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Buch lesen: «Il Quadriregio», Seite 25

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CAPITOLO XXI

Della caritá e dell'opere della misericordia corporali e spirituali.

 
        – Amor – diss'ella – è la cagione e 'l fine
        d'ogni vertú e d'ogni atto morale
        e delle cose umane e di divine.
 
 
        E tanto ogni vertú appo Dio vale,
    5 quanto ha d'amore; e quanto d'amor manca,
        convien che la vertú da bontá cale;
 
 
        ch'amore è volontá accesa e franca
        a voler fare; e, mentre l'amor dura,
        nell'operar la volontá mai stanca.
 
 
   10 E questo amor va sempre a dirittura,
        quando elegge per fine e per suo porto
        il Creatore e non la creatura.
 
 
        E cosí alcuna volta anco va torto,
        quando elegge per fine e per suo segno
   15 cosa che manca e che ha l'esser corto;
 
 
        onde, s'alcun prudenza, ovver lo 'ngegno,
        ovver iustizia, ovver mostri fortezza,
        ovver clemenza con atto benegno,
 
 
        e ciò facesse a fin d'aver ricchezza,
   20 non saría questo il buon amor, ch'i' ho detto,
        né quella caritá, che Dio apprezza;
 
 
        ché caritá è un amor perfetto,
        ed è dilezion contemplativa,
        che 'n ciò, che ama, ha Dio per suo obietto;
 
 
   25 ed ogni cosa, o che sia morta o viva,
        ama ed apprezza, in quanto è buona in Dio,
        e sopra tutto Lui, donde deriva.
 
 
        E questa caritá, ch'ora dico io,
        ama il demonio, in quanto da Dio pende
   30 per creatura, e non in quanto è rio.
 
 
        Cosí di grado in grado ella descende,
        amando piú e men, secondo i gradi;
        e quanto trova il ben, tanto s'accende.
 
 
        Ma, perché amor, se tu diritto badi,
   35 sta in congiunzion stretta e perfetta,
        quando è onesta e fuor degli atti ladi
 
 
        questa coniunzion cosí costretta,
        chiunque la rompe, separa o disparte,
        convien che grave offesa egli commetta.
 
 
   40 Però, mirando quanto a questa parte
        la caritá è altramente ordita,
        ed altramente il suo amor comparte,
 
 
        prima ama Dio, che l'esser e la vita
        dona alla mente, e poi ama se stesso,
   45 ché nulla cosa ha l'uom piú che sé unita;
 
 
        poi ama i genitor dopo sé appresso,
        e li figli, la donna e li nepoti,
        secondo il grado loro ovver processo.
 
 
        In questo amor, se tu attento noti,
   50 vertú, natura e caso altrui coniunge,
        quando è onesto e con atti divoti.
 
 
        E, quando questo amor va alla lunge,
        se caritá lo scalda e fállo grande,
        a' peccatori ed a' nemici adiunge.
 
 
   55 Non ch'a lui piaccian l'opere nefande,
        ma, 'nquanto uomini, gli ama e per essi òra,
        ed a ben far ancor la man lor spande.
 
 
        La caritá appar perfetta allora
        laggiú nel mondo, quando è sí accesa,
   60 che del suo iniuriante s'innamora.
 
 
        E, perché la vertude s'appalesa
        nell'operar, cosí si manifesta
        nell'operar la caritá, c'hai 'ntesa,
 
 
        che 'l pover pasce e che dona la vesta
   65 a chi è nudo, e visita e dá aiuto
        a quello, il qual l'infermitá molesta;
 
 
        e va al prigion, che 'n carcere è tenuto,
        e che sia liberato e sia disciolto s'adopra
        con favore e con tributo;
 
 
   70 anco è da lei 'l pellegrin raccolto,
        e fa che 'l morto di terra si copre,
        facendo aiuto perch'e' sia sepolto.
 
 
        E fuor di queste sonno anco sette opre
        di spirital pietá laggiuso in terra,
   75 che per grandezza a queste van di sopre.
 
 
        Prima riprende il prossimo, quando erra,
        soavemente; e, s'e' non si corregge,
        d'asprezza e poi d'accusa gli fa guerra.
 
 
        L'altra consiglia con senno e con legge,
   80 il prossimo drizzando in la via dritta,
        quando sta in dubbio e non sa che si elegge.
 
