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Buch lesen: «La principessa romanzo», Seite 10

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VII

Egli sapea chi avea rubato la bambina e perchè era stata rubata.

Ma un timore acuto, un vero spavento lo colse:

– La bambina vivrà sempre?… E, vivendo, che sarà divenuta tra le mani di que’ manigoldi?

E pensava al marchese di Trapani e a Marco Alboni. Guardò le sbarre della prigione, fissandosi sulla sbarra che avea sì ben limato e che si dovea staccare col muover di un dito.

Ah, che sorpresa per tutti il rivederlo, quando egli, dopo aver gioito dell’incognito, si fosse dato a conoscere!

Enrica credeva lui seppellito per sempre nella tomba di una prigione: dovea aver saputo da Cristina che la sua bambina era morta.

Qual effetto, allorchè egli le sarebbe tornato dinanzi, tenendo per mano la sua figliuola!

Egli ricordava quasi parola per parola il dialogo fra il marchese e Marco Alboni, la sera in cui egli si era nascosto tra le rovine presso il parco di Mondrone.

Non poteva desiderare d’aver indizi maggiori.

Già avea conosciuto a Mondrone il marchese: sapea dove abitava: sarebbe andato dritto in Napoli alla sua dimora.

Ma come farsi riconoscere a sua figlia?

E le avrebbe disvelato chi era sua madre?

Ah, se Roberto avesse saputo l’intimità che correva fra Diana e la principessa, senza che nè l’una nè l’altra potessero immaginare come le unisse un vincolo più stretto di quella loro profonda, scambievole simpatia che, secondo vedremo, per parte della principessa dovea mutarsi in odio furibondo!

Roberto tornava sempre più fervido al pensiero della fuga. Comprendea d’avervi troppo facilmente rinunziato. Ma la promessa da lui fatta all’altro prigioniero? Dovea esser mantenuta: Roberto non era uomo da mancar alla parola data a un infelice.

Bisognava compor le cose in modo che la fuga fosse possibile ad entrambi. In tal guisa, nè ciò cadeva dall’animo di Roberto, aumentavano i pericoli dell’impresa, si facevano quasi insormontabili; e ciò nel punto in cui la fuga era divenuta più necessaria, più ardentemente desiderabile.

S’illudeva che tutto sarebbe ben riuscito; che la buona azione da lui compiuta avrebbe avuta la sua ricompensa.

Con l’altro prigioniero eran rimasti d’accordo che egli tornasse da lui la prima notte in cui facesse molto scuro e vi fosse almeno un po’ di burrasca.

Per ben due notti aspettarono, ansiosamente.

Il cielo era minaccioso, ma non scoppiava il temporale.

Roberto era tornato al suo ufficio: il soprintendente gli volea maggior bene, dopo aver ricevuto la notizia del modo ond’era morto il padre di lui.

S’era sempre più convinto che Roberto fosse nato in mal punto, ingiustamente perseguitato dalla fortuna.

In que’ giorni gli avea ripetuto:

– Caro Roberto, io e la mia famiglia vi siamo affezionati, come se voi foste uno de’ nostri; il mio desiderio più vivo è sempre lo stesso; poter rendervi il contraccambio dell’immenso beneficio da voi ricevuto.

L’indugio al fuggire dava a Roberto molta impazienza, ma comprendeva che non sarebbero state mai troppe le cautele nell’effettuale il suo atto.

La terza notte imperversò la burrasca.

Roberto fece tutti i suoi preparativi: ogni tanto gli sgorgavano dagli occhi lacrime di commozione.

Era giunto il momento, che, per sì lunghi anni, aveva agognato.

Sentì un rumore nel punto della muraglia ove le pietre erano già smosse, e pochi istanti appresso comparve lo scarno, scarmigliato prigioniero.

– Vi dovrò la vita! – disse, appena entrato inginocchioni nella prigione. E protendeva le braccia verso Roberto.

– Alzatevi! – egli disse. – Vi sentite abbastanza forte?

– Oh, sento un’energia, che mi renderebbe capace delle più grandi azioni.

Il momento era solenne. Roberto non proferì più parola e stette in ascolto. La pioggia scrosciava al di fuori. Di tratto in tratto un baleno rischiarava la prigione ove Roberto avea spento il lumicino abbacinato di cui s’era servito fin allora.

