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Buch lesen: «I Vicere», Seite 12

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Improvvisamente, ella ebbe conferma dei propri sospetti: rispondeva così quand’era colto in fallo, replicava con le violenze alla ragione; troncava la discussione coi gridi… Appoggiata la fronte a un vetro sul quale la nuova pioggia fine fine tirava umide righe, ella si mise a piangere silenziosamente. Il bene che gli voleva, l’obbedienza che gli prestava, la devozione sommessa di cui gli dava prova ogni giorno non bastavano, dunque: tutto era inutile, egli la sfuggiva, la tradiva, per chi?… E l’aveva costretta ad abbandonare la sua bambina e l’aveva esposta ai rimproveri di suo padre, per questo, per questo!… Un dolore sopra l’altro, sempre, sempre, anche adesso che ella avrebbe dovuto esser sacra per lui, perché i dolori potevano uccidere la creatura che stava per nascere!…

La voce di Raimondo, rauca, che chiamava il cameriere, la strappò all’alba di lì. S’era messo a letto, il ribrezzo della febbre gli faceva battere i denti. Allora ella asciugò le lacrime, corse ad assisterlo. Per tre giorni non lasciò un momento il suo capezzale, gli fece da infermiera e da cameriera, dimenticando la propria ambascia pel terrore che quel male degenerasse nella pestilenza influente, restando sola presso di lui quando, insospettiti, nessuno della famiglia volle più entrarci. Tremavano all’idea del contagio, avevano tutti paura di prenderlo. Raimondo più di tutti, nonostante le risate confortative del dottore, nonostante le assicurazioni di lei.

Guarito dell’infreddatura, egli non ebbe più nulla; però non era ancora del tutto ristabilito che pretese andar fuori.

«Fàllo per noi!» scongiurò Matilde, a mani giunte; «per nostra figlia! Non t’esporre a un altro malanno!…»

Non gli aveva detto nulla dei suoi sospetti, per non irritarlo mentr’era infermo, ma ora gli buttava le braccia al collo, gli diceva, guardandolo negli occhi, passandogli una mano sui capelli:

«Dove vuoi andare? Perché mi lasci? Resta con me!»

«Voglio far due passi; mi sento bene…» rispose, solleticato da quelle carezze, da quella sommessione di cane fedele.

«Li faremo insieme nella vigna. Non c’è bisogno di andar fuori, se è vero che mi vuoi bene… me sola!… e che non pensi ad altri…»

«A chi dovrei pensare?…» esclamò Raimondo, con un sorriso fatuo di compiacimento.

«A nessuna?… A nessuna?… A colei?»

«Ma a chi?»

«Alla Galano?…» quel nome le bruciava le labbra.

«Io?» rispose con tono di protesta. «Ma neanche per sogno!… Vorrei un po’ sapere chi ti mette in capo queste cose!»

«Nessuno! Le temo io, perché ti voglio bene, perché sono gelosa…»

Egli rideva di tutto cuore, rassicurandola.

«Ma no! Che ti salta in capo!… E poi, l’Agatina!… Una che è di tutti, di chi la vuole!…»

«È vero? È vero?… Allora, perché ci vai?»

«Ci vado perché mi diverto, perché è come andare al caffè, al circolo…»

«Allora, la sera che prendesti l’infreddatura…»

«M’inzuppai perché l’acqua mi colse alla Ravanusa; puoi domandarne, se non mi credi!»

Sì, ella gli avrebbe creduto, se la dolcezza con cui la trattava non fosse stata nuova, innegabile prova che aveva qualcosa da farsi perdonare… Ebbene, che le importava, se era per questo? Qualunque fosse il sentimento che gli dettava quelle parole, esse erano buone, la toglievano, almeno per poco, al suo cordoglio. E con l’anima che riaprivasi alla speranza, ella lo udiva proporle:

«Del resto, ora che il colera sta per finire, andremo via tutti. Quando avrò sistemato gli affari della divisione con Giacomo, ce ne torneremo a Firenze. Ma per ora, se vuoi, faremo una corsa a Milazzo. Partorirai a casa tua; ti piace?»

6

«Abbas!… Abbas!…» disse il fratello portinaio, inchinandosi.

«Che significa?» domandò, allo zio Priore, Consalvo che il padre conduceva per mano.

«Vuol dire che l’Abate è in convento,» spiegò Sua Paternità.

Su per lo scalone reale, tutto di marmo, il ragazzo guardava le pareti decorate di grandi quadri a mezzo rilievo di stucco bianco sopra fondo azzurrognolo: San Nicola da Bari, il martirio di San Placido, il battesimo del Redentore, con sciami d’angeli in giro, corone, festoni e rami di palme sulla vòlta. Lo scalone sbucava nel corridoio di levante, dinanzi alla grande finestra che metteva nella terrazza del primo chiostro.

«È là,» disse il Priore, inchinandosi verso un’ombra nera che passava dietro i vetri.

L’Abate, dall’esterno, attaccò il viso al finestrone e riconosciuti i visitatori esclamò, gestendo:

«Apri, apri, Ludovì…»

Il Priore fece girare la spagnoletta e presa la mano del superiore la baciò rispettosamente; il principe e il principino seguirono l’esempio.

«Benedetti, figliuoli, benedetti!… Questo è dunque il nostro monachino? Oh, che bel monachino ne vogliamo fare!… Consalvo, eh?» domandò rivolto al principe; poi, al ragazzo: «Consalvo, tu sei contento di stare con noi, che?…»

«Rispondi!… Rispondi a Sua Paternità…»

Il ragazzo disse, guardandolo in viso:

«Sì.»

«Bravo!… Che bel ragazzo!… Che occhi!… Tu starai qui con lo zio, crescerai buono e santo come lui, che?…» e mise affabilmente una mano sulla spalla del Priore, il quale mormorò, arrossendo:

«Padre Abate!…»

Questi s’avviò, appoggiandosi al bastone. Il Priore gli stava alla destra, il principe alla sinistra: Consalvo era andato ad affacciarsi all’inferriata, guardava giù nel chiostro contornato da un portico che reggeva la terrazza superiore, pieno di statue, di vasche dove l’acqua cantava, di sedili distribuiti fra le aiuole simmetriche, con un padiglione in centro, di stile gotico, a quattro archi, la cui vòlta di lastre lucide faceva specchietto al sole. Il ragazzo curiosava ancora quando suo padre lo chiamò: la comitiva dirigevasi al quartiere dell’Abate, posto accanto a quello del Re, nel corridoio di mezzogiorno, dove ogni uscio era sormontato da grandi quadri rappresentanti le vite dei santi. Giunto dinanzi alla sua porta, l’Abate diede qualche ordine al cameriere, poi tutti si diressero al Noviziato, pel corridoio dell’Orologio lungo più di cento canne, il cui finestrone di fondo pareva piccolo, dall’opposta estremità, come un occhio di bue. Passarono dapprima accanto al secondo chiostro, il quale aveva il portico al primo piano e la terrazza al piano superiore come l’altro; anch’esso coltivato: tutt’un boschetto di aranci e di cedri dal fogliame scuro che i frutti d’oro punteggiavano. Poi si lasciarono dietro il Coro di notte dove sbucava un’altra scala, poi l’orologio; né il corridoio finiva ancora. L’Abate, tra il principe e il Priore, chiacchierava con una volubilità straordinaria, seminando il discorso di «che?…» aspirati ai quali non lasciava dare risposta. I fratelli che incontravano lungo il loro cammino si fermavano tre passi innanzi alla comitiva, chinavano il capo giungendo le mani sul petto al passaggio dei superiori. E sulla porta del Noviziato stava fra’ Carmelo, che scorto il ragazzo gli aprì le braccia con aria festosa, esclamando:

«C’è venuto!… C’è venuto!…»

Padre Raffaele Cùrcuma, il maestro dei novizi, venne incontro all’Abate, e gli fece strada fino alla sala delle lezioni dov’erano riuniti tutti i fanciulli, Giovannino Radalì fra gli altri, da sei mesi a San Nicola.

«Questo è il nostro nuovo monachino,» spiegava Sua Paternità. «Abbraccia il cuginetto!… La tua camera è pronta, or ora ci andremo. Adesso tu lascerai il tuo nome; ti chiamerai Serafino. Il tuo cuginetto si chiama Angelico, che?… Questo qui è Placido, questo Luigi…»

Erano frattanto arrivati due camerieri con vassoi pieni di dolci, ai quali i novizi facevano festa.

«Vedrai che è bello, qui,» diceva il maestro al nuovo arrivato, accarezzandolo. «Ti divertirai, con tanti compagni…»

Consalvo chinava il capo, lasciava che dicessero. La curiosità del primo momento gli era passata, sentiva adesso una gran voglia di piangere; nondimeno guardava tutti in viso, quasi in atto di sfida, per non darla vinta a suo padre che aveva per forza voluto ficcarlo lì dentro. E fra’ Carmelo era stupito della sua franchezza: tutti gli altri ragazzi, il primo giorno, avevano gli occhi rossi, dicevano che non volevano starci, piangevano immancabilmente quando il barbiere recideva le loro chiome, quando lasciavano gli abiti secolari per vestire la nera tonacella. Invece il principino, andato via suo padre dopo l’ultimo predicozzo, li lasciava fare, vedeva cadere i capelli sotto le cesoie senza dir nulla, indossava il saio come se l’avesse portato fin dalla nascita.

«Bravo!… Sempre così contento ha da starci!… Vedrà poi quanti giuochi, quanti spassi…»

Il ragazzo rispose, duramente:

«Io sono il principe di Francalanza; non sempre ci starò.»

«Sempre?… Chi l’ha detto?… Ci starà qualche anno, finché imparerà… Sempre ci stanno i suoi zii… Adesso, adesso andremo da Padre don Blasco…»

E presolo per mano, gli fece rifare la via tenuta al venire, fino alla camera del Decano, che era nel corridoio di mezzogiorno, col quadro di San Giovanni Boccadoro sull’uscio.

«Deo gratias?…»

«Chi è?» rispose il vocione del monaco.

L’uscio s’aperse un poco, ed egli comparve, in pantaloni e maniche di camicia, con la pipa in bocca, in mezzo alla camera sottosopra come un campo lavorato.

«Qui c’è il nipotino di Vostra Paternità, che viene a baciar la mano alla Paternità Vostra.»

«Ah, sei qui?» esclamò il monaco, nettandosi le labbra col rovescio d’una mano. «Va bene, tanto piacere!» aggiunse senza fargli neppure una carezza; poi, rivolgendosi al fratello: «Conducetelo a spasso nella Flora.»

Dopo tante grida contro l’ignoranza e la mala educazione del pronipote, il monaco era montato in bestia quando il principe aveva deciso di metterlo a San Nicola. Ce lo mettevano per educazione? Voleva dire che non erano buoni di educarlo in casa! Allora aveva ragione lui quando diceva che davano al ragazzo di begli esempi? Ma Giacomo voleva mettere il figlio a San Nicola anche per gli studi: come se gli Uzeda avessero mai saputo fare di più della loro firma! E poi ci voleva molto a dargli qualche maestro, se avevano la fregola di farne un letterato? I maestri, però, poco o molto, bisognava pagarli, e questo era il solo e vero motivo della deliberazione: risparmiare i baiocchi; perché ai Benedettini non solamente non si pagava nulla, ma le stesse famiglie degli scolari ci guadagnavano qualcosa!…

Le camere del Noviziato aprivano tutte in un giardino destinato unicamente al diporto dei ragazzi; non c’erano soltanto fiori, ma alberi fruttiferi, aranci, limoni, mandarini, albicocchi, nespoli del Giappone, e la mattina un pigolìo assordante di passeri svegliava i novizi prima ancora che fra’ Carmelo venisse a chiamarli per le divozioni che andavano a dire nella cappella. Finito di pregare tornavano tutti nelle loro camere, facevano una colazione frugale perché il pranzo era a mezzogiorno, e ripassavano le lezioni per trovarsi pronti all’arrivo dei lettori che insegnavan loro l’italiano, il latino e l’aritmetica, più la calligrafia e il canto corale, le domeniche. A terza, dopo le lezioni, c’era la messa, che scendevano ad ascoltare in chiesa; la più grande di Sicilia, tutta marmo e stucco, bianca e luminosa, con la cupola che sfondava il cielo e l’organo di Donato del Piano costato tredici anni di lavoro e diecimila onze di denari. Subito dopo la messa, i novizi andavano al refettorio, certe volte in quello grande insieme coi Padri, certe altre da soli, nel piccolo, secondo prescriveva la Regola; ma lo spasso cominciava più tardi, dopo il desinare, quando si sparpagliavano per il giardino, dove si mettevano a giocare a rimpiattino, alle bocce, ai castelletti, oppure zappavano o coltivavano ciascuno i propri alberi, oppure mandavano per aria aquilotti e palloni. Oltre il muro di cinta distendevasi un terreno incolto, tutto lava e sterpi, fino alla Flora – il giardino grande destinato al diporto dei monaci, dove i ragazzi andavano di tanto in tanto, a rincorrersi pei grandi viali – e il principino che aveva subito preso le abitudini del convento ed era il più diavolo di tutti, spesso arrampicavasi su quel muro, tentava di scavalcarlo e andarsene nella sciara; ma allora il Padre maestro e fra’ Carmelo ammonivano: «Di là non si passa!… Non t’arrischiare da quella parte che ci bazzicano gli spiriti: se t’afferrano ti portano via con loro…»

«Li hai visti tu, cotesti spiriti?» domandò una volta Consalvo a Giovannino Radalì.

«Io, no; ci vanno la notte, dicono.»

E la notte non potevano guardarci perché, dopo la passeggiata vespertina che facevano giù in città, e dopo la cena, rientravano per lo studio e per le preghiere della sera.

Fra’ Carmelo teneva loro compagnia, badava che non mancassero di nulla, e quando non c’era da fare, li svagava parlando dei novizi d’un tempo, che adesso erano monaci o alle case loro, narrando le storie antiche, il famoso furto della cera nella notte del Santo Chiodo; la rivoluzione del Quarantotto, quando San Nicola era servito di quartier generale a Mieroslawski; la venuta di Re Ferdinando e della Regina nel 1834; ma diffondendosi più che altro intorno alle vicende del monastero.

Nel primo principio non si sapeva bene chi lo avesse fondato, ma il 1136 certi santi Padri Benedettini s’eran ritirati, per meditare e far penitenza, nei boschi dell’Etna, e lì, coll’aiuto del conte Errico, avevano eretto il primo convento di San Leo. San Leo era uno dei tanti crateri spenti del Mongibello, tutto coperto di boschi e sei mesi dell’anno ammantato dalla neve; una vera solitudine adatta al santo scopo. In inverno la tramontana turbinava intorno al povero e rustico fabbricato, tagliava la faccia, scottava le mani, gelava ogni cosa: tanto che molti dei monaci s’eran buscate gravi malattie, non resistendo all’intemperie. Pertanto avevano ottenuto di poter mandare gl’infermi più giù, in un ospizio fabbricato nel bosco di San Nicola; e lì, come ci si stava meno a disagio, cominciarono ad andare anche parte dei monaci sani. A San Leo, intanto, oltre il freddo c’era un altro spavento, quando la montagna s’apriva, vomitando fuoco e cenere ardente: i terremoti sconquassavano la fabbrica, la lava distruggeva gli alberi e disseccava le cisterne, la cenere infocