il suo scettro che brillava al sole.

“MIO POPOLO!” disse con voce tonante. “Io sono la dea Volusia. Il vostro principe è morto. Ora sono io a tenere lo scettro, sono io quella che dovete seguire. Seguitemi e guadagnerete gloria e ricchezze e tutti i desideri del vostro cuore. Rimanete qui e vi perderete e morirete in questo luogo, all’ombra di queste mura, all’ombra del cadavere di un sovrano che non vi ha mai amati. Lo avete servito nella follia; servirete me nella gloria, nella conquista. Avrete finalmente il capo che vi meritate.”

Volusia sollevò lo scettro più in alto, guardandoli e incrociando i loro sguardi disciplinati, percependo il proprio destino. Sentì di essere invincibile, che niente poteva fermarla, neppure quelle centinaia di migliaia di uomini. Sapeva che anche loro, come tutto il mondo, si sarebbero inchinati davanti a lei. Lo vedeva accadere nell’occhio della mente: dopotutto era una dea. Viveva in un regno al di sopra degli uomini. Che scelta potevano avere?

Come aveva previsto, si udì un lento sferragliare di armature e uno alla volta tutti gli uomini di fronte a lei si misero in ginocchio, uno dopo l’altro, mentre il rumore metallico delle loro armature si diffondeva nel deserto.

“VOLUSIA!” intonarono sottovoce, continuando a ripeterlo.

“VOLUSIA!”

“VOLUSIA!”

CAPITOLO QUATTRO

Godfrey sentiva il sudore scorrergli lungo la schiena mentre stava intrufolato tra gli schiavi, cercando di rimanere con il gruppo e di non farsi vedere man mano che percorrevano le strade di Volusia. Si sentì un altro schiocco nell’aria e Godfrey gridò di dolore, colpito dalla punta della frusta. La schiava accanto a lui, cui la frustata era destinata, urlò molto più forte: venne colpita in pieno in mezzo alla schiena e inciampò in avanti.

Godfrey la afferrò prima che potesse cadere, agendo d’impulso e sapendo che così facendo rischiava la vita. Lei si ristabilizzò sui piedi e si voltò verso di lui, con il panico stampato in volto. Quando lo vide sgranò gli occhi per la sorpresa. Chiaramente non si era aspettata di vederlo: un uomo con la pelle chiara che camminava libero accanto a lei, senza catene. Godfrey scosse la testa rapidamente e si portò un dito alla bocca pregandola di fare silenzio. Fortunatamente la donna ubbidì.

Si udì un altro schiocco di frusta e Godfrey guardò oltre vedendo i supervisori che si facevano strada nel gruppo frustando gli schiavi senza particolare motivo, evidentemente solo per far sentire la loro presenza. Guardandosi alle spalle notò, proprio dietro di lui, i volti terrorizzati di Akorth e Fulton, con gli occhi che guizzavano attorno e accanto a loro le espressioni calme e determinate di Merek e Ario. Godfrey era meravigliato che quei due ragazzini mostrassero più compostezza e coraggio di Akorth e Fulton, due uomini grandi e grossi, e pure ubriachi.

Continuarono a camminare e Godfrey sentì che si stavano avvicinando alla loro destinazione, qualsiasi essa fosse. Ovviamente non poteva lasciare che arrivassero lì: doveva fare qualcosa quanto prima. Aveva ottenuto il suo scopo, era riuscito ad entrare a Volusia, ma ora doveva liberarsi da quel gruppo prima che tutti venissero scoperti.

Si guardò in giro e notò qualcosa che gli fece balzare il cuore in petto: i supervisori erano ora più raggruppati verso l’inizio della carovana di schiavi. Aveva un certo senso: dato che tutti gli schiavi erano incatenati insieme, non c’era ovviamente nessun posto dove potessero fuggire e i supervisori non sentivano giustamente la necessità di sorvegliare il retro del gruppo. A parte l’unico supervisore che camminava su e giù lungo le righe frustandoli, non c’era nessuno a impedire loro di scivolare via dal retro della carovana. Potevano scappare, svignarsela in silenzio tra le strade di Volusia.

Godfrey sapeva che dovevano agire velocemente, eppure il cuore gli batteva forte in petto ogni volta che pensava di mettere in atto quella mossa coraggiosa. La sua mente gli diceva di andare, ma il suo corpo restava esitante, incapace di raccogliere tutto il coraggio necessario.

Godfrey ancora non credeva che fossero lì, che ce l’avessero veramente fatta a passare entro le mura. Era come un sogno, un sogno che diventava sempre più brutto. L’intontimento causato dal vino si stava dissipando, e più svaniva più lui si rendeva conto che la sua idea era stata profondamente sbagliata.

“Dobbiamo uscire da qui,” bisbigliò Merek chinandosi verso di lui. “Dobbiamo fare qualcosa.”

Godfrey scosse la testa e deglutì, con il sudore che gli bruciava gli occhi. Una parte di lui sapeva che Merek aveva ragione, ma un’altra parte lo costringeva ad aspettare il momento giusto.

“No,” rispose. “Non ancora.”

Godfrey si guardò attorno e vide ogni genere di schiavi incatenati e trascinati attraverso le strade di Volusia, non solo schiavi di pelle scura. Era come se l’Impero fosse riuscito a catturare ogni sorta di razza da ogni angolo del mondo, chiunque non appartenesse alla razza dell’Impero, chiunque non avesse pelle gialla e lucida, imponente altezza, spalle larghe e le piccole corna dietro le orecchie.

“Cosa stiamo aspettando?” chiese Ario.

“Se corriamo in mezzo alle strade,” disse Godfrey, “potremmo essere troppo evidenti. Potremmo anche essere catturati. Dobbiamo aspettare.”

“Aspettare cosa?” insistette Merek con la frustrazione nella voce.

Godfrey scosse la testa disorientato. Si sentiva come se il suo piano stesse crollando.

“Non lo so,” disse.

Svoltarono a un’altra curva e così facendo l’intera città di Volusia si aprì davanti a loro. Godfrey guardò quella veduta sbalordito.

Era la città più incredibile che avesse mai visto. Godfrey, essendo figlio di un re, aveva visitato grosse città, città grandiose e ricche, fortificate. Aveva visitato alcune delle più belle città del mondo. Poche erano in grado di competere con la maestosità di Savaria, di Silesia, o ancor più della Corte del Re. Non si lasciava stupire facilmente.

Ma non aveva mai visto nulla del genere. Era una combinazione di bellezza, potere e ricchezza. Soprattutto di ricchezza. La prima cosa che colpì Godfrey furono tutti gli idoli. Ovunque in giro per la città erano collocate statue di idoli e dei che Godfrey neppure conosceva. Uno sembrava essere un dio del mare, un altro del cielo, un altro delle colline… ovunque c’erano masse di persone che si chinavano davanti ad esse adorandole. In lontananza, torreggiante sulla città, c’era un’enorme statua d’oro che si levava di una buona trentina di metri, raffigurante Volusia. Una grande folla di persone era raggruppata e china attorno ad essa.

Un’altra cosa che sorprese Godfrey furono le strade ricoperte d’oro, brillanti e immacolate, tutto meticolosamente lindo e pulito. Tutti gli edifici erano fatti di pietra perfettamente squadrata, non c’era un solo blocco fuori posto. Le strade della città si allungavano ovunque e la città sembrava distendersi all’orizzonte. Ciò che lo colpì ancora di più furono i canali e i corsi d’acqua che si intrecciavano con le vie, a volte disegnando archi, a volte cerchi, portando le azzurre correnti dell’oceano e facendo da condutture, come l’olio che faceva funzionare quella città. Tutti i canali erano pieni di vascelli dorati e decorati che si facevano aggraziatamente strada lungo quei corsi d’acqua passando tra le strade.

La città era piena di luce che rifletteva dal porto; era dominata dal sempre presente suono delle onde che si infrangevano. Disegnata a forma di ferro di cavallo la città abbracciava la linea della costa e le onde andavano a sbattere dritte contro il suo argine dorato. Tra la luce splendente dell’oceano, i raggi dei due soli sopra di loro e l’onnipresente oro, Volusia decisamente abbagliava gli occhi. A fare da cornice al tutto, all’ingresso del porto, si trovavano due torreggianti pilastri che quasi raggiungevano il cielo, come bastioni di forza.

Godfrey si rendeva conto che quella città era stata costruita per intimidire, per far vedere ricchezza, e faceva bene il suo lavoro. Era una città che mostrava progresso e civilizzazione e se Godfrey non avesse saputo a priori della brutalità dei suoi abitanti, sarebbe stata la città dove lui stesso avrebbe amato vivere. Era così diversa da qualsiasi cosa l’Anello avesse da offrire. Le città dell’Anello erano costruite per fortificare, proteggere e difendere. Erano umili e discrete, come i loro abitanti. Queste città dell’Impero, d’altro canto, erano aperte, temerarie, costruite per dimostrare abbondanza e benessere. Godfrey capiva che aveva senso: dopotutto le città dell’Impero non avevano nessuno da cui temere attacchi.

Godfrey udì del trambusto venire da davanti e quando svoltarono lungo un vicolo e dietro un altro angolo, improvvisamente si aprì un enorme cortile davanti a loro, con il porto alle spalle. Era una larga piazza di pietra, il maggior crocevia della città, con una decina di strade che da qui si dipartivano portando in direzioni diverse. Tutto questo era visibile da uno scorcio attraverso un arco di pietra che si innalzava di venti metri sulle loro teste. Godfrey capì che non appena il gruppo vi fosse passato attraverso si sarebbero tutti trovati all’esterno, esposti insieme a tutti gli altri. Non sarebbero più stati capaci di svignarsela.

Ancora più sconvolgente era il fatto che Godfrey vide schiavi che si riversavano nella piazza da ogni direzione, tutti guidati dai loro supervisori: schiavi da ogni angolo dell’Impero di ogni razza, tutti incatenati, trascinati verso un’alta piattaforma alla base dell’oceano. Gli schiavi stavano in piedi su di essa mentre ricche persone dell’Impero li osservavano attentamente e facevano delle offerte. Sembrava una vendita all’asta.

Un grido di esultanza di levò e Godfrey vide un nobile dell’Impero esaminare la mandibola di uno schiavo, uno schiavo con pelle bianca e lunghi capelli filamentosi e castani. Il nobile annuì soddisfatto e il supervisore si avvicinò slegando lo schiavo, come se avesse appena concluso una transazione d’affari. Il supervisore afferrò lo schiavo per la camicia e lo gettò giù dalla piattaforma. L’uomo volò colpendo con violenza il suolo e la folla esultò soddisfatta mentre diversi soldati si avvicinavano e lo trascinavano via.

Un altro gruppo di schiavi emerse da un altro angolo della città e Godfrey guardò uno schiavo che veniva spinto in avanti: era il più grande, più alto degli altri, forte e in salute. Un soldato dell’Impero sollevò l’ascia e lo schiavo si preparò.

Ma il supervisore si limitò a tagliare le catene e il rumore del metallo che colpiva la pietra riverberò attraverso il cortile.

Lo schiavo fissò il supervisore, confuso.

“Sono libero?” gli chiese.

Ma diversi soldati accorsero e gli afferrarono le braccia trascinandolo alla base della grossa statua dorata che si trovava nel porto, un’altra statua di Volusia con un dito puntato verso il mare e le onde che si infrangevano ai suoi piedi.

La folla si racchiuse attorno a loro mentre i soldati tenevano l’uomo giù, con la testa spinta in basso, il volto schiacciato contro i piedi della statua.

“NO!” gridò lo schiavo.

Un soldato dell’Impero si fece avanti e brandì nuovamente l’ascia, questa volta decapitando l’uomo.

La folla esultò deliziata e tutti si misero in ginocchio inchinandosi a terra, adorando la statua mentre il sangue scorreva sui suoi piedi.

“Un sacrificio alla nostra grande dea!” gridò un soldato. “Ti dedichiamo il primo e più prelibato dei nostri frutti!”

La folla esultò di nuovo.

“Non so te,” giunse la voce nervosa di Merek all’orecchio di Godfrey, “ma io non ho intenzione di farmi sacrificare per qualche idolo. Non oggi.”

Si udì un altro schicco di frusta e Godfrey vide che l’ingresso alla piazza si faceva sempre più vicino. Gli batteva forte il cuore mentre considerava le parole di Merek, capendo che aveva ragione. Sapeva che doveva fare qualcosa, e velocemente anche.

Godfrey si voltò di scatto: con la coda dell’occhio vide cinque uomini con mantelli e cappucci rosso brillante, che percorrevano velocemente la strada diretto verso di loro. Notò che avevano pelle bianca, mani e volti pallidi, la corporatura più minuta rispetto agli enormi bruti della razza dell’Impero. Capì subito chi erano: Finiani. Una delle migliori doti di Godfrey era quella di ricordare i racconti a memoria, anche se ubriaco. Ricordava di aver ascoltato, nel corso delle passate lune, il popolo di Sandara raccontare storie di Volusia mentre sedevano attorno al fuoco. Aveva sentito la loro descrizione della città, la sua storia, di tutte le razze che erano tenute schiave e dell’unica razza libera, i Finiani. L’unica eccezione alla regola. Gli era stato concesso di vivere liberamente, generazione dopo generazione, perché troppo ricchi per essere uccisi, troppo legati, troppo abili nel rendersi indispensabili e di contrattare nel potere degli affari. Erano facilmente riconoscibili, gli era stato detto, per la pelle pallidissima, i mantelli rosso brillante e i capelli rosso fuoco.

A Godfrey venne un’idea. Ora o mai più.

“MUOVETEVI!” disse ai suoi amici.

Si voltò e scattò in azione, correndo via dal retro del gruppo sotto gli sguardi sorpresi degli schiavi incatenati. Fu sollevato di vedere che gli altri lo seguirono appresso.

Godfrey correva sbuffando, appesantito dalle grosse sacche di oro che aveva alla vita, come anche gli altri, facendole tintinnare mentre si muoveva. Davanti a sé scorse i cinque Finiani che svoltavano in uno stretto vicolo. Corse dritto verso di loro e pregò di poter svoltare nella stradina senza essere scorto dagli uomini dell’Impero.

Godfrey, con il cuore che gli martellava nelle orecchie, svoltò a un angolo e vide i Finiani di fronte a sé. Senza neanche pensarci balzò in aria e atterò sul gruppo alle loro spalle.

€3,83
Altersbeschränkung:
16+
Veröffentlichungsdatum auf Litres:
09 September 2019
Umfang:
323 S. 6 Illustrationen
ISBN:
9781632911995
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