– Devono mancare pochi secondi allo scocco dell’ora! – mormorò Roberto al compagno.

Aveva già staccato la sbarra dall’inferriata.

L’orologio suonò, a un tratto, i suoi rintocchi.

– Presto, tocca a voi.... La sentinella a quest’ora si deve essere allontanata.

L’ingegnere Amoretti avea già scavalcato la finestra e afferrata la scala.

– E ora a me! – disse Roberto.

E già i due prigionieri in cuor loro si vedean liberi, salvi.

Il bagliore di un lampo rischiarò in quell’attimo tutta la campagna.

Roberto, dall’alto, vide il gruppo delle sentinelle, che parlavano fra loro, a breve distanza.

– All’armi! – gridò una sentinella.

– All’armi! – gridò un’altra sentinella.

Furono immantinente sparati quattro colpi di fucile.

Subito tutti si svegliarono.

Il primo ad accorrere fu il soprintendente, che udì il rumore degli spari, mentre recavasi a portar una buona notizia al prigioniero che stava vicino a Roberto, all’ingegnere Amoretti, il quale avea ottenuto la grazia, che gli riconcedeva la sua libertà!

VIII

Vediamo un contrasto ad una notte sì burrascosa.

Era una bellissima giornata. Due nostri personaggi, Diana e Adolfo Venosa, parlavano insieme nel giardino che si stendeva dietro al palazzo del marchese di Trapani.

I due innamorati erano nel massimo accordo. Diana sembrava avesse del tutto dimenticato i suoi sospetti di un’intima relazione fra Adolfo e la principessa; o si fosse convinta che avea sospettato a torto.

Parlavano, parlavano l’uno all’altra, e con molta espansione.

Il bel cielo fulgido, i fiori, che mandavano i più soavi e svariati profumi, il canto di due usignuoli, il mormorare di una cascatella, il cui getto argentino scorreva nel mezzo d’un boschetto, eran propizii nel disporre alle confidenze due cuori innamorati.

Giungevano in quel punto a una estremità del giardino.

– Non comprendo, – disse Adolfo, – la tua incurabile tristezza; mi sembra che tu dovresti esser felice.... Sei ricca, circondata da tutto il lusso che si può desiderare, puoi ottenere qualunque cosa tu domandi: appartiene a te l’eredità delle ricchissime parenti di tua madre....

– Ah, appunto, e credi tu possa esser felice una fanciulla, che non ha mai conosciuto sua madre?… Se tu sapessi che cosa vuol dire il veder le altre fanciulle accarezzate, protette dalle loro mamme; il vederle sempre circondate dalle cure di esse, dal loro continuo amore.... Giorni sono ero da alcune mie amiche. Era la festa della loro mamma. Aveano disposto su un tavolino, nel salotto di lei, bellissimi regali consistenti in lavori da loro fatti di soppiatto, per procurar ad essa una sorpresa.... Eran tutte fresche, bene abbigliate. La mamma è entrata all’improvviso, anch’essa rosea e fresca; abbigliata come una fanciulla e sempre bella. Tutto in quella casa spirava contento.... La bella mammina ha visto i regali: ha gettato un grido; poi ha abbracciato e ha baciato a una a una le ragazze. E ridevano tutte insieme; e si facevano domande, si rispondevano fra la mammina e le figliuole.... E la mammina le accarezzava sempre.... Io ho pianto, come piango ora, perchè non ho mai conosciuto tali gioie.... e non le conoscerò mai.... Povera mamma mia.... Dicono che è morta, dandomi alla luce.... in una villa.... Oh!

Diana singhiozzava. E Adolfo, che era buono, sebben leggero, e l’amava, si lasciava andare anch’egli a quella commozione.

– E poi.... sono infelicissima per tanti altri motivi! – disse Diana, rompendo il silenzio, che era durato fra loro alcuni istanti e battendo in terra un piede, in segno d’impazienza.

– Motivi che tu mi tieni segreti! – soggiunse subito Adolfo con un certo piglio di risentimento.

– Non te li ho mai palesati fin ora perchè io stesso pensava che certi miei preconcetti, certe mie antipatie fossero un’ingiustizia.... Ma sento che non posso vincer nè gli uni, nè le altre, e che anzi il tempo rafforza in me certi sentimenti, certe idee....

– Ma, dunque, non potrò io saper nulla?

– Oh, sì: tu devi saper tutto: e confortarmi, consigliarmi, – rispose Diana, abbandonando una delle sue mani fra quelle di Adolfo.

– Parla....

– In questa casa io ho paura!… La sera mi chiudo nelle mie stanze, come se fossi, invece che nella casa paterna, tra’ miei peggiori nemici.... Il marchese, specialmente in certi istanti, m’ispira un certo raccapriccio.... Le sue carezze, i suoi baci mi sono un tormento.... Non sento in lui nulla di quello che una figlia dovrebbe sentire in un padre.... Egli finge alle volte di amarmi, di esser premuroso per me; si vede però l’ostentazione, lo sforzo.... Quando ho sofferto, sin da piccina, non l’ho mai veduto piangere, commuoversi come quando si vede soffrire una persona a cui si vuol bene.... Credi, oh, ho trovato assai più affetto nella principessa.... Ti rammenti il giorno in cui ebbi un po’ di male in uno de’ suoi salotti?… Fu la prima volta che vidi e sentii qualche cosa di veramente affettuoso intorno a me.... Così si deve stare accanto a quelli che soffrono e che si amano!

– Tu, Diana, sei una creatura perfetta....

– E per questo mi si danno tante afflizioni! – ella disse, guardando Adolfo con una certa intenzione.

– Non credevo d’avertene mai date io, – riprese Adolfo, – ma se tu pensi altrimenti, vorrei sapere....

– Oh, tu vuoi saper troppo!

E Diana gli sorrideva: ma tornò presto a rannuvolarsi.

– Dunque, che hai, angioletto?

– Non posso più stare in questa casa.... sento che qualche cosa si macchina contro di me.... Ho sorpreso certi sguardi fra mio padre e l’intendente: quel signor Marco Alboni, che ha l’apparenza di un prete: devoto, bigotto, ma che io credo tristissimo.... Non so come costui sia entrato nella nostra casa e vi abbia tanta preponderanza.... Egli comanda a mio padre....

– Che?

– Un giorno, aprendo all’improvviso la porta di un salotto, ove credevo di ritrovarmi sola, vidi mio padre presso una finestra, che parlava con Marco Alboni, il quale lo minacciava, tenendogli un pugno su una tempia.... E udii pronunziare il mio nome.

Adolfo era diventato pensoso.

– Ti assicuro, – ripigliava Diana, tremando, – c’è qui un’infernale congrega contro di me.

Il Venosa provava un gran turbamento alle parole che Diana gli venia dicendo con sì forte commozione.

Era essa una fanciulla esaltata, che immaginava pericoli ove non erano, con l’animo disposto a soavi tenerezze, che solo l’affetto di una madre avrebbe potuto soddisfare? Oppure, ella davvero si trovava fra gente trista, o spensierata, che non nutriva per lei alcun affetto?

– Credimi, – aggiungeva Diana, vedendo Adolfo sì pensoso, – in questa casa c’è di certo un mistero: e un brutto mistero!

Adolfo era coraggioso, intrepido e l’avea dimostrato ne’ suoi viaggi; dinanzi a un nemico, dinanzi a un pericolo non avrebbe saputo indietreggiare un istante. Il coraggio era stato sempre in lui grande quanto il raccoglimento negli studii.

Ma era senza esperienza della vita: non atto a sbrogliar le fila di un intrigo sociale; lento nel conoscere gli uomini: difficile a supporre il male. Non avea ancora sofferto: non avea mai amato, salvo Diana: e forse l’affetto che nutriva per lei non avea tutto l’ardore, tutto lo slancio di una prima passione.

Per esempio, egli non se n’era mai domandato la ragione: ma al cospetto della principessa tremava, e poteva vedere Diana più volte il giorno, senza sentirsi men tranquillo dell’usato.

Invece l’incontrarsi con la principessa all’improvviso, lo scorgerla avvicinarsi a lui ove non pensava si potesse trovare, l’udirne proferire il nome, bastava a farlo arrossire, ad affrettare i palpiti del suo cuore.

E alla principessa non avea mai fatto, come a Diana, dichiarazioni di amore; essa, senza ch’egli il sapesse, lo avvinghiava ne’ suoi lacci, lo tenea schiavo della sua bellezza sovrana, infiammava i suoi sensi, come a cent’altri, senza ch’egli ne avesse coscienza.

La principessa lo giudicava per un inesperto: e si pigliava giuoco di lui, si divertiva a inebriarlo de’ suoi filtri, a esercitare anche su lui quella tirannia della carne, a cui sapeva dover soggiacere ogni uomo che la vedesse, o ch’ella volesse torturare.

Però, sempre, avea quella vaghezza di mostrare in pubblico ora il suo seno, ora le sue spalle, ora le sue braccia, ora perfino, con studiato pretesto, una parte della sua gamba. Una sera, per recarsi col principe ad un ballo, dato in Napoli dall’ambasciatore inglese, ella si era acconciata da Ninfa. Molti fiori su la testa: una ghirlanda di fiori, a tracolla, che le ricingeva per sghimbescio tutto il suo bel corpo: alcuni tralci di edera soltanto le coprivano il seno, la cui robusta bellezza attirava ogni sguardo: e quel seno procace, palpitante, era toccato da una morbidissima pelle di tigre, che parea carezzarlo e ne facea risaltare la bianchezza. Questa pelle di tigre era cinta alla vita: e su la spalla destra era fermata da tralci di bellissime rose artificiali. La pelle della tigre scendeva poi sin oltre il ginocchio e copriva la gamba destra fin quasi al coturno che essa calzava; la gamba sinistra rimaneva quasi scoperta e si vedea la maglia, che ne disegnava le linee schiette e vigorose. Il principe, quando la vide in tale acconciatura, rimase estatico: essa era una stupenda baccante: poi si dette a gridare ch’egli non l’avrebbe accompagnata alla festa, in tal modo. Il dissidio domestico durò circa un’ora: la principessa usò di tutte le arti, di tutte le sue blandizie: il principe ora le facea una carezza, la baciava, ora la rimproverava: un istante si gettava a’ suoi piedi, poi subito tornava di malumore: ci fu un punto in cui la principessa gli mormorò una parola: lo trasse a sè: e parve che egli, ad una condizione, le promettesse sottoporsi alla sua volontà. Cessarono di parlarsi: si udì nella stanza qualche sospiro: una cameriera, nella stanza vicina, non osava muoversi, ben accorta di quello che accadeva. Essa avea già udito la scena fra il principe e la moglie. E il principe ora, alzatosi, non volea più mantenere la sua parola. Ora non avea più dolcezze, neppure a intervalli; parlava reciso, imperioso.

– Ma non è bene, – gli replicava la principessa col suo piglio da cortigiana, – che tutti vedano come tu hai una moglie, la quale supera le mille e mille donne di Napoli nella bellezza delle forme?… Non ti piace d’essere invidiato?… Non accresce in te il desiderio di avermi, l’orgoglio ch’io sia tua, il vedere, l’udire uno spasimo, un mormorio d’ammirazione intorno a me?… Ah, per un uomo, il poter mostrare a tutti una donna come sono io! – ella diceva con la maggior sicumèra, – e potersi dire di certo: essa mi appartiene.... io sono il suo signore, il suo dominatore, posso farne, a mio grado, la serva, la schiava de’ miei piaceri!… Poichè sono tua, tutta tua, senza resistenza, senza ch’io ti tolga una parte sola della mia bellezza.... Qui, nel silenzio delle nostre stanze, non ti dovrebbe essere una triplice voluttà il ritrovar libere, per te solo, le gioie che tutti t’invidiano?

E parlava, gesticolava com’una vera baccante.

– Non c’è uomo, – gli ripeteva, – che mi piaccia al pari di te.... Non ti potrò esser mai infedele! E poi il marito è il solo a cui una bella donna appartenga veramente.... Gli altri vivono di piccoli furti e hanno tutto a disagio.

– Cortigiana! cortigiana! – ripeteva il principe, e sorrideva, chè in quel tempo, dopo la loro terribile scena, da noi raccontata molti capitoli innanzi, pigliava tutto alla leggera, secondo il suo carattere.

Questa scena, metà ilare, metà seria, fra il principe e la principessa, si svolgeva nell’abbigliatolo di lei, al riflesso di diecine e diecine di candele rosee infisse nei candelabri d’argento, in lumierette di Murano, fra i profumi delle polveri, de’ minii, di essenze inebrianti.

– L’ora è tarda! – disse a un tratto il principe, – decidiamoci.

Fu convenuto che la pelle sarebbe chiusa anche su la gamba sinistra con una stringa d’argento e così fu fatto.

Una cameriera si mise al lavoro; la principessa la occhieggiava maliziosamente. L’altra subito capì.

Per le scale del palazzo dell’ambasciatore, la principessa, con un lieve gesto della mano, avea tolto la stringa.

Entrò nelle sale, mostrando la sua bella gamba. Ella sapea che quella sera il Re dovea essere alla festa: e cominciava allora a cercar di attirarlo a sè. Quel modo di acconciarsi le era sembrato irresistibile. E non s’ingannò.

Pochi giorni appresso, l’ufficiale delle guardie reali, come abbiamo a suo tempo accennato, riferiva a sua sorella, la contessa L…, di aver veduto una mattina, mentr’egli era di servizio, la principessa uscire dagli appartamenti reali, vestita come una piccola modista

Ma non era soltanto pel sovrano, che voleva esercitar questo fascino; le piaceva esser una maliarda per tutti.

Quando usciva a piedi, andava talora per via Lanzieri e per la strada della Pignasecca: e le esclamazioni d’ammirazione, a volte grossolane, di quella gente, che non sta a pesar le parole, e che a vederla, mostrava di sentir i fumi al cervello, la solleticavano.

Andava a posta per quelle strade, affine di sentirsi esaltare, magari in quel linguaggio; e sino una tale specie di corteggiamento, le sapea buono.

In Adolfo Venosa ella avea pure, senza mettervi troppo studio, e a solo diletto, eccitato questa fiamma dei sensi. Non gli avea permesso alcuna intimità; si era accorta che, allorchè egli le dava la mano, tremava; e ne sorrideva. Tuttavia il Venosa serbava intatto, o almeno credea serbare intatto il suo amore per Diana.

Ora, stava in gran titubanza per ciò che essa gli avea detto.

Possibile che il padre di lei non l’amasse!… Possibile che vivesse sotto l’arbitrio di un servitore!

Questo e altro, com’abbiamo notato, egli andava rivolgendo nella mente da alcuni secondi.

Ma Diana incalzava:

– È questo tutto l’aiuto che mi viene da te?…

– Tu mi parli di timori vaghi, di paure, senza soggetto.... Tu mi hai detto ben poco di determinato.... Forse il tuo carattere, a volte molto eccitato, ti fa travedere, o esagerare.... E poi: come vuoi che io possa contrappormi? Con quale autorità? Sono io tuo parente, ho io fin ora qualche ragione, almeno in apparenza, di tutelarti?

– E ciò appunto prova che tu mi ami poco, – rispose Diana con una certa veemenza. – Se tu mi amassi, avresti a quest’ora chiesto a mio padre di sposarmi… E lo farai, senza molto indugio! – disse la fanciulla, con una di quelle attitudini di sovrano comando, che eran proprie alla principessa: tanto che essa e Diana le avresti dette d’una medesima razza, e in quel punto anche Adolfo credette di vedere innanzi a sè Enrica, di udire lo stesso suo tono di voce. – Lo farai e presto: se non vuoi che ogni tuo legame con me sia sciolto.... Non credere io sia una di quelle fanciulle, che si compiacciono di aver un bell’amante e non gli domandano mai di effettuare il fine d’ogni relazione onesta, fra un giovane e una fanciulla: il matrimonio....

Il Venosa voleva parlare.

– Io non m’impongo a te, – disse Diana, che sempre più in quel punto assomigliava alla principessa. – Tu mi hai perseguitato un tempo con le tue occhiate, le tue proteste d’amore, le tue promesse.... Io ti ho dato il mio cuore, ma son pronta a ritogliertelo. Se, in breve, tu non hai fatto questa domanda di matrimonio, cesserà ogni rapporto fra noi.... Io uscirò dalla casa di mio padre e tornerò in convento....

– Ma Diana!…

– È una risoluzione irrevocabile.... Io ti amo, sai, – continuò, addolcendo il tuono della sua voce, – voglio però che mi si spezzi il cuore prima di ridurmi a esser soltanto tua vittima, o il tuo trastullo....

– Se – ripreso Adolfo – io non ti ho chiesta a tuo padre, sai il perchè: perchè egli, più volte, con discorsi assai espliciti, si mostrò, per ora, contrario a qualsiasi tuo matrimonio.

– Ecco appunto dov’è il pericolo! – rispose ardita, animosa la fanciulla. – E tu non devi essere un pusillanime!

Il Venosa era spaventato dall’energia di Diana.

Dubitava fosse accaduto qualche cosa di ben più grave che ella non avesse detto, poichè mai gli era apparsa così risoluta, così smaniosa ed inquieta.

Che potea aver ella sofferto nella sua casa?

Tornava a attribuire certe insistenze al carattere esaltato di lei: ma ciò non lo lasciava in tutto tranquillo.

– Parlerai a mio padre? – riprese Diana, con voce dolcissima; mentre egli le carezzava una mano, la guardava con tenerezza, senza risponderle. – Io ti amo e sento che, nel mondo, posso fidarmi in te solo: che non mi rimane altro aiuto, altro affetto sincero....

Egli si sentiva vincere, ammaliare da quella dolcezza: sentiva la gioia, l’orgoglio d’ispirare una passione sì pura: presagiva la felicità immensa, che gli sarebbe da essa derivata.

Era la prima donna, cui egli avesse parlato d’amore; ed egli era il primo che Diana avesse amato, il solo che ella avrebbe amato.

Erano tutt’e due inesperti nella grande arte dell’amore: quindi facili ai crucci, facili a procurarsi scambievolmente motivi di tortura e di disperazione, secondo il loro carattere; poichè Diana era tutta piena di fervori, di delicate fantasie appassionatissime, il Venosa più riconcentrato e più freddo.

– Ti amerò sempre, – egli disse, – e ti domanderò a tuo padre quando venga il momento opportuno… cioè presto! – disse, ripigliandosi, poichè avea visto il movimento d’impazienza di Diana.

Egli era un po’ irresoluto: la principessa tentatrice, voluttuosa, adescatrice, nella sua scultoria bellezza, gli tornava sempre innanzi.

– Il mio unico desiderio, ti ripeto, – diceva Diana, – è di uscire, in breve tempo, da questa casa.... Mi sembra che non sono in casa mia, ma in una casa d’estranei, dove tutto può capitarmi: ove sono esposta a tutte le offese.... Se tu indugi, io tornerò nel convento ove sono stata educata… ne uscirò non so quando… ma per non rivederti mai più.... È già troppo ch’io ti prego.... È vero che io ti amo, e il fingere, le ipocrisie, le simulazioni volgari, mi parrebbero un’umiliazione.... Ho l’orgoglio della mia passione e della mia virtù....

– Saremo uniti… fra poco, – disse il Venosa, dopo breve riflessione. – Ma se il marchese si opponesse?

Le guancie di Diana diventarono rosse. Sentiva in sè nascere il sentimento della ribellione. Le vennero alle labbra certe parole di sdegno, ma non osò proferirle.

In quel punto Adolfo e Diana svoltavano da un viale; il marchese e Marco Alboni, che erano dinanzi a una finestra, confabulando insieme, scorgevano i due innamorati.

– E quel giovinastro è sempre qui! – esclamò Marco.

– Come vuoi ch’io lo scacci di casa mia! Egli è d’una famiglia di miei antichi amici. E poi, con qual titolo dovrei proibirgli di farmi una visita?… Egli è uno de’ giovani più stimati che sieno in Napoli; alla sua età, ha riputazione fra i dotti, autorità fra i gentiluomini.... E poi: non vedi che, se io gli vietassi di venir qui, susciterei la resistenza di Diana?… Tu credi Diana una fanciulla docile, pronta a essere strumento di tutti i nostri capricci?… Non ti accorgi che ella tollera, ma comprende, che essa non dà in escandescenze, ma rattiene spesso una osservazione, una protesta?… Io leggo nel suo volto lo sforzo che ella fa.... È fina, come tutte le donne, per istinto, non è ancora abbastanza maliziosa per sorridere ove si sentisse disposta a piangere, e viceversa.

– Ma quel giovinetto sarà di ostacolo a’ nostri disegni.... E, se il Re sapesse....

– Oh, il maggior ostacolo sarebbe nel contrariare Diana.... Allora sì che ella si ostinerebbe.... La sua inclinazione verso quel giovane è, fino ad oggi, una fanciullaggine.... Se io mi vi opponessi recisamente, diventerebbe una passione ostinata, una di quelle passioni, che si alimentano dalla caparbietà, dal puntiglio....

– Come ragioni, – Marco era arrivato a dar del tu al suo complice, nella intimità, – quando vuoi che le cose vadano a seconda de’ tuoi desideri!…

– Il giovane, poi, è buonissimo, – continuava il marchese, quasi non avesse udito l’interruzione, – incapace di abusare della innocenza di Diana.... Sono due anime virtuose.... Non altra unione avrebbe potuto esser migliore della loro.... Noi non crediamo se non alla passione volgare: la virtù ha gioie, beatitudini che noi non conosciamo: essa cerca ben lontano, donde noi li cerchiamo, i suoi piaceri ineffabili!…

– Eh, eh, datti anche a far il Tartufo adesso, – disse Marco, battendo su una spalla il marchese, – non venirmi a rubare il mestiere!… Sai ch’io ho regalato ieri al nostro parroco due immagini, due belle statue di stucco.... Il parroco avea aperto una colletta perchè a due altari mancavano le immagini: io le ho comprate: gliele ho offerte.... E la colletta? – mi ha detto. – Spartitela in tanti soccorsi a’ poveri più bisognosi della vostra cura, e tutti ne saremo contenti.... Così fu fatto.... Quando vo in chiesa, la gente mi accenna a dito....

– Che matricolato briccone!

– Non facciamo però digressioni.... Pensa che una sola cosa manca alla tua suprema fortuna… e alla mia: che il Re e quella giovane siano in perfetto accordo: che quella giovane, sì bella e sì poetica, – -aggiungeva Marco con un ghigno, – prenda, per autorità, per influenza, alla Corte, il posto della principessa....

– È una delle ragioni, per le quali lascio che il giovane si mostri sì assiduo con Diana.... La principessa così non avrà sospetti....

– E credi tu che la principessa pensi a Diana, che sospetti di poter essere surrogata da una fanciulla sì inesperta, che si dia briga di sapere se alcuno la corteggia?… Quando il fatto sarà un po’ palese tra’ suoi amici, e che qualcuno di essi, uno zelante, glielo riferirà, desterà la sua gelosia… oh… allora vedrai; ma noi saremo là per vegliare!

– Credi tu poter qualche cosa alla Corte?

– Io posso da per tutto! – rispose Marco con una certa sicumèra. – Chi avrebbe creduto che potessi tanto quanto ho provato di potere? Avreste voi creduto che un uomo misero, stracciato, al quale gettavate, di quando in quando, pochi ducati, avrebbe potuto salvarvi dalla miseria, dall’obbrobrio, dal disonore?… Farvi ricco?… Mi sembra talvolta che sono io il padrone di tutta questa ricchezza, – disse Marco, guardando attorno a sè con una certa baldanza.

– Tu sei sempre a rinfacciare....

– No: no: ma quello che io ho compito, con tanto rischio e pericolo, non va a dirittura dimenticato, – prosegui insolente ed ironico. – Quando io penso, – e tendeva l’indice della mano destra verso Diana, che passeggiava tuttora nel giardino con Adolfo, – ch’io portando via quella ragazza all’ubriaco, cui era stata data in custodia, vi ho procurato tanta fortuna, e sto per procurarvene una tanto maggiore.... Ah, me la ricordo quella sera!… Mi par di vedere l’osteria: di sentire lo scalpitìo de’ cavalli: una carrozza si ferma davanti alla porta: entra nell’osteria un uomo: un buon uomo: beve, ribeve: offre vino a tutti: parla, riparla: racconta che gli hanno affidato una bambina, che è nella carrozza....

– Ma tu mi hai già ripetuta, se non sbaglio, questa storia, punto per punto, mille volte....

– È una storia, che, in tutto il suo seguito, empie di ammirazione me stesso, che pur ne sono il modesto eroe, – ribattè, appoggiando su la parola: modesto!

Il marchese sorrideva con una certa amarezza.

– Modesto, dico, – proseguì l’altro, – perchè non ho cercato grandi ricompense… fin ora: e non mi son vantato con altri di quello che ho fatto… fin ad oggi!

– Ah, non hai avuto grandi ricompense? – esclamò il marchese, che s’irritava ogni volta che Marco tentava su lui un ricatto più forte dell’usato: e si accorgeva ch’ora n’era in procinto. – Non hai avuto grandi, anzi grandissime ricompense?… Ma, ammettiamo pure ch’io ti debba qualche cosa; e che saresti tu, a quest’ora, divenuto senza di me?… Probabilmente saresti tornato ad essere il galeotto Jacopo Scovazzo! Ora qui, ben vestito, ben pasciuto, onorato, rispettato dai galantuomini, ricco già di parecchie diecine di migliaia di lire, non sei contento: vuoi sempre di più, mentre hai quello che non avresti mai sognato di possedere o che ti sarebbe sembrato, sognandolo, il colmo della felicità....

– Dovresti sapere che l’appetito viene mangiando, – rispose Marco Alboni, o Jacopo Scovazzo, protervo, – qui sono inutili le parole sonanti, le belle parole con cui i pari nostri la danno ad intendere alla gente dabbene.... Noi siamo due furfanti.... qui possiamo dirlo già che nessuno ci sente.., su cui i discorsi melliflui, gli appelli alla discrezione, alla temperanza, all’esser morigerati, fan l’effetto della carezza di una piuma su una massa di bronzo.... Noi non ci commoviamo, se non pel nostro utile: e questa è la nostra religione: tutto il resto c’è indifferente.... Sicuro, questi cavalieri, coperti di ferro, – e accennava a’ quadri degli antenati del marchese, appiccati alle quattro pareti della gran sala, – non mi avrebbero forse veduto qui di buon occhio.... Ma la colpa è mia, se ci è voluto un furfante… come me… per salvare, almeno in apparenza, l’onore del loro rampollo: per salvarlo dalla vergogna d’aver un nome infamato, e dalla abiezione di una miseria, inasprita dal disdoro?

– Sono stanco! – mormorò il marchese, cui la collera toglieva quasi il respiro.

– E perchè, dunque, tu mi rimproveri?… Tu dici ch’io sto qui bene e dovrei esser contento della mia condizione?… E tu non stai meglio di me? E non sei ambizioso di farti maggior largo nel mondo, d’inalzarti, anche a prezzo dell’onore di una fanciulla, forse a prezzo della sua felicità, della sua vita?… È vero che di ciò non mi adonto, non penso a commovermi. L’utile, l’utile è la nostra sovrana legge!… La nostra regola è semplice: per star bene noi, non importa se dobbiamo calpestare qualcun altro.... Non è vero?

Il marchese non potea oppugnar certe teorie. Eran le sue, e Marco le avea apprese da lui.

Qualche volta, a tarda ora, o sul far del mattino, tornando dal Club, o da cene con donne e uomini di dubbia fama, egli, che s’era insozzato in tutte le tristi compagnie, ubriaco, mezzo fuori di sè, sciorinava dinanzi a Marco le sue ciniche, fetide dottrine. L’altro, senza faticarsi a formulare certi perversi concetti, li avea sempre messi in pratica.

– Dunque, – concludeva Marco, – anch’io son ambizioso.... Per quanto tempo credi tu voglia io continuare a far il servitore?… Sento anch’io il bisogno di comandare, non ristrettamente com’ora, ma assolutamente… sento il bisogno di non inchinar più la testa dinanzi a nessuno, neppure per semplice apparenza, come faccio a te.... quando gli altri son presenti. È necessario, urge che tu raccolga tutta questa fortuna, che ti è promessa, e a cui tu speri arrivare, perchè io ti presenterò le mie ultime condizioni!