 
        L'altra conforta poi la mente afflitta,
        l'animo roborando a pazienza,
        che vince, se a terra non si gitta.
 
 
   85 La quarta dá il dono della scienza
        allo ignorante, il nobile tesoro,
        che piú che la ricchezza ha d'eccellenza.
 
 
        La quinta prega per tutti coloro
        che sonno viator nel mortal mondo,
   90 e per color che stanno in purgatoro.
 
 
        L'altra sopporta il gravissimo pondo
        de' viziosi e chi mal si nutríca
        col mal costume e col vivere immondo;
 
 
        ché, dacché 'l vizio ha la vertú nemica
   95 e fagli sempre oltraggio, or quinci pensa
        se a sopportar li rei è gran fatica.
 
 
        L'altra rimette e perdona ogni offensa.
        Queste due sempre son l'opre pietose,
        che Caritá giú nel mondo dispensa.
 
 
  100 Alza la mente omai all'alte cose,
        ch'io ti dirò, ch'agl'intelletti bassi
        per troppa sottigliezza son nascose.
 
 
        Sappi che amor sempre move li passi
        dietro al conoscimento; e, se ben note,
  105 senza esso gli atti del voler son cassi;
 
 
        ché amar si posson ben cose rimote
        dagli occhi e dalli sensi, ma non mai
        s'aman le cose all'intelletto ignote.
 
 
        Quanto è 'l conoscimento, o poco o assai,
  110 del ben, che move ed ha 'l voler piacente,
        tanto s'accende amor, di cu' udito hai.
 
 
        E, perché 'l mondo ovver la mortal gente
        non ben conosce le cose del cielo,
        però non l'ama ben perfettamente;
 
 
  115 ché non posson veder se non col velo
        de' sensi lor, sí come vede il vecchio
        al lume fioco d'un piccol candelo.
 
 
        E, perché veggion Dio sol nello specchio,
        il Creator nelle sue creature,
  120 però l'amor laggiú non ha parecchio
 
 
        a questo di quassú, che aperte e pure
        vede este cose e che da Dio procede
        ogni altro bene e tutte altre nature.
 
 
        Or veder puoi ch'amor sempre col piede
  125 va dietro al bene, e tanto ha 'n sé augumento,
        quanto el conosce e quanto in bontá eccede.
 
 
        Or mira ben a quel ch'ora argumento:
        che, quando amor pervien col suo desire
        al sommo Ben, che 'l posa e fa contento,
 
 
  130 giammai da quello amor si può partire,
        ché nulla displicenzia è che 'l rimova,
        ed ogni complacenzia ha nel fruire.
 
 
        E, dacché ogni dolcezza quivi trova
        e che quel sommo Bene è infinito,
  135 sempre la mente trova cosa nova.
 
 
        Cosí contentasi il doppio appetito,
        in pria la mente e poi la volontade,
        ché l'uno e l'altro ha ciò, che ha concupito.
 
 
        La mente ve' la prima veritade
  140 nella prima cagion, dalla qual vène
        ogni altro effetto ed ogni altra bontade.
 
 
        La volontá, che ha sete d'aver bene,
        lo gusta e beve quivi in la sua fonte,
        ch'eternitá e securtá contiene.
 
 
  145 Però chi vede Dio a fronte a fronte,
        convien che abbia caritá compiuta,
        se ben ha' inteso le parole cónte.
 
 
        Ma giuso in terra è fredda e diminuta,
        sinché, illustrata di lume sereno,
  150 alzará 'nsino a Dio la sua veduta.
 
 
        Per satisfarti ancora ben appieno,
        benché sia in cielo amare Dio necesse,
        non però il libero arbitrio è qui meno;
 
 
        però che quei, che stan nel beato esse,
  155 amano Dio con volontá amorosa,
        se ben hai 'nteso le parole espresse;
 
 
        ch'amor e volontá è una cosa,
        ed a quel pasto, ove l'amor si pone,
        il voler anco libero si posa.
 
 
  160 E, perché 'n Dio è tutta la cagione,
        che ad amar la volontade move,
        la qual si move sempre a cose bone,
 
 
        però, quand'ella ha lui, non va altrove,
        sí come fa la pietra ovvero il foco,
  165 quand'egli giunge al suo proprio dove,
 
 
ché ogni cosa ha posa nel suo loco. —
 

CAPITOLO XXII

La Caritá mena l'autore nel cielo e tratta delle cose superiori ed eterne.

