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Buch lesen: «La coscienza di Zeno», Seite 24

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Pochi giorni dopo di aver scritta quella lettera, scopersi che Guido s’era messo a giocare in Borsa. Lo appresi per un’indiscrezione del sensale Nilini.

Io conoscevo costui da lunghi anni perché eravamo stati condiscepoli al liceo ch’egli aveva dovuto abbandonare per entrare subito nell’ufficio di un suo zio. Ci eravamo poi rivisti qualche volta, e ricordo che la differenza del nostro destino aveva costituito nei nostri rapporti una mia superiorità. Mi salutava allora per primo e talvolta cercava di avvicinarmi. Ciò mi sembrava naturale, e invece m’apparve meno spiegabile quando in un’epoca che non so precisare egli si fece con me molto altezzoso. Non mi salutava più e a pena a pena rispondeva al saluto mio. Me ne preoccupai un poco perché la mia cute è molto sensibile ed è facilmente scalfita. Ma che farci? Forse m’aveva scoperto nell’ufficio di Guido ove gli pareva occupassi un posto di subalterno e mi spregiava perciò, o, con la stessa probabilità, si poteva supporre ch’essendo morto un suo zio e lasciatolo indipendente sensale di Borsa, fosse montato in superbia. Nei piccoli ambienti ci sono frequentemente di simili relazioni. Senza che ci sia stato un atto nemico, ci si guarda un bel giorno con avversione e disprezzo.

Fui sorpreso perciò di vederlo entrare nell’ufficio, ove mi trovavo solo, e domandare di Guido. S’era levato il cappello e m’aveva porta la mano. Poi s’era subito abbandonato con grande libertà su una delle nostre grandi poltrone. Io lo guardai con interessamento. Non lo avevo visto da anni tanto da vicino ed ora, con l’avversione che mi manifestava, si era conquistata la mia più intensa attenzione.

Egli aveva allora circa quarant’anni ed era ben brutto per una calvizie quasi generale interrotta da un’oasi di capelli neri e fitti alla nuca e un’altra alle tempie, la faccia gialla e troppo ricca di pelle ad onta del grosso naso. Era piccolo e magro e si ergeva come poteva, tanto che quando parlavo con lui mi sentivo un lieve dolore simpatico al collo, la sola simpatia che provassi per lui. Quel giorno mi parve che si trattenesse dal ridere e che la sua faccia fosse contratta da un’ironia o da un disprezzo che non poteva ferire me, visto ch’egli m’aveva salutato con tanta gentilezza. Invece poi scopersi che quell’ironia gli era stata stampata in faccia da madre natura bizzarra. Le sue piccole mascelle non combaciavano esattamente e fra di esse, da una parte della bocca, era rimasto un buco nel quale abitava stereotipata la sua ironia. Forse per conformarsi alla maschera da cui non sapeva liberarsi che allorquando sbadigliava, egli amava deridere il prossimo. Non era affatto uno sciocco e lanciava delle frecciate velenose, ma di preferenza agli assenti.

Ciarlava molto ed era immaginoso specie per affari di Borsa. Parlava della Borsa come se si fosse trattato di una sola persona ch’egli descriveva trepidante per una minaccia o addormentata nell’inerzia e con una faccia che sapeva ridere e anche piangere. Egli la vedeva salire la scala dei corsi ballando o scenderne a rischio di precipitare, eppoi l’ammirava come accarezzava un valore, come ne strangolava un altro, oppure anche come insegnava alla gente la moderazione e l’attività. Perché solo chi aveva del senno poteva trattare con lei. V’erano tanti di quei denari sparsi per terra in Borsa, ma chinarsi a raccoglierli non era facile.

Lo lasciai attendere dopo di avergli offerta una sigaretta e mi diedi da fare con certa corrispondenza. Dopo un po’ di tempo egli si stancò e disse che non poteva restare di più. Del resto era venuto solo per raccontare a Guido che certe azioni dallo strano nome di Rio Tinto e di cui egli a Guido aveva consigliato l’acquisto il giorno prima – sì, proprio ventiquattr’ore prima – erano quel giorno balzate in alto di circa il dieci per cento. Si mise a ridere di cuore.

– Intanto che noi parliamo qui, ossia che io attendo, il dopo-Borsa avrà fatto il resto. Se il signor Speier ora volesse comperare quelle azioni chissà a quale prezzo dovrebbe pagarle. Come ho indovinato io dove mirava la Borsa.

Si vantò del suo colpo d’occhio dovuto alla sua lunga intimità con la Borsa. S’interruppe per domandarmi:

– Chi credi istruisca meglio: l’Università o la Borsa?

La sua mandibola calò ancora un poco e il buco dell’ironia s’ingrandì.

– Evidentemente la Borsa! – dissi io con convinzione. Ciò mi valse da lui una stretta di mano affettuosa quando mi lasciò.

Dunque Guido giocava in Borsa! Se fossi stato più attento avrei potuto indovinarlo prima, perché quando io gli avevo presentato un conto esatto degli importi non insignificanti che avevamo guadagnati con gli ultimi nostri affari, egli lo aveva guardato sorridendo, ma con qualche disprezzo. Trovava che avevamo dovuto lavorare troppo per guadagnare quel denaro. E si noti che con qualche decina di quegli affari si avrebbe potuto coprire la perdita in cui eravamo incorsi l’anno precedente! Che cosa dovevo far ora, io che pochi giorni prima avevo scritte le sue lodi?

Poco dopo Guido venne in ufficio ed io fedelmente gli riferii le parole del Nilini. Stette a sentire con tanta ansietà che neppure si accorse che io avevo così appreso ch’egli giocava, e corse via.

Alla sera ne parlai con Augusta, che ritenne si dovesse lasciare in pace Ada e invece avvisare la signora Malfenti dei pericoli cui s’esponeva Guido. Mi domandò di fare anch’io del mio meglio per impedirgli spropositi.

Preparai lungamente le parole che dovevo dirgli. Finalmente attuavo i miei propositi di bontà attiva e mantenevo la promessa che avevo fatta ad Ada. Sapevo come dovevo afferrare Guido per indurlo ad obbedirmi. Ognuno commette una leggerezza, – gli avrei spiegato, – giocando in Borsa, ma più di tutti un commerciante che abbia un simile bilancio dietro di sé.

Il giorno seguente cominciai benissimo:

– Tu dunque ora giochi alla Borsa? Vuoi finire in carcere? – gli domandai severamente. Ero preparato ad una scena e tenevo anche in serbo la dichiarazione che giacché egli procedeva in modo da compromettere la ditta, io avrei abbandonato senz’altro l’ufficio.

Guido seppe disarmarmi subito. Avevo tenuto sinora il segreto, ma ora, con un abbandono da buon ragazzo, mi disse ogni particolare di quei suoi affari. Lavorava in valori minerarii di non so che paese, che gli avevano già dato un utile che quasi sarebbe bastato a coprire la perdita del nostro bilancio. Oramai era cessato ogni rischio e poteva raccontarmi tutto. Quando avesse avuta la sfortuna di perdere quello che aveva guadagnato, avrebbe semplicemente cessato di giocare. Se invece la fortuna avesse continuato ad assisterlo, si sarebbe affrettato di mettere in regola le mie registrazioni di cui sentiva sempre la minaccia.

Vidi che non era il caso di arrabbiarsi e che si doveva invece congratularsi con lui. In quanto alle questioni di contabilità, gli dissi che poteva oramai essere tranquillo, perché ove c’era disponibile del contante era facilissimo di regolare la contabilità più fastidiosa. Quando nei nostri libri fosse stato reintegrato come di diritto il conto di Ada e almeno diminuito quello ch’io dicevo l’abisso della nostra azienda, cioè il conto di Guido, la nostra contabilità non avrebbe fatta una grinza.

Poi gli proposi di fare tale regolazione subito e mettere in conto della ditta le operazioni di Borsa. Per fortuna egli non accettò perché altrimenti io sarei divenuto il contabile del giocatore e mi sarei addossata una maggiore responsabilità. Così invece le cose procedettero come se io non avessi esistito. Egli rifiutò la mia proposta con delle ragioni che mi parvero buone. Era di malaugurio di pagare così subito i suoi debiti ed è una superstizione divulgatissima a tutti i tavoli da giuoco che il denaro altrui porti fortuna. Io non ci credo, ma quando giuoco non trascuro neppur io alcuna prudenza.

Per un certo tempo mi feci dei rimproveri di aver accolte le comunicazioni di Guido senz’alcuna protesta. Ma quando vidi comportarsi allo stesso modo la signora Malfenti che mi raccontò come suo marito aveva saputo guadagnare dei bei denari alla borsa, eppoi anche Ada, dalla quale sentii considerare il giuoco come un qualsiasi genere di commercio, compresi che assolutamente a questo riguardo non si avrebbe potuto movermi alcun rimprovero. Per arrestare Guido su quella china non sarebbe bastata la mia protesta che non avrebbe avuta alcun’efficacia se non fosse stata appoggiata da tutti i membri della famiglia.

Fu così che Guido continuò a giocare, e tutta la sua famiglia con lui. Ero anch’io della comitiva, tant’è vero ch’entrai in una relazione d’amicizia alquanto curiosa col Nilini. È sicuro ch’io non potevo soffrirlo perché lo sentivo ignorante e presuntuoso, ma pare che per riguardo a Guido, che da lui aspettava i buoni consigli, sapessi celare tanto bene i miei sentimenti ch’egli finì col credere di avere in me un amico devoto. Non nego che forse la mia gentilezza con lui fosse anche dovuta al desiderio di evitare quel malessere che m’aveva data la sua inimicizia, tanto forte causa quell’ironia che rideva sulla sua brutta faccia. Ma non gli usai mai altre gentilezze fuori di quella di porgergli la mano e il saluto quando veniva e se ne andava. Egli invece fu gentilissimo ed io non seppi non accettare le sue cortesie con gratitudine, ciò ch’è veramente la massima gentilezza che si possa usare a questo mondo. Mi procurava delle sigarette di contrabbando e me le faceva pagare quello che gli costavano, cioè molto poco. Se mi fosse stato più simpatico avrebbe potuto indurmi a giocare col suo mezzo; non lo feci mai, solo per non vederlo più di spesso.

Lo vedevo anzi troppo! Passava delle ore nel nostro ufficio ad onta che – com’era facile di accorgersene – non fosse innamorato di Carmen. Veniva a tener compagnia proprio a me. Pare si fosse prefisso d’istruirmi nella politica in cui egli era profondo causa la Borsa. Mi presentava le grandi potenze come un giorno si stringevano la mano e si pigliavano a schiaffi il giorno seguente. Non so se abbia indovinato il futuro perché io per antipatia non lo stetti mai a sentire. Conservavo un sorriso ebete, stereotipato. Il nostro malinteso sarà certo dipeso da un’interpretazione errata del mio sorriso che gli sarà parso d’ammirazione. Io non ne ho colpa.

So solo le cose che ripeteva ogni giorno. Potei accorgermi ch’egli era un italiano di color dubbio perché gli pareva che per Trieste fosse meglio di restare austriaca. Adorava la Germania e specialmente i treni ferroviari tedeschi che arrivavano con tanta precisione. Era socialista a modo suo e avrebbe voluto fosse proibito che una singola persona possedesse più di centomila corone. Non risi un giorno in cui, conversando con Guido, egli ammise di possedere proprio centomila corone e non un centesimo in più. Non risi, e non gli domandai neppure se guadagnando dell’altro denaro avrebbe modificata la sua teoria. La nostra era una relazione veramente strana. Io non sapevo ridere né con lui né di lui.

Quando aveva snocciolata qualche sua sentenza, si ergeva di tanto sulla sua poltrona che i suoi occhi guardavano il soffitto mentre a me restava rivolto il buco che io dicevo mandibolare. E vedeva con quel buco! Volli talvolta approfittare di quella sua posizione per pensare ad altro, ma egli richiamava la mia attenzione domandandomi subito:

– Mi stai a sentire?

Dopo di quella sua simpatica effusione, Guido per lungo tempo non mi parlò dei suoi affari. Qualche cosa me ne diceva dapprima il Nilini, ma anche lui si fece poi più riservato. Da Ada stessa seppi che Guido continuava a guadagnare.

Quand’essa ritornò, la trovai di nuovo imbruttita parecchio. Era piuttosto imbolsita che ingrassata. Le sue guancie, ricresciute, erano anche questa volta fuori di posto e le facevano una faccia quasi quadrata. Gli occhi avevano continuato a sformare la loro incassatura. La mia sorpresa fu grande, perché da Guido ed altri ch’erano stati a trovarla, avevo sentito dire che ogni giorno che passava le apportava nuova forza e salute. Ma la salute della donna è in primo luogo la sua bellezza.

Con Ada ebbi altre sorprese. Mi salutò affettuosamente, ma non altrimenti di quanto avesse salutata Augusta. Non c’era fra di noi più alcun segreto e certamente essa non ricordava più di aver pianto al ricordo di avermi fatto soffrire tanto. Tanto meglio! Essa dimenticava infine i suoi diritti su di me! Ero il suo buon cognato e mi amava solo perché ritrovava immutati i miei affettuosi rapporti con mia moglie, che formavano sempre l’ammirazione di casa Malfenti.

Un giorno feci una scoperta che mi sorprese assai. Ada si credeva ancora bella! Lontano, sul lago, le avevano fatta la corte ed era evidente ch’essa gioiva dei suoi successi. Probabilmente li esagerava perché mi pareva fosse un eccesso il pretendere di aver dovuto lasciare quella villeggiatura per sottrarsi alle persecuzioni di un innamorato. Ammetto che qualche cosa di vero ci possa essere stato, perché probabilmente ella poteva apparire meno brutta a chi prima non l’aveva conosciuta. Ma già, non tanto, con quegli occhi e quel colorito e quella forma di faccia! A noi essa appariva più brutta perché, ricordando com’era stata, scorgevamo più evidenti le devastazioni compiute dalla malattia.

Invitammo una sera Guido e lei a casa nostra. Fu un ritrovo gradevole, veramente di famiglia. Pareva la continuazione di quel nostro fidanzamento a quattro. Ma la chioma di Ada non era illuminata da alcuna luce.

Al momento di dividerci, io, per aiutarla a indossare il mantello, restai per un istante solo con lei. Ebbi subito un senso un po’ differente delle nostre relazioni. Eravamo lasciati soli e forse potevamo dirci quello che in presenza degli altri non volevamo. Mentre l’aiutavo, riflettei e finii col trovare quello che dovevo dirle:

– Tu sai ch’egli ora giuoca! – le dissi con voce seria. Mi viene talvolta il dubbio ch’io con tali parole avessi voluto rievocare l’ultimo nostro ritrovo che non ammettevo fosse talmente dimenticato.

– Sì – essa disse sorridendo, – e fa molto bene. È divenuto bravo abbastanza, a quanto mi dicono.

Risi con lei, forte. Mi sentivo sollevato da ogni responsabilità. Andandosene essa mormorò:

– Quella Carmen è sempre nel vostro ufficio?

Non arrivai a rispondere perché corse via. Fra di noi non c’era più il nostro passato. C’era però la sua gelosia. Quella era viva come nell’ultimo nostro incontro.

Adesso, ripensandoci, trovo che avrei dovuto accorgermi molto tempo prima di esserne espressamente avvisato, che Guido aveva cominciato a perdere in Borsa. Sparve dalla sua faccia l’aria di trionfo che l’aveva illuminata e manifestò di nuovo quella grande ansietà per quel bilancio chiuso a quel modo.

– Perché te ne preoccupi – gli domandai io nella mia innocenza – quando hai già in tasca quello che occorre per rendere del tutto reali queste registrazioni? Avendo tanti denari non si va in carcere. – Allora, come lo seppi poi, egli in tasca non aveva più nulla.

Credetti tanto fermamente ch’egli avesse legata a sé la fortuna che non tenni conto di tanti indizii che avrebbero potuto convincermi altrimenti.

Una sera, di Agosto, egli mi trascinò di nuovo a pesca con lui. Alla luce abbagliante di una luna quasi piena c’era poca probabilità di pigliare qualche cosa all’amo. Ma egli insistette dicendo che in mare avremmo trovato qualche sollievo al caldo. Infatti non vi trovammo altro. Dopo un solo tentativo, non inescammo neppure più gli ami e lasciammo pendere le lenze dalla barchetta che Luciano spinse al largo. I raggi della luna raggiungevano certo il fondo del mare affinando la vista agli animali grossi e rendendoli accorti dell’insidia ed anche agli animalucci piccoli capaci di rosicchiarci l’esca, ma non d’arrivare con la piccola bocca all’amo. Le nostre esche non erano altro che un dono alla minutaglia.

Guido si coricò a poppa ed io a prua. Egli mormorò poco dopo:

– Che tristezza tutta questa luce!

Probabilmente diceva così perché la luce gl’impediva di dormire ed io assentii per fargli piacere ed anche per non turbare con una sciocca discussione la quiete solenne in cui lentamente ci movevamo. Ma Luciano protestò dicendo che a lui quella luce piaceva moltissimo. Visto che Guido non rispondeva, volli farlo tacere dicendogli che la luce era certamente una cosa triste perché si vedevano le cose di questo mondo. Eppoi impediva la pesca. Luciano rise e tacque.

Stemmo zitti molto tempo. Io sbadigliai più volte in faccia alla luna. Rimpiangevo di essermi lasciato indurre di montare in quella barchetta.

Guido improvvisamente mi domandò:

– Tu che sei chimico, sapresti dirmi se sia più efficace il veronal puro o il veronal al sodio? Io veramente non sapevo neppure che ci fosse un veronal al sodio. Non si può mica pretendere che un chimico sappia il mondo a mente. Io di chimica so tanto da poter trovare subito nei miei libri qualsiasi informazione e inoltre da poter discutere – come si vide in quel caso – anche delle cose che ignoro.

Al sodio? Ma se era saputo da tutti che le combinazioni al sodio erano quelle che più facilmente si assimilavano.

Anzi a proposito del sodio ricordai – e riprodussi più o meno esattamente – un inno a quell’elemento elevato da un mio professore all’unica sua prelezione cui avessi assistito. Il sodio era un veicolo sul quale gli elementi montavano per moversi più rapidi. E il professore aveva ricordato come il cloruro di sodio passava da organismo ad organismo e come andava adunandosi per la sola gravità nel buco più profondo della terra, il mare. Io non so se riproducessi esattamente il pensiero del mio professore, ma in quel momento, dinanzi a quell’enorme distesa di cloruro di sodio, parlai del sodio con un rispetto infinito.

Dopo un’esitazione, Guido domandò ancora:

– Sicché chi volesse morire dovrebbe prendere il veronal al sodio?

– Sì, – risposi.

Poi ricordando che ci sono dei casi in cui si può voler simulare un suicidio e non accorgendomi subito che ricordavo a Guido un episodio spiacevole della sua vita, aggiunsi:

– E chi non vuole morire deve prendere del veronal puro.

Gli studii di Guido sul veronal avrebbero potuto darmi da pensare. Invece io non compresi nulla, preoccupato com’ero dal sodio. Nei giorni seguenti fui in grado di portare a Guido nuove prove delle qualità che io avevo attribuite al sodio: anche per accelerare gli amalgami che non sono altro che degli abbracci intensi fra due corpi, abbracci che sostituiscono la combinazione o l’assimilazione, si aggiungeva al mercurio del sodio. Il sodio era il mezzano fra l’oro e il mercurio. Ma a Guido il veronal non importava più, ed io ora penso che in quel momento le sue viste alla Borsa si fossero migliorate.

Nel corso di una settimana, Ada venne in ufficio ben tre volte. Soltanto dopo la seconda, sorse in me l’idea ch’essa mi volesse parlare.

La prima s’imbatté nel Nilini che s’era messo una volta di più ad educarmi. Essa attese per un’ora intera che se ne andasse, ma ebbe il torto di ciarlare con lui ed egli credette perciò di dover restare. Dopo fatte le presentazioni, io respirai, sollevato che il buco mandibolare del Nilini non fosse rivolto a me. Non presi parte alla loro conversazione.

Il Nilini fu persino spiritoso e sorprese Ada raccontando che si facevano altrettante maldicenze al Tergesteo come nel salotto di una signora. Soltanto, secondo lui, alla Borsa, come sempre, si era meglio informati che altrove. Ad Ada sembrò ch’egli calunniasse le donne. Disse di non saper neppure ciò che fosse la maldicenza. A questo punto intervenni io per confermare che, nei lunghi anni in cui la conoscevo, non avevo mai sentita venir dalla sua bocca una parola che avesse neppur ricordato la maldicenza. Sorrisi dicendo ciò perché mi parve di moverle un rimprovero. Essa non era maldicente perché dei fatti altrui non s’occupava. Dapprima, in piena salute, aveva pensato ai fatti proprii e, quando la malattia l’invase, non restò in lei che un piccolo posticino libero, occupato dalla sua gelosia. Era una vera egoista, ma essa accolse la mia testimonianza con gratitudine.

Il Nilini finse di non prestar fede né a lei né a me. Disse di conoscermi da molti anni e di credermi di una grande ingenuità. Ciò mi divertì e divertì anche Ada. Fui molto seccato invece quand’egli – per la prima volta dinanzi a terzi – proclamò ch’ero uno dei migliori suoi amici e che perciò mi conosceva a fondo. Non osai protestare, ma da quella dichiarazione sfacciata mi sentii offeso nel mio pudore, come una fanciulla cui in pubblico fosse stato rimproverato di aver fornicato.

Io ero tanto ingenuo, diceva il Nilini, che Ada, con la solita furberia delle donne, avrebbe potuto fare della maldicenza in mia presenza senza ch’io me ne accorgessi. A me parve che Ada continuasse a divertirsi a quei complimenti di carattere dubbio mentre poi seppi ch’essa lo lasciava parlare sperando si esaurisse e se ne andasse. Ma ebbe un bell’attendere.

Quando Ada ritornò per la seconda volta, mi trovò con Guido. Allora lessi sulla sua faccia un’espressione d’impazienza e indovinai ch’essa voleva proprio me. Finché non ritornò, io mi baloccai coi miei soliti sogni. In fondo essa da me non domandava amore, ma troppo frequentemente voleva trovarsi da sola a solo con me. Per gli uomini era difficile d’intendere quello che le donne volevano anche perché esse stesse talvolta lo ignoravano.

Non mi derivò invece alcun nuovo sentimento dalle sue parole. Essa, non appena poté parlarmi, ebbe la voce strozzata dall’emozione, ma non già perché avesse rivolta la parola a me. Voleva sapere per quale ragione Carmen non fosse stata mandata via. Io le raccontai tutto quanto ne sapevo, compreso quel nostro tentativo di procurarle un posto presso l’Olivi.

Essa fu subito più calma perché quello che le dicevo corrispondeva esattamente a quanto gliene era stato detto da Guido. Poi seppi che gli accessi di gelosia si seguivano da lei a periodi. Venivano senza causa apparente e andavano via per una parola che la convincesse.

Mi fece ancora due domande: se era proprio tanto difficile di trovare un posto per un’impiegata e se la famiglia di Carmen si trovasse in tali condizioni da dipendere dal guadagno della fanciulla.

Le spiegai che infatti a Trieste era difficile allora di trovare del lavoro per le donne, negli uffici. In quanto alla sua seconda domanda, non potevo risponderle perché della famiglia di Carmen io non conoscevo nessuno.

– Guido invece conosce tutti in quella casa, – mormorò Ada con ira e le lacrime le irorarono di nuovo le guancie.

Poi mi strinse la mano per congedarsi e mi ringraziò. Sorridendo traverso le lacrime, disse che sapeva di poter contare su di me. Il sorriso mi piacque perché certamente non era rivolto al cognato, ma a chi era legato a lei da vincoli segreti. Tentai di dar prova che meritavo quel sorriso e mormorai:

– Quello ch’io temo per Guido non è Carmen, ma il suo giuoco alla Borsa!

Essa si strinse nelle spalle:

– Quello non ha importanza. Ne parlai anche con mamma. Papà giuocava anche lui alla Borsa e vi guadagnò tanti di quei denari!

Io rimasi sconcertato dalla risposta e insistetti:

– Quel Nilini non mi piace. Non è mica vero ch’io sia suo amico!

Essa mi guardò sorpresa:

– A me pare un gentiluomo. Anche Guido gli vuole molto bene. Io credo, poi, che Guido sia ora molto attento ai suoi affari.

Ero ben deciso di non dirle male di Guido e tacqui. Quando mi trovai solo non pensai a Guido, ma a me stesso. Era forse bene che Ada finalmente m’apparisse quale una mia sorella e null’altro. Essa non prometteva e non minacciava amore. Per varii giorni corsi la città inquieto e squilibrato. Non arrivavo a intendermi. Perché mi sentivo come se Carla m’avesse lasciato in quell’istante? Non m’era avvenuto niente di nuovo. Sinceramente credo ch’io abbia avuto sempre bisogno dell’avventura o di qualche complicazione che le somigli. I miei rapporti con Ada non erano ormai più complicati affatto.

Il Nilini dal suo seggiolone un giorno predicò più del solito: dall’orizzonte s’avanzava un nembo, nient’altro che il rincaro del denaro. La Borsa era tutt’ad un tratto satura e non poteva assorbire più nulla!

– Gettiamoci del sodio! – proposi io.

L’interruzione non gli piacque affatto, ma per non dover arrabbiarsi, la trascurò: tutt’ad un tratto il denaro a questo mondo era divenuto scarso e perciò caro. Egli era sorpreso che ciò avvenisse ora mentre egli l’aveva preveduto per un mese più tardi.

– Avranno mandato tutto il denaro alla luna! – dissi io.

– Sono cose serie di cui non bisogna ridere, – affermò il Nilini guardando sempre il soffitto. – Adesso si vedrà chi avrà l’anima del vero lottatore e chi invece al primo colpo soggiacerà.

Come non intesi perché il denaro a questo mondo potesse divenire più scarso, così non indovinai che il Nilini ponesse Guido fra i lottatori di cui si doveva provare il valore. Ero tanto abituato a difendermi dalle sue prediche con la disattenzione, che anche questa, che pur sentii, passò via senza neppur scalfirmi.

Ma pochi giorni appresso il Nilini intonò tutt’altra musica. Era avvenuto un fatto nuovo. Egli aveva scoperto che Guido aveva fatti degli affari con un altro agente di cambio. Il Nilini cominciò col protestare in un tono concitato che egli non aveva mai mancato in nulla verso Guido, neppure nella dovuta discrezione. Di questo egli voleva la mia testimonianza. Non aveva tenuto celati gli affari di Guido persino a me ch’egli continuava a ritenere quale il suo miglior amico? Ma ormai egli era svincolato da qualunque riserbo e poteva gridarmi nelle orecchie che Guido era in perdita fino alla punta dei capelli. Per gli affari ch’erano stati fatti col suo mezzo, egli assicurava che alla più lieve miglioria si sarebbe potuto resistere e aspettare tempi migliori. Era però enorme che alla prima avversità Guido gli avesse fatto torto.

Altro che Ada! La gelosia del Nilini era indomabile. Io volevo avere da lui delle notizie ed egli invece si esasperava sempre più e continuava a parlare del torto che gli era stato fatto. Perciò, contro ogni suo proposito, egli continuò a rimanere discreto.

Nel pomeriggio trovai Guido in ufficio. Era sdraiato sul nostro sofà in un curioso stato intermedio fra la disperazione e il sonno. Gli domandai:

– Tu sei ora in perdita fino agli occhi?

Non mi rispose subito. Levò il braccio col quale si copriva il volto sfatto e disse:

– Hai mai visto un uomo più disgraziato di me?

Riabbassò il braccio e cambiò di posizione mettendosi supino. Rinchiuse gli occhi e parve avesse già dimenticata la mia presenza.

Io non seppi offrirgli alcun conforto. Davvero mi offendeva ch’egli credesse di essere l’uomo più disgraziato del mondo. Non era un’esagerazione la sua; era una vera e propria menzogna. L’avrei soccorso se avessi potuto, ma mi era impossibile di confortarlo. Secondo me neanche chi è più innocente e più disgraziato di Guido merita compassione, perché altrimenti nella nostra vita non ci sarebbe posto che per quel sentimento, ciò che sarebbe un grande tedio. La legge naturale non dà il diritto alla felicità, ma anzi prescrive la miseria e il dolore. Quando viene esposto il commestibile, vi accorrono da tutte le parti i parassiti e, se mancano, s’affrettano di nascere. Presto la preda basta appena, e subito dopo non basta più perché la natura non fa calcoli, ma esperienze. Quando non basta più, ecco che i consumatori devono diminuire a forza di morte preceduta dal dolore e così l’equilibrio, per un istante, viene ristabilito. Perché lagnarsi? Eppure tutti si lagnano. Quelli che non hanno avuto niente della preda muoiono gridando all’ingiustizia e quelli che ne hanno avuto parte trovano che avrebbero avuto diritto ad una parte maggiore. Perché non muoiono e non vivono tacendo? È invece simpatica la gioia di chi ha saputo conquistarsi una parte esuberante del commestibile e si manifesti pure al sole in mezzo agli applausi. L’unico grido ammissibile è quello del trionfatore.

Guido, poi! Egli mancava di tutte le qualità per conquistare od anche solo per tenere la ricchezza. Veniva dal tavolo di giuoco e piangeva per aver perduto. Non si comportava dunque neppure da gentiluomo e a me faceva nausea. Perciò e solo perciò, nel momento in cui Guido avrebbe avuto tanto bisogno del mio affetto, non lo trovò. Neppure i miei ripetuti propositi poterono accompagnarmi fin là.

Intanto la respirazione di Guido andava facendosi sempre più regolare e rumorosa. S’addormentava! Com’era poco virile nella sventura! Gli avevano portato via il commestibile e chiudeva gli occhi forse per sognare di possederlo tuttavia, invece di aprirli ben bene per vedere di strapparne una piccola parte.

Mi venne la curiosità di sapere se Ada fosse stata informata della disgrazia che gli era toccata. Glielo domandai ad alta voce. Egli trasalì ed ebbe bisogno di una pausa per assuefarsi alla sua disgrazia che improvvisamente rivide intera.

– No! – mormorò. Poi rinchiuse gli occhi.

Certamente tutti coloro che sono stati duramente percossi inclinano al sonno. Il sonno ridà le forze. Stetti ancora a guardarlo esitante. Ma come si poteva aiutarlo se dormiva? Non era questo il momento per dormire. Lo afferrai rudemente per una spalla e lo scossi:

– Guido!

Aveva proprio dormito. Mi guardò incerto con l’occhio ancora velato dal sonno eppoi mi domandò:

– Che vuoi? – Subito dopo, adirato, ripeté la sua domanda: – Che vuoi dunque?

Io volevo aiutarlo, altrimenti non avrei neppure avuto il diritto di destarlo. M’arrabbiai anch’io e gridai che questo non era il momento di dormire perché bisognava affrettarsi di vedere come si avrebbe potuto correre ai ripari. C’era da calcolare e discutere con tutti i membri della nostra famiglia e quelli della sua di Buenos Aires.

Guido si mise a sedere. Era ancora un po’ sconvolto di essere stato destato a quel modo. Mi disse amaramente:

– Avresti fatto meglio di lasciarmi dormire. Chi vuoi che ora m’aiuti? Non ricordi a quale punto dovetti giungere l’altra volta per avere quel poco di cui abbisognavo per salvarmi? Adesso si tratta di somme considerevoli! A chi vuoi mi rivolga?

Senza nessun affetto e anzi con l’ira di dover dare e privare me e i miei, esclamai: