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Buch lesen: «Impressioni d'America», Seite 7

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Il piano terreno degli alberghi americani è una succursale della pubblica piazza. E non parlo dell'atrio solamente, ma delle sale sontuosissime, date alla lettura dei giornali, al riposo, al conversare, allo scrivere, degli spacci di liquori e sigari, dell'ufficio telegrafico, e dei locali per lo più sotterranei destinati alla pudica pulizia ed igiene pubblica. Vi sono alberghi dove zampilla nell'atrio, a comodità di quanti passano per la via, una fonte d'acqua ghiacciata purissima, cui tutti possono attingere senza costo di spesa. Qui all'Hotel Russel è così data al pubblico una fonte d'acqua gazosa naturale. Chi aggirandosi per la città è preso da stanchezza, entra nel primo albergo che gli capita, parlo ben inteso dei maggiori, va alla sala di conversazione, che apre spaziose vetriate sulla via, e vi si adagia in comodi seggioloni. Nessuno gli domanda, donde venga nè perchè. La casa appartiene al pubblico. Gli amici, gli uomini d'affari vi si danno convegno. Chi vuol scrivere lettere, trova sulle ampie tavole l'occorrente: quando la carta venisse a mancare ne richiede al commesso che si affretta a fornirgliene in copia. L'intestazione portante il nome e la veduta dell'albergo, ripaga al proprietario la spesa con altrettanta réclame.

La retta nei grandi alberghi americani, varia dai tre ai cinque dollari il giorno, cioè dalle quindici alle venticinque lire. Ma quando si pensi che in parecchi Stati dell'Unione il minimum dei salari è fissato appunto in tre dollari al giorno, si deve riconoscere che quei prezzi non sono cari. Quando poi si ponga mente alle comodità raffinate ed al vivere lauto cui corrispondono, essi appaiono modicissimi. In New-York, costa tre dollari al giorno, la dimora, il vitto ed il servizio, al Fifth avenue hotel, o Albergo del quinto viale, uno dei più centrali, dei più sontuosi e dei meglio riputati della città. Nell'alloggio, è compreso, per lo più il bagno quotidiano. Per tre dollari al giorno, io ho qui una camera stupenda, un gabinetto uso guardaroba, un gabinetto di toeletta ed uno da bagno, dove è sempre copiosissima ad ogni ora l'acqua fredda e la calda. Il letto è congegnato in modo, da tramutarsi durante il giorno in un finto armadio. La cassa dell'intelaiatura dove stanno il saccone e le materassa, sorge girando su cardini e va ad agganciarsi alla spalliera a capo del letto, mostrando sul fondo, una larga specchiera. La camera prende così un aspetto signorile di salotto o di stanza da studio.

Ognuno può fare i suoi pasti all'ora che gli fa comodo. Dalle sette alle nove della mattina è sempre lesta una prima colazione, che comprende a scelta: the, caffè, latte, cioccolatte, carne fredda e verdure in aceto. Dalle undici della mattina alle due pomeridiane è pronto il desinare, che non è dato identico a tutti gli avventori, ma che ognuno può ordinare a piacere purchè si contenga nei limiti di una lista copiosissima, la quale comprende dai cinquanta ai sessanta piatti diversi. A nessuno è fissato il numero dei piatti. Gargantua, potrebbe, volendo, assaggiarli tutti quanti, come potrebbe, quando gli bastasse lo stomaco, desinare alle undici, ridesinare alle dodici, e ridesinare al tocco. Tutto l'ordinamento mangiatorio di quegli alberghi è fondato, come già vedemmo nei Bars, sulla buona fede del pubblico. A me, sull'entrare nelle sale da pranzo, nessuno ha mai domandato nè il nome nè il numero della camera. Entravo e sedevo a mensa, ciò voleva dire che ne avevo acquistato il diritto. Per farla breve, alle quattro è servito un lunch e dalle otto alle dieci di sera una cena, sempre copiosa e lasciata sempre agli avventori la composizione del pasto. Sono però fuori della prestazione normale, le bevande spiritose. Servono in abbondanza e senza aumento di spesa il the ed il caffè caldi e freddi, ma chi voglia pasteggiare a vino o birra deve far conto a parte e far bene i conti colla propria borsa. A noi europei quel gran costo delle bevande di cui soliamo accompagnare il cibo, riesce gravissimo. Gli americani per lo più, sono a tavola d'albergo, bevitori d'acqua pura o d'acque minerali, o di decotti. A pranzi d'invito mescono allegramente i vini rarissimi di Francia e di Spagna, o certi nuovi prodotti di California, che già rivaleggiano cogli europei. In famiglia o sono astemii del tutto o temperatissimi bevitori. Virtuoso preludio a viziose intemperanze. Quel posto in Paradiso che si conquistano coll'astinenza dinatoria, lo riperdono la sera ai Bars, od ai Clubs, dove il demonio prende le sue rivincite ad usura.

Ho incontrato negli alberghi delle minori città una curiosa usanza: ad ogni sesso è data una speciale porta d'ingresso. Gentlemen's entrance da una parte e Ladies' entrance dall'altra. E parlo, s'intenda bene, della vera porta d'ingresso all'albergo aperta sulla via, per modo che il cartello spartitore dei sessi lo possano leggere quanti vi passano. A tanto arriva dunque la bigotteria dei costumi americani? Eppure se v'ha paese dove la provvidenza legislativa ed il carabiniere esercitino sui costumi una vigilanza continua e rigorosa, questo è l'Unione americana. Chi non ha inteso parlare della tutela che le leggi americane concedono alla donna? La denuncia che una donna faccia di una violenza patita, si tratti pure di dolci violenze, è ritenuta, quando non vi siano testimonianze in contrario e quando l'accusato non riesca a dimostrare l'alibi, quale prova sufficiente del fatto. Presso di noi, in difetto di prove concomitanti, il solo diniego dell'accusato vale quanto la sola affermazione dell'accusatore, anzi in realtà vale di più perchè essa basta ad escludere il reato che questa vorrebbe stabilire. Per dirla in termini giuridici, noi ammettiamo sempre in favore dell'accusato, la presunzione juris dell'innocenza, mentre in quest'ordine di reati, l'americano ammette la presunzione juris della colpabilità. Ho inteso molti americani dirmi ridendo che in viaggio, l'inquietudine del trovarsi soli in due di sesso diverso, propria in Europa del sesso debole, negli Stati Uniti si riscontra quasi esclusivamente nel sesso forte. Un uomo danaroso, sia egli giovane o vecchio, che si trovi in vagone a tu per tu, con una donna, specie se la donna è bella, o s'incantona, si atteggia a pudibondo riserbo, e tiene gli occhi bassi come farebbe una educanda, o emigra senza più nel vagone accanto anche a costo di starci a disagio. La cosa va intesa alla grossa e bisogna farci la tara, ma in sostanza la famosa flirtation americana, fa i suoi conti sui rigori legislativi e spesse volte un bel sorriso non è che il primo atto di una procedura giudiziaria in via criminale.

I costumi secondano la legge. In nessun'altro paese, la separazione dei due sessi è così coercitiva come negli Stati Uniti d'America. – Vi sono spettacoli dati alle sole donne, vi sono Club esclusivamente femminili, vi sono caffè e trattorie nelle quali le donne sole possono entrare. Se un uomo ci capita per sbaglio o per ignoranza degli usi locali, ne lo sfrattano con garbo, ma inesorabilmente. E non è a credere che ciò avvenga per timore di intemperanze libatorie. New-York e le altre città dell'Unione sono piene di trattorie promiscue ed astemie dalle quali è bandita ogni bevanda fermentata; dove non si pasteggia che acqua e decotti. Questi ristoranti femminili sono dunque veramente androfobi per sistema.

Tali continue e patenti cautele, farebbero sospettare che l'uomo americano sia affetto di un erotismo insanabile ed irrefrenabile al quale convenga nell'interesse pubblico ed in special modo dello stato civile, opporre i rigori della legge e materiali impedimenti. Invece, a giudicarne di quanto segue nelle vie, nelle vetture pubbliche e nei luoghi di promiscuo ritrovo, io sarei indotto ad attribuirgli una pacatezza erotica rassicurante. – In Europa, dal minore villaggio alla maggiore città, quando passa per la strada una donna bella, i più si voltano a guardarla con ammirazione. Non parlo di propositi e di atti indiscreti ed irriverenti, ma di quella briosa compiacenza che prende delle cose belle quel tanto che appartiene all'aria ed alla luce. Questo non vidi mai seguire in New-York, nè in Chicago, dove gagliardissimi giovani, imbattendosi in fior di ragazze, non le degnano di uno sguardo e le oltrepassano senza avvertirne la bellezza. La quale a farlo apposta è tale che non è facile riscontro nei nostri paesi. E non si dica che quelli sono uomini seri ed affaccendati, perchè una occhiata ammirativa non fa perdere tempo e non svia dai pensieri abituali se non le menti corrotte. Anzi quelle facilità di accensione estemporanea, che lampeggia e svanisce, è propria delle genti operose e sane. E non posso nemmeno attribuire quella astinenza a rispetto, perchè l'ammirazione non è cupidigia e mentre il compiacersi della bellezza è un movimento naturale dell'anima, il rifuggirne è spesso indizio di avvedutezza viziosa ed il non ammirarla è ingratitudine. Sebbene la donna americana sia più spregiudicata e senta di sè più fieramente che in generale l'europea, essa non sdegna apparire ed assapora l'omaggio. Rammento che un giorno mentre camminavo in compagnia di un inglese, lungo il quinto viale che è ora il più elegante di tutta New-York, ci passò accanto una di quelle beltà radiose che spandono intorno la primavera. Ai modi ed al vestire si capiva che non era una cercatrice d'avventure e molte persone la salutavano con rispetto. Le donne americane, le giovani, sono più briose delle nostre; più fiorenti di salute, alte e snelle, esse lasciano apparire nell'andare spedito ed in una non so quale giocondità diffusa per tutto il viso e la persona, la contentezza di vivere. Il mio compagno era un uomo corretto e manierosissimo, ma a quel fulgore di bellezza non potè impedire che gli sfuggisse, a mezza voce, piuttosto pensiero vibrante in parole che apostrofe, questa esclamazione:

– Oh how pretty! Oh quanto bella!

La donna, già passata, l'intese, si voltò, e con moto parimenti irriflessivo rispose ridendo:

– Am I? Lo sono io?

E seguitò affrettando la sua strada: nè l'atto insolito, nè le parole invogliarono l'inglese a seguirla tanto il sorriso era stato misurato e la licenza onesta.

Le leggi e le consuetudini corrispondono più spesso a necessità passate che ad attuali. Si capisce che un popolo venuto formandosi alla maniera che tenne l'americano dovette in tempi non remoti essere sfrenato e violentissimo, e si capisce che i suoi reggitori abbiano per contenerlo raccomandato alle leggi la gentilezza dei costumi. Vige ancora in America una specie di galateo coercitivo la cui osservanza è affidata al policeman. Eppure chi ci sia dimorato alcun tempo deve riconoscere che quel popolo è di gran lunga più educato e contegnoso del nostro. Le vistose cautele sono infatti delle città e dei quartieri vecchi e fuori mano. Dove più urge la vita e splende la pulitura moderna, la promiscuità dei sessi, non sembra nè illecita nè pericolosa. Uomini e donne entrano nei modernissimi alberghi americani, per la stessa porta e nessuno cura sapere dove si spartiscano.

Détroit. – Non volli, non avrei saputo ieri, raccogliere le mie impressioni sulle cascate del Niagara. Ancora mi pareva di sentirne negli orecchi e nella mente il rimbombo. E anche oggi ancora rintronato, so meglio dire la veduta che le sensazioni ch'io n'ebbi. A chiuder gli occhi rivedo l'immenso semicerchio dell'acqua e la piccola boscosa isoletta che lo rompe in due branche disuguali. La vedo sotto il pulviscolo acqueo che le addensa intorno quasi un nimbo lunare e dà ad ogni suo profilo un tremolio adamantino. Quell'isolotto segna il confine fra l'Unione e il Canadà.

A sinistra dell'isola, la cateratta, larga un dugento metri, appartiene allo Stato di New-York, quella a destra, larga oltre i seicento, ai possedimenti inglesi. La prima rompe in linea retta, la seconda s'incurva a ferro di cavallo, e prende infatti questo nome. Sulla riva dell'Unione è la piccola città di Niagara Falls, dissimile affatto dalle sue consorelle americane e non altrimenti industriosa che per passaggio e soggiorno di forastieri contemplativi: una città, che sa di villaggio sul fare ad Interlaken e dell'altre stazioni svizzere di soggiorno estivo; grandi e sontuosi alberghi, botteghe di curiosità locali riferite alle cascate, vetture e guide per le gite d'obbligo ai punti più rinomati. Un ponte sospeso attraversa il fiume dirimpetto alle cascate delle quali ancora riceve gli spruzzi ed il vento. Alto sul pelo dell'acque oltre gli ottanta metri esso è così leggero che al primo passo che ci movete ne tremano le corde, le tavole, ed a voi l'animo ed il piede. Il soffio dell'acque lo fa oscillare di continuo: i giorni di vento esso rulla come una nave, a segno che i pedoni si reggono a stento ed i cavalli imbizzarriscono dalla paura. Dal mezzo del ponte si gode la più ampia e piena veduta delle cascate che dalle rive non appaiono intere. Bellissimo sotto il ponte e per lunga tratta a valle di esso il fiume ribollente incassato fra le sponde altissime, precipitoso ed esprimente una forza scomposta più minacciosa in vista e spaventevole che non sia quella del gran salto.

Dalla riva Canadese dove sorge sull'orlo della cascata un sontuoso albergo sempre avvolto di nebbia iridescente, lo spettacolo è veramente magico. Il muggito formidabile, il tremito continuo della terra, la gigantesca lama verdognola che pare immobile sull'abisso, la nivea schiuma che ribolle nel fondo, le nuvole che ne vaporano di continuo, le roccie brunite dalla secolare politura e rilucenti quale metallo, il volo inquieto di grossi uccelli attirati dal vortice aereo e rifuggenti con sforzi disperati e disordinati, i mille arco-baleni, vi danno insieme una sensazione angosciosa e deliziosa di annichilimento come se foste parte inerte della colossale rovina. La notte al chiaro di luna quella vista ha una seduzione mortale.

Nella bianchezza lunare la forza incomparabile dell'acque assume tutti gli attributi della lascivia e della morbidezza; l'ampio silenzio circostante lascia che sul rombo diluviale che esce dal gorgo, guizzino come saette colorate su fascio luminoso, mille suoni sottili e discontinui come cicaleggi di goccie intermittenti, singhiozzi di rigagnoli ingorgati, parole sommesse di acque sviate dal salto che sembrano rallegrarsi d'averla scampata, e non so quali subitanei battere d'ali.

Nel caso di una torre che scende come un pozzo fino al letto inferiore del fiume, un apparecchio meccanico vi cala nella voragine a mezza altezza e vi depone sopra una rovina di massi giganteschi fra i quali serpeggia un sentiero lubrico e scosceso. Sotto una pioggia torrenziale che non ha difesa di ombrelli, poichè vi s'avventa contro, così dal basso e dai fianchi come dall'alto, quel sentiero conduce ad uno stretto tunnel scavato nella roccia sotto il piano della cascata. Ad un punto, per una larga apertura della parete rocciosa, si vede la massa fluviale passarvi dinnanzi ad arco, vicinissima. La sensazione che nasce in quella vista è profonda, ma lo spettacolo non ha nessuna grandezza. Fa sgomento quel sapersi sotto a tanto volume di acque, ma di queste l'occhio non misura nè l'impeto nè la mole. Una lastra spessa di vetro verdognolo darebbe all'occhio una identica immagine. Tolto il cielo e le sponde lontane e l'abisso, circoscritta la massa acquea dagli orli rocciosi del finestrone, quella veduta, che par tanto immaginosa a parlarne, s'immiserisce ben presto fino a ricordare gli apparati scenici. – Dopo due minuti, il lembo d'acqua vi pare immobile, tanto ne sono uniformi gli aspetti successivi, ed il frastuono, non echeggiato da ostacoli lontani, non vibrante nell'aria aperta, vi dà la sensazione di una sordità per istupidimento. Al più giova entrare in quel tunnel ed affacciarsi a quella sezione di Niagara, per avere all'uscita, centuplicata l'impressione della grandezza. Ma ai grandi spettacoli naturali, non occorrono artifizi ingranditori, e non torna il conto di camuffarsi in veste di palombaro per scompartire il Niagara in casellarii, quando lo sgomento estetico che ne sperate procede dalla sua immensità.

L'inverno, il Niagara attira più gente che l'estate. Ma lo spettacolo delle cateratte ghiacciate è più curioso che imponente. Gli Europei cui sono famigliari i grandi spettacoli alpini, parlano di quella vista in tono di leggiera canzonatura. Ben altri fiumi di ghiaccio, e correnti fra altre sponde e più profondi e minacciosi, e più poderosi motori dell'animo e della mente, rompono a valle dalle creste del monte Bianco e del monte Rosa. Tuttavia nelle cateratte ghiacciate è bello vedere il fiume ancora copioso, scorrere sotto la crosta trasparente, ed udire il rombo della caduta risonare come in tubo metallico, nelle immense caverne di ghiaccio. Gli albergatori s'intende, s'industriano là pure, come in Svizzera, di snaturare le bellezze naturali con razzi di luci diverse che rinfrangendosi nelle conche, sui dorsi e sulle guglie cristalline, improvvisano visioni paradisiache od infernali ed allettano le menti posate e poco immaginose dei praticoni americani col fascino del soprannaturale.

Ma già minaccia alle cateratte del Niagara una trasformazione più reale e durevole. Per quanto sembrino sconfinate le miniere di carbone ancora intatte nelle viscere della terra americana, già ne è calcolato il possibile rendimento e la durata di esso, e già si pensa con inquietitudine al giorno, in cui quei serbatoi avranno esaurita la forza dei soli secolari. Allora converrà imprigionare tutte le acque cadenti e già si sta meditando di anticiparne l'uso a risparmio di carbone. Fu calcolato che la forza sviluppata dalle cateratte del Niagara, basterebbe a mettere in moto tutte le macchine che sono in America. Dieci anni fa, si diceva: tutte le macchine del mondo, il che prova quanto sia stato in dieci anni l'incremento delle industrie negli Stati Uniti. Di questo passo, il valore estetico delle cascate, non tarderà molto a convertirsi in valore meccanico e chissà che le ciclopiche turbine destinate a ricevere tanto urto ed a trasformare in forze formidabili e sminuzzabili all'infinito, non daranno ai sensi educati a riceverla, una impressione estetica altrettanto intensa quanto l'attuale. Noi cominciamo ora, ad avvertire la bellezza artistica delle macchine, che ai nostri padri parevano la negazione dell'arte. La bellezza delle cascate del Niagara consiste già in gran parte, nella loro espressione di forza senza pari.

CAPITOLO VII.
Gli Italiani negli Stati Uniti

Ebbi la prima notizia intorno alla condizione degli Italiani negli Stati Uniti da tre emigranti che incontrai a bordo della Bretagne. Stavamo faticosamente traversando quella plaga oceanica che a bordo chiamavano: Le trou du diable, o le trou de l'enfer, in causa della sua smisurata profondità e che sta ad una giornata di viaggio di qua dai banchi di Terranuova. La formidabile burrasca equinoziale che ci aveva tenuti bloccati al chiuso per cinque giorni, s'era alquanto quietata. Appena il Comandante ebbe fatto levare le chiuse ferrate che ci imprigionavano, quanti ancora eravamo validi a bordo, una cinquantina circa, sopra seicento passeggieri d'ogni classe, salimmo sul ponte, avidi di respirare l'aria aperta e di vedere il grande nemico. Il mare ondeggiava ancora così alto che se non fossimo pur ora usciti dal peggio, l'avrei creduto al sommo dalla tempesta.

Alla vista di un'onda larghissima che sorgeva soleggiata all'orizzonte, un contadino che mi stava vicino gridò a due suoi compagni, in piemontese e coll'accento mio canavesano:

– Té té, varda la Sèra.

La Sèra (la Serra), è una grande collina morenica che s'allinea ad oriente lungo il piano d'Ivrea e lo separa dal Biellese.

Mi voltai di scatto, e quelli seguitando a raffigurare nel maroso la patria collina, vi designavano, nei grossi fiocchi bianchi lucenti al sole, casali e paesi che nominavano giocondamente a richiamo di affetti e di memorie.

– Siete canavesani? – domandai loro in dialetto.

– Sì.

– Di che luogo?

Uno era d'Azeglio e l'altro di Caravino. – È canavesano anche lei?

– Sì, di Parella.

– Allora lei è il signor Giacosa che va in America per la sua opera.

– Appunto.

Lo avevano appreso dai giornali, sapevano che m'ero dovuto imbarcare all'Havre il 4 di ottobre e mi cercavano a bordo. Così cominciammo a discorrere e ci tornammo di poi, quanto durò il viaggio, ogni mattina. Andavano nel Texas, erano in dodici, di cui quattro donne, ma gli altri erano rimasti sotto coperta. Avevano tutti ingannato il tedio dei giorni e delle sere lunghe della burrasca, cantando.

Delle donne una era ragazza, tre avevano seco il marito. I bambini erano rimasti al paese coi nonni, perchè tutti, ben inteso, contavano di rimpatriare. Avrebbero firmato, in America, la prima e la seconda carta di cittadinanza, affermandosi, giusta quanto v'è scritto, disposti a portare le armi contro la patria d'origine.

Tutti gli emigranti, i tedeschi, gli svizzeri, gli irlandesi, i russi ed i pochi francesi, firmano quella carta perchè senza di essa non si acquista il diritto di votare, ed in America chi non ha voto non fa strada. Ma cittadini americani durante la galera del lavoro, sarebbero tornati in Italia cittadini italiani. E cittadini italiani sarebbero prima di essi giunti in Italia i sacrosanti dollari tramutati in moneta alla effigie di quel Re Umberto, che la prima e la seconda carta avrebbe loro imposto di rinnegare.

Il capo della brigata, un uomo sulla trentina, bruno, bassotto, pieno e nervoso, aveva già fatto il viaggio quattro volte. Era partito la prima volta dal paese, franco appena dalla leva, disperato e scioperato. Si era imbarcato a Genova sul primo vapore volto alle Americhe, egli non curava quale, che si trovò essere diretto alla Nuova Orléans. Era subito andato cow-boy che è come dire un misto di mandriano e di scozzone in uno degli sterminati ranchos nel Texas. Là, revolver all'arcione e spesso in pugno, a cavallo da un'alba all'altra, al vento, al sole, alla pioggia, alla neve, si era rotto alla più selvatica vita che ancora si viva al mondo da gente bianca ed alla quale i più destri sono tuttavia gli italiani ed i francesi. Poi di guardiano era salito trafficante, acciuffando e disperdendo più volte la fortuna, finchè un resto di nativa disciplina e l'amore dei suoi lontani lo avevano volto ad industrie meno bellicose. Ora si era assodato in una fattoria di cotoni e vi prosperava. Due anni or sono, in novembre, mentre stava sul lavoro, gli prese un giorno la smania di udire la Messa notturna del Natale nel suo piccolo villaggio canavesano, e partì senz'altro e fu tra l'andata ed il ritorno un viaggio di due mesi. Venuto di poi l'estate scorsa a far gente, non in qualità di impresario che vuol trafficare, ma di parente ed amico cui preme giovare ai suoi, conduceva ora una squadra di volonterosi cui andava di continuo magnificando la prosperità della terra promessa. A sentirlo, nel Texas gli italiani sono tenuti in pregio grande, a differenza di quanto avviene negli altri Stati dell'Unione, eccettuata forse la California. La stessa cosa mi disse più tardi un tedesco dimorante in Austin, la capitale del Texas, col quale feci il viaggio da Buffalo a New-York.

Il Texas, paese agricolo per eccellenza, ha una popolazione ancora scarsa e diradata. Più vasto della Francia, conta, in tutto, meno gente che Parigi. La sua maggiore città non ha 20,000 abitanti. La maggior parte degli abitanti vive nelle fattorie e nei ranchos. Là non possono attecchire le superbe frottole dei Nuovajorchesi, esclamava il mio compaesano, e seguitava:

– Noi andiamo là per lavorare e facciamo con maggiore assiduità lo stesso lavoro che fanno gli inglesi, i tedeschi, i messicani e gli spagnuoli e viviamo la stessa vita. Nessuno guarda dove si alloggia, come si dorme, nessuno ci fa i conti in saccoccia come usano in New-York, o va sindacando se il boccone che mettiamo in bocca è pane o carne, o se è carne di prima o di seconda qualità. In New-York disprezzano quelle povere anime di italiani che vanno intorno raccattando cenci e cocci e vuotando i barili delle immondizie, ma se non fosse di quelli, la bassa città sarebbe in breve così sudicia e pestifera da non potervi dimorare nemmeno i cinesi. Ci chiamano: suonatori d'organetti, quasi che in New-York non fossero più i canzonettisti francesi ed inglesi d'infimo conio ed i clown americani che gli italiani suonatori ambulanti.

Una volta, seguitava il mio compaesano, mentre ero cow-boy, capitai in Midland, che è una stazione (non ferroviaria) in un luogo deserto nel Texas, poco discosto dalla così detta «terra di nessuno» (no man's land). All'osteria fui tirato a giuocare: c'erano parecchi miei compagni, due o tre negozianti messicani ed un grosso impresario di Filadelfia.

Io non volevo giuocare, ma tra il Whisky, le occhiate sprezzanti, le sollecitazioni minacciose e la persuasione di non poterne uscire che a revolverate, dove, solo contro dieci, avrei avuto la peggio, e la nativa indole rischiosa che invano mi sforzavo domare coll'ostinato rifiuto, alla fine ci caddi. Avevo con me il risparmio di due anni ed il frutto di certi miei piccoli traffichi, in tutto 460 dollari, cioè oltre 2300 lire nostrane in tanti scudi d'oro sonanti come usano in California, nel Texas ed in generale negli Stati meno popolosi. Poichè dovevo rischiare, volli che andassero tutti su di un colpo. Li perdetti, ben inteso, e fu affare finito e sul momento mi parve una liberazione. L'impresario di Filadelfia, che era stato dei più insistenti a stimolarmi, non aveva accettata la partita.

Era un ticchio assassino, che per spilorceria armava i pozzi delle miniere con travi tarlate e fradicie, e se ne vantava, onde già gli stavano sulla coscienza parecchi disastri. Quel colpo e la serenità con cui lo sostenni mi valsero la sua stima. Mi si avvicinò, mi porse la mano e mi domandò in tono quasi affermativo:

– French?

– No. Italian.

Mi guardò incredulo: non gli pareva possibile che un «macaroni» un «suonatore d'organetto» un «Degos,» come ci chiamano a titolo d'insulto, potesse gettar via il danaro tanto speditamente; ma si accorse che il suo dubbio mi irritava e credette: mi serrò un'altra volta e mi scosse le mani, uscendo in quelle voci nasali fra l'ah! e l'oh! che esprimono presso gli americani il sommo grado della compiacenza e della approvazione.

Se invece di gettarlo da pazzo a quelle canaglie, io avessi serbato il mio denaro per sollevare le miserie dei miei parenti lontani, in luogo della ammirazione, avrei incontrato il disprezzo di quel trafficante di carne umana. Gli altri, i miei compagni ed i negozianti messicani, mi avrebbero ammazzato piuttosto di lasciarmi astenere dal giuoco, ma se fossi riuscito a cavarmela senza giuocare, non avrei nulla perduto della loro stima. Qui è la differenza fra l'americano delle regioni agricole, ed il vero Yankee incivilito. L'assalto alla fortuna è forse nel Texas e negli altri Stati spopolati più accanito e disperato che nelle città incivilite presso l'Atlantico, ma siccome non la si può altrimenti conseguire che a costo di fatiche fisiche e di privazioni grandissime, non c'è lavoro tenuto per abbietto e non è vergogna il saper indurare, per scorciatoie, gli estremi gradi della miseria. Forse perchè mancano le occasioni di minuto e continuo sperpero, la sobrietà, la continenza e l'economia, non sono tenute in conto di vizii disonorevoli. La mala riputazione degli italiani nelle grosse città, deriva sopratutto dalla loro sobrietà e dalle loro abitudini di economia e di risparmio. Lei, signor Giacosa, esaminerà, sentirà e vedrà se ho ragione e, tornato in Italia darà, a chi vuole emigrare, il buon consiglio di rivolgersi piuttosto agli Stati agricoli che agli industriali.

Il buon consiglio io non oso darlo perchè non ho studî ed esperienza che bastino, ma i fatti esposti, dal mio compaesano mi risultarono esattamente conformi al vero. Se non l'eccesso di ogni virtù è vizio ed ogni Arpagone si gabella per parsimonioso. Il maggior carico che gli americani fanno agli emigranti italiani è di una sordida, degradante ed insanabile astinenza e del loro acconciarsi ai più umili uffici, ai lavori più vili e meno rimunerati. Dal vestire, al cibarsi ed all'alloggiare, la plebe italiana di New-York e di Chicago dà spettacolo di una così supina rassegnazione alla miseria, di una indifferenza così cinica rispetto ai beni ed ai godimenti della vita, che ha solo riscontro, in peggior grado, diciamolo, nei cinesi. Solo riscontro a voler contare la gente che campa di onesto lavoro; che altrimenti, in New-York, la bassa città è piena di pezzenti, scamiciati, luridi, scalzi, sudici, scarmigliati, orribili e terribili, i quali non si sa di che e come nutriti, non ostante le razzie dei policeman, dormono la notte sotto le scalette digradanti nelle vie o sotto il ligneo ponte degli Eleveted o sul nudo lastrico nei vicoli oscuri.

La polizia che dà loro la caccia, e li trasporta, il più delle volte senza che si sveglino, tanto sono piombati nel sonno alcoolico, alle prigioni ed ai ricoveri per briachi, sa che gli italiani fra di essi sono in piccolissimo numero. Lo sa e lo dice. Non è molto, il capo della polizia di New-York affermò pubblicamente che di tutte, la emigrazione italiana è quella che dà il minor contingente agli assassini, ai ladri, ai facinorosi d'ogni specie.

Ma di questo rifiuto della società, l'opinione pubblica americana non tiene conto altrimenti, che per armarsi alla difesa, moltiplicando le prigioni e le sentenze capitali e sperimentando nuovi sistemi di morte. Quando si parla di stima e di sprezzo, si considerano gli elementi vivi ed attivi del corpo sociale. Ora, fra i membri organici della società americana, dobbiamo pur troppo convenirne, gli italiani tengono, nella pubblica stima, se non il penultimo, il terz'ultimo posto. Al disotto di essi, non ci sono che i cinesi ed i negri. Il mio compaesano voleva che questa disistima nascesse da avarizia. Il Yankee, mi diceva, è geloso del denaro americano che gli emigrati italiani mandano ogni anno in Italia. Ne mandano infatti assai più che da noi non si creda. Il console e parecchi banchieri di New-York mi assicurarono, che da quella sola città, sono spediti in Italia, non per traffichi, ma dagli emigranti, dai 25 ai 27 milioni di lire l'anno. Bisogna avvertire però che da ogni punto, si può dire, degli Stati Uniti, il danaro diretto all'Europa, prende la via di New-York. Ma la somma, vistosa specialmente se si consideri da chi proviene ed a chi è destinata, non è in realtà così ingente da impensierire quei formidabili maneggiatori di miliardi presso i quali chi la possegga (sono in loro moneta cinque milioni di dollari) comincia appena a contare per ricco. Al più, dato che gli americani abbiano conoscenza di quell'esodo finanziario, esso nuoce al concetto in cui tengono gli italiani, per ragioni che nulla hanno a che fare coll'avarizia. Il denaro spedito alla terra nativa, annulla quasi le carte di cittadinanza che l'emigrato è indotto a firmare, ed attesta il fermo e perdurante proposito del rimpatrio. Dove vanno i dollari, va il pensiero ed il cuore e andrà più tardi, appena lo potrà, la persona.

Altersbeschränkung:
12+
Veröffentlichungsdatum auf Litres:
30 September 2017
Umfang:
210 S. 1 Illustration
Rechteinhaber:
Public Domain