 
        Il grato e bel parlar, ch'ella facea,
        mi fu interrotto da dolci armonie
        d'un canto d'angel dentro una corea.
 
 
        Per questo ad alto alzai le luci mie,
    5 mosso dal cantar dolce e sí giocondo,
        che mai in terra simile s'udíe.
 
 
        Veder mi parve allora un miglior mondo
        e tanto bello, che questo, a rispetto,
        è una stalla ed un porcile immondo;
 
 
   10 ché questo è brutto, e quel polito e netto:
        lassú son le cagion, qui son gli effetti:
        quel signoreggia, e questo qui è subietto.
 
 
        Quando tra canti e tra tanti diletti
        trovarmi vidi ed essermi concesso
   15 di vedere tanti angel benedetti,
 
 
        venne la mente mia quasi in eccesso
        pel iubilo soave e tanti balli
        di miglia' d'angel, ch'io mi vidi appresso.
 
 
        – Fa', fa' che tosto le ginocchia avvalli
   20 – disse la scorta mia, – e riverente
        va', come a suo signor vanno i vassalli. —
 
 
        Allor m'avvidi e non tardai niente;
        e, quando appresso fui, m'inginocchiai
        prostrato in terra tutto umilemente.
 
 
   25 Un angel bello, ch'era de' primai,
        mi die' la mano, e, quando mosse il riso,
        di luce sparse intorno mille rai.
 
 
        – Noi siam qui posti, e sempre in paradiso
        vediamo Dio; e lí la nostra vista
   30 sempre contempla il suo eternal viso.
 
 
        Per volontá del nostro primo Artista
        agli uomini del mondo siam custodi,
        che ancor combatton nella vita trista
 
 
        contra il prince mundan, che 'n mille modi
   35 lor dá battaglia, el drago Satanasso
        con suoi satelli e con sue false frodi.
 
 
        Da noi è retto ciò che sta giú abbasso:
        ciò, che consiglia il senno di Parnaso,
        se noi vogliam, s'adempie o viene in casso;
 
 
   40 ché ciò, che è laggiú fortuna o caso,
        vien di quassú da quel primo consiglio,
        che mai ebbe orto, né avrá occaso.
 
 
        E, se in terra, ch'è un granel di miglio
        rispetto al ciel, son sí le cose belle,
   45 talché fan lieto il core ed anco il ciglio,
 
 
        che debbe esser quassú, onde son quelle?
        Qui son gran regni e spiriti divoti,
        rettor di questi cieli e delle stelle.
 
 
        Non fece Dio li lochi ad esser vòti,
   50 ma per empirli; ed adornò ciascuno,
        ratto che gli ebbe fatti, se ben noti.
 
 
        Sub terra pose il fratel di Neptuno
        e li metalli e l'anime nel duolo
        tra lochi sulfurigni e l'aer bruno,
 
 
   55 e gli animali nel terrestre suolo
        e l'erbe e i frutti, acciocché nutricare
        possa la madre terra ogni figliolo.
 
 
        E fece l'acque ed adunolle in mare,
        e poscia l'adornò di vario pesce,
   60 che va notando tra quell'acque chiare.
 
 
        E fece Dio che ogni fiume n'esce,
        ed anco v'entran tutti i fiumicelli;
        né però manca il mar giammai, né cresce.
 
 
        E su nell'aer pose i belli uccelli,
   65 e, dove fa la grandine, in quel loco
        parte di que' che funno a Dio ribelli.
 
 
        Nel quarto regno, elemento del foco,
        fe' il purgatoro, dove li fedeli
        ristorano il pentir, il qual fu poco.
 
 
   70 Fe' dieci regni poi tra questi cieli
        e gl'ordini degli angel quassú pose,
        pien di fervore e d'amorosi zeli.
 
 
        E l'universo in tal modo dispose,
        che, quanto piú si sale inver' l'altura,
   75 piú grandi e piú perfette son le cose.
 
 
        Tra gli elementi il foco ha men mistura;
        tra i cieli quei c'han maggiori contegni
        insino al primo, il qual è forma pura.
 
 
        Di sopra a noi sono amplissimi regni
   80 di Troni e Principati e di Cherúbi;
        e, quanto stan piú su, piú sonno degni.
 
 
        Tu li vedrai, se tanto alla 'nsú subi;
        ed ogni regno n'ha mille migliaia,
        ed hanno il paradiso in ciascun ubi. —
 
 
   85 E poscia tutta quella turba gaia
        ricominciôn lor canti e lor tripudi
        con splendore, che 'l sol par ch'ognun paia.
 
 
        O uomini mundan, mortali e rudi,
        perché tardate su al ciel venire
   90 per la via aspra e dolce di vertudi?
 
 
        La scorta mia a me cominciò a dire:
        – Se altro vuoi veder qui, presto mira,
        ché omai debbiamo ad altro ciel salire. —
 
 
        Allor mirai e vidi come gira
   95 la figlia di Latona il Zodiáco
        e come giú sopra gli umori spira,
 
 
        e, come quando è 'n coda o in co' del draco,
        che per la terra il suo fratel non sguarda,
        il lume suo si oscura e fassi opaco.
 
 
  100 Vidi quando è veloce e quando tarda,
        e come a poco a poco si raccende,
        e come per vapor par pur ch'ell'arda.
 
 
        Poscia al secondo ciel, che piú risplende,
        dall'amorosa scorta io fui condotto;
  105 e questo l'altro circonda e comprende.
 
 
        Lí sta Mercurio, e l'animo fa dotto
        nell'eloquenza ed anco signoreggia
        sopra agli attivi nel mondo di sotto.
 
 
        E, perché l'epiciclo suo attorneggia
  110 il volto al Sole, il suo lume minore
        fa Febo che nel mondo non si veggia;
 
 
        ché sempre mai la luce e lo splendore
        convien ch'offuschi, manchi e che s'appochi
        alla presenza del lume maggiore.
 
 
  115 Angeli e santi io vidi in mille lochi
        giranti su e giú ed ire a danza,
        con canti dolci ed amorosi invochi:
 
 
        canto, che tanto quel di quaggiú avanza,
        che, poi che io torna' al mondo diserto,
  120 ogni dolce armonia m'è dissonanza.
 
 
        E, perché ben ridir non posso aperto
        quello ch'io vidi, vuol però la musa
        ch'io ponga fine al mio parlar coperto.
 
 
        Il suo comando a me fará la scusa,
  125 e che nel mondo il ben non è inteso,
        dove la 'nvidia la vertude accusa.
 
 
        Dacché san Paulo, quando fu disceso
        dal terzo ciel dell'amorosa stella,
        di quell'arcano, il qual avea compreso,
 
 
  130 a' mortali non disse altra novella,
        se non: – Io fui e vidi ed io udii
        cosa, che di quaggiú non si favella; —
 
 
        chi dir potrebbe degli angeli pii
        e della venustá, che 'n lor si spande,
  135 che, a rispetto dell'uom, paiono dii?
 
 
        O palazzo di Dio, tanto se' grande,
        che mille miglia e piú 'l Zenitte muta,
        quando avvien ch'un quaggiú un sol passo ande.
 
 
        E, poscia che ogni sfera ebbi veduta
  140 e l'anime salvate e i Serafini,
        de' quai narrare appien la lingua è muta,
 
 
        tra le lor vaghe rime e soavi ini,
        tra l'allegrezze e modulosi canti,
        tra dolci suoni e piú vari tintíni,
 
 
  145 la scorta mia mi fe' salir sí avanti,
        che io pervenni a quel supremo regno,
        ove piú splende Dio e li suoi santi.
 
 
        – O sommo Ben – diss'io, – a cui io vegno,
        benché sia verme e vilissima polve,
  150 non mi scacciare e non mi aver a sdegno.
 
 
        Risguarda al peccator, ch'a te si volve;
        e, s'è rimaso in lui anco alcun rio,
        sola la tua piatá è che l'absolve. —
 
 
        Quando questo ebbi detto, io vidi Dio
  155 e chiar conobbi ch'era il sommo Bene,
        il qual contentar può ogni disio;
 
 
        e che era il primo prince, da cui viene
        ogni verace effetto, e sua potenza
        ha fatto tutto, e solo egli el mantiene.
 
 
  160 La sua grandezza e sua alta eccellenza
        sol egli la comprende e tanto abonda,
        che nulla mente n'ha piena scienza.
 
 
        Chi piú a contemplarlo si profonda
        nel mar di Dio, e chi piú addentro beve,
  165 ancora si ritrova in su la sponda.
 
 
        E, perché 'l corpo l'anima fa grieve,
        non molto stetti, che, pel suo comando,
        in terra fui posato lieve lieve.
 
 
        Cogli occhi lacrimosi e sospirando,
  170 io mi ricordo di quei lochi adorni;
        e 'l volto alzando al cielo, i' dico: – Oh quando
 
 
será, mio Dio, il dí che a te retorni!
 

NOTA

I

Il poema frezziano, composto tra la fine del sec. XIV e il principio del XV, ebbe non meno di trenta trascrizioni e non piú di dieci ristampe.

È inutile che io parli di cinque trascrizioni, che sono o irreperibili o assolutamente perdute; né vale la pena di tener conto di due brevissimi frammenti di codici, che si trovano uno a Firenze e l'altro a Oxford. Gli altri ventitré, per la maggior parte, furono redatti nel sec. XV, e tra essi quelli di data certa sono sette, cioè:

1° il cod. 989 della Biblioteca Universitaria di Bologna, col titolo Liber de Regnis, con l'attribuzione a Niccolò Malpigli a principio e con la data del 1430;

2° il cod. Conv. Soppr. C. I. 505 della Nazionale Centrale di Firenze, col titolo aggiunto Quatriregio del decursu della vita umana, con l'attribuzione a «Federico vescovo della cittá de Foligni» e con la data del 1449;

3° il cod. Ashb. 565, della Laurenziana, con in fine l'indicazione di Libro de quatro reami, la stessa attribuzione precedente e la data del 1461;

4° il cod. Cappon. n. 70 della Naz. Centr. di Firenze, col titolo Libro de' regni, adespoto e con la data del 1464;

5° il cod. Ashb. 372 della Laurenziana, col titolo precedente, adespoto e con la data del 1469;

6° il cod. Magliab. II. II. 35 della Naz. Centr. di Firenze, col titolo precedente, adespoto e con la data del 1474;

7° il cod. Class. n. 124 di Ravenna, col titolo precedente, adespoto e con la data del 1476.

Appartengono anche al sec. XV i seguenti 12 codici del Quadr. senza data, cioè:

1° il cod. Ottobon. 2862 della Vaticana, con in fine l'indicazione Liber de quattuor regnis e l'attribuzione a Federico vescovo di Foligno;

2° il cod. Palat. 343 della Naz. Centr. di Firenze, col titolo marginale Quatriregio del decursu della vita umana, con l'attribuzione precedente;

3° il cod. Class. n. 231 di Ravenna, col titolo Libro di regni e con l'attribuzione precedente;

4° il cod. Ashb. 1287 della Laurenziana, col titolo Quadriregio del decurso della vita umana e con l'attribuzione precedente;

5° il cod. Riccard. 2716, col titolo Libro de' regni e senza nome d'autore;

6° il cod. Magliab. II. II. 34, col titolo precedente e adespoto;

7° il cod. 1346 della Biblioteca Pubblica di Lucca, col titolo moderno Quadriregio e con uguale attribuzione a Federico Frezzi;

8° il cod. ora Cora di Torino, col titolo Federghina, giá posseduto dal Convento di S. Michele presso Venezia;

9° il cod. 1454 dell'Angelica di Roma, col titolo Liber magistri Federici;

10° il cod. Canonic. n. 37 della Bodleiana di Oxford, col titolo Libro de Regni e adespoto;

11° il cod. 10424 del British Museum di Londra, col titolo precedente e adespoto;

12° il cod. Hamilton 265 della R. Bibl. di Berlino, col titolo precedente e adespoto.

Appartengono al sec. XVI:

1° la trascrizione Gaddiana contenuta nel cod. XXXII, plut. LXXXX della Laurenziana, col solito titolo Libro de Regni, senza nome d'autore e con la data d'un esemplare precedente perduto (1493);

2° il cod. Segniano XIX della stessa biblioteca fiorentina, col titolo suddetto e senza data.

Appartiene al sec. XVII la trascrizione contenuta nel cod. C. X. 16 della Comunale di Siena, col titolo Quadriregio, con l'erronea attribuzione a Ludovico Frezza e mutila in fine.

In ultimo, appartiene al sec. XVIII il cod. Palat. 344 della Naz. Centr. di Firenze, col titolo Libro de Regni, adespoto, senza data ed esemplato sull'Ashb. 372.

Naturalmente, fra tutti codesti codici, i piú importanti sono quelli redatti nel 400, di cui occorrerebbe stabilire la genealogia, per poter rintracciare il piú antico e il piú vicino all'autografo frezziano, che non si conosce; ma l'impresa è per molte ragioni difficile, e non so se troverá mai uno studioso di buona volontá, che se l'assuma e l'assolva.

Quanto poi alle stampe del poema, la serie cominciò alla fine del sec. XV con la Perugina, fatta da Stefano Arns, nel 1481, in caratteri gotici, intitolata Quatriregio del decurso della vita umana, esemplata sul cod. Palat. 343 e fornita dell'attribuzione a Federico vescovo di Foligno: bella, ma non poco scorretta. La seconda è quella apparsa nel 1488 a Milano pei tipi di Antonio Zarotto, anch'essa in caratteri gotici, con lo stesso titolo e con la stessa attribuzione, e quindi figlia legittima della Perugina precedente. Seguí quasi certamente un'edizione fiorentina senza data e senza nome d'impressore, in caratteri rotondi, con titolo e attribuzione uguali alle altre, ma con indizi di affinitá maggiore alla Perugina e con qualche notevole novitá, di cui non si può stabilire la provenienza. La quarta ristampa si ebbe nel 1494 a Bologna per opera di Francesco De Regazonibus, che non fece altro se non ricalcare le orme dell'anonimo editore fiorentino, e di suo aggiunse soltanto il titolo isolato nel r. della prima carta: Libro chiamato Quatriregio del decorso della vita umana in terza rima.

Alle quattro edizioni quattrocentesche tennero dietro tre altre nel primo 500, e sono: quella impressa nel 1501 a Venezia da Piero da Pavia e discendente dalla Bolognese, quantunque presenti molti errori tipografici ed abbreviature in piú; quella uscita a Firenze nel 1508 per cura intelligente di Piero Pacini da Pescia, col titolo Quatriregio in terza rima volgare, cioè del Reame temporale e mondano di questo mondo etc., in caratteri rotondi e con la stessa attribuzione delle altre, ma anche con molte pregevoli silografie e con molti utili richiami in margine, e assai piú corretta e moderna della Fiorentina senza data, che l'editore sembra abbia tenuto presente; e la seconda ristampa veneziana del 1511, fatta da editore ignoto, scorrettissima e con indizi manifesti di discendenza diretta da quella del 1501.

Dopo codeste edizioni, il poema giacque dimenticato per piú di due secoli, e solo nel 1725 apparve una nuova ristampa pei tipi di Pompeo Campana di Foligno, in due volumi e col doppio titolo di Quadriregio o poema de' quattro regni di monsignor Federigo Frezzi etc., che, condotta con metodo affatto nuovo, pur non rispondendo a tutte le esigenze della critica moderna, superò tutte le altre. Di essa, che fu l'unica edizione del poema nel 700, dirò meglio in séguito. Basterá qui ricordare che, quando si volle nel secolo successivo ridare alla luce il Quadriregio, non si fece che riprendere il testo folignate e ripresentarlo quasi tal quale sotto una veste tipografica piú moderna. Cosí si ebbero i due Quadriregi, pubblicati nel 1839 dall'Antonelli di Venezia e inseriti, con lievi differenze, nella doppia collezione in formato diverso del suo Parnaso classico italiano.

II

La fortuna di questo poema non è tutta nelle sue redazioni manoscritte e nelle sue ristampe. Se nel sec. XVII esso non fu cosí letto e studiato come nei secoli precedenti, sorse appunto in quel tempo la famosa controversia sulla sua paternitá per opera del Montalbani, allora possessore del codice ora 989 dell'Universitaria bolognese. E l'affermazione gratuita di lui, che il Quadriregio fosse opera del Malpigli, passata dapprima inosservata, accolta poi senza discussione anche dai maggiori letterati del primo Settecento, provocò le piú ampie riserve da parte del Crescimbeni e suscitò un grande rumore e una grande attivitá nel seno dell'accademia folignate dei Rinvigoriti, fintanto che il Canneti, che ne era magna pars, pubblicò nel 1723 la sua nota Dissertazione, nella quale con abbondanza di argomenti restituiva il poema al suo legittimo autore Federico Frezzi. Seguí a breve distanza la ristampa folignate, cui si è accennato, giá preparata da gran tempo dalla stessa accademia con la collazione di piú codici ed edizioni precedenti, e accompagnata da un ricco corredo di commenti del Pagliarini, del Boccolini, del Canneti stesso e dell'Artegiani, che diede anche il primo e maggiore impulso alla ricerca delle fonti del poema frezziano. E si deve a quell'importante e raro lavoro collettivo del primo Settecento, se il poema tornò ad essere oggetto di studio da parte del Palermo, del Marchese, del Rajna e del Mazzi, che ne parlarono nei loro scritti; se nel 1878 fu compreso fra i testi spogliati e citati dalla Crusca nel suo Vocabolario; e se in séguito si discorse di esso piú ampiamente nelle opere di divulgazione letteraria e di critica, che sarebbe qui troppo lungo ricordare. Venne poi il Fornaciari a fare in una rivista fiorentina del 1883 un'ampia esposizione del Quadriregio messo in relazione col poema dantesco; e pochi anni dopo il Faloci-Pulignani, nella sua monografia su Le lettere e le arti alla corte dei Trinci, presentava i frutti di speciali ricerche da lui compiute sulla vita e l'attivitá letteraria del Frezzi. Si occupò, in séguito, del poeta folignate L. Frati nello scritto intorno a Nicolò Malpigli e le sue rime, aggiungendo nuovi argomenti alle stringenti conclusioni del Canneti sulla paternitá del poema; di lui si occupò ancora il Crocioni, esaminando i Dialettismi del Quadriregio; e una serie di studi diversi sull'opera frezziana pubblicava dal 1903 l'autore di questa Nota. Ricorderò fra essi: 1° I codici del Quadriregio (in Boll. di storia patria per l'Umbria, vol. X, fasc. III.); 2° La materia del Quadriregio (Menaggio, Baragiola, 1905); 3° Le edizioni del Quadriregio (in Bibliofilia, voll. VIII e IX); 4° Il P. C. Lodoli M. O. a proposito d'un codice del Quadr. da lui posseduto (in Miscellanea francescana del dicembre 1910); 5° Un'accademia umbra del primo Settecento e l'opera sua principale (in Boll. di storia patria per l'Umbria, voll. XIII-XVIII, pubbl. anche a parte in due volumi con aggiunte e indici speciali). Un nuovo e notevole contributo allo studio delle fonti frezziane diede L. F. Benedetto nel volume Il Roman de la Rose e la letteratura italiana, pubblicato nel 1910 ad Halle, in cui dedicava alcune pagine importanti alle relazioni tra la prima parte del Quadriregio e il libro francese. Nel 1911 B. Gilardi dava alla luce alcuni suoi Studi e ricerche intorno al Quadriregio di Federico Frezzi (Torino, Lattes), che veramente ben poco di nuovo e di esatto contengono. Poco dopo, chi scrive riuniva sotto il titolo di Varietá frezziane (Udine, Vatri, 1912) alcuni saggi sullo stesso poema giá sparsamente pubblicati, a cui aggiungeva una monografia su L'ottava edizione del Quadriregio nel carteggio fontaniniano (da lui consultato nella Capitolare di Udine), colmando cosí una lacuna del citato lavoro sull'Accademia folignate dei Rinvigoriti. Ed ora si annunzia una monografia di A. Pellizzari Riflessi danteschi nel Trecento, in cui si discorrerá a lungo dell'imitazione della Commedia nel poema frezziano.

III

Gli editori del 1725, come ho giá detto, non si contentarono di riprodurre il testo di una delle vecchie ristampe del poema, e per la prima volta ne costituirono uno nuovo, che riuscí molto diverso e migliore. A questo giunsero con l'esame del cod. Palat. 343 (allora Boccoliniano), dei due codd. Class. 124 (allora Estense) e 231, del cod. Bol. Univ. 989 (allora Beccariano), nonché delle edizioni precedenti (meno la Milanese, che non conoscevano), e specialmente della Perugina, facendo conoscere agli studiosi anche le varianti non accettate. Ma quel lavoro critico, certamente faticoso e in gran parte lodevolissimo, se piacque agli eruditi del tempo, non poteva accontentare in tutto e per tutto quelli di epoca piú a noi vicina, che vedevano in esso troppo ingentilito l'aspetto linguistico del poema rispetto alla rozzezza dialettale delle precedenti edizioni, e vi trovavano ancora molti luoghi oscuri, una punteggiatura spesso inesatta e altri difetti minori. Se quell'edizione insomma ha maggiore importanza delle altre, non può avere il valore di definitiva, anche per il limitato numero di codici consultati dal Canneti, che piú direttamente degli altri si occupò della critica del testo.

Ciò posto, sarebbe stato conveniente, nell'apprestare una nuova ristampa del Quadriregio, non curarsi piú che tanto della Folignate e procedere alla formazione d'un nuovo testo su altri manoscritti autorevoli. Ma questo avrebbe imposto una fatica tutt'altro che lieve (si tratta di 12101 verso!); né lievi sarebbero state le difficoltá per riunire e consultare in un luogo solo il maggior numero possibile di codici appartenenti a tante biblioteche italiane e straniere. Miglior partito, quindi, mi è sembrato quello di riprendere ora come base del nuovo il testo del poema edito nel 1725 e correggerlo col soccorso di altre lezioni non esaminate o non apprezzate da quegli editori, e coll'uso dei mezzi suggeriti dalla moderna critica filologica. E questo è ciò che io ho fatto scrupolosamente libro per libro, canto per canto, verso per verso.

Fra i codici del Quadriregio ancora inosservati e tuttavia importanti ho scelto quello segnato Conv. Soppr. C. I. 505 della Nazionale Centrale di Firenze e l'Ashb. 372 della Laurenziana, che sono dei piú antichi e meglio redatti. E li ho tenuti presenti dal principio alla fine del poema, ma specialmente in quei luoghi, in cui il Canneti accenna alle varianti dei codici da lui consultati. Per i luoghi poi piú oscuri e dove non credevo sufficiente codesto materiale a stabilire una lezione persuasiva, son ricorso anche ad altri manoscritti, e precisamente agli Ashb. 565 e 1287 e all'Angel. 1454. Ciò però non vuol dire che in molti altri casi, in cui il Canneti non ci ha dato le varianti dei quattro codici da lui esaminati, io non abbia fatto appello anche ad essi, com'era necessario.

Alla collazione dei codici suddetti ho creduto opportuno aggiungere quella di qualche antica ristampa. E poiché il Canneti non aveva tenuto conto della Milanese del 1488, pensai subito di metterla a profitto io; ma, oltreché questa non differisce, come ho detto dianzi, dalla Perugina, è anche rarissima, e credo che in Italia non si trovi che la copia posseduta dall'Ambrosiana di Milano. Piú vantaggioso, certamente, sarebbe stato tener presente la Fiorentina del 1508; ma anche questa è divenuta molto rara e di difficile consultazione. Dato quindi lo scarso valore della Fiorentina senza data, della Bolognese e delle due Veneziane, del 1501 e del 1511, non restava che servirmi della Perugina, che, per quanto giá studiata dal Canneti nel 1725, poteva essermi utilissima e illuminarmi su molte cose da lui trascurate. Infatti essa conserva piú genuina la forma dialettale delle parole umbre e quella umanistica delle parole derivate dal latino, e, pur essendo irta di errori d'interpretazione e di stampa, pur mancando di qualche terzina e di ogni segno d'interpunzione, pur avendo versi incompleti o troppo lunghi e rime inesatte, offre ancora una quantitá notevole di varianti, oltre quelle giá notate dal Canneti. Io l'ho esaminata con grandissima cura e me ne sono valso in numerosi luoghi, che qui indicherei, se non dovessi impormi una certa brevitá. Ho tenuto anche conto delle scarse correzioni apportate al testo del poema dalle due edizioni del 1839, che non sono però neanch'esse prive di nuovi errori.

A tutti codesti testi mss. e stampati devo se in molti luoghi il senso è stato chiarito o semplificato con l'uso prudente delle varianti, con l'inversione delle parti di alcune frasi, con l'aggiunta di qualche parola, che nella edizione folignate non si trova, e con la soppressione di altre, che il Canneti aveva creduto di conservare o d'inserire. Ecco un elenco sommario di versi, che hanno subito piú o meno notevoli cambiamenti di codesto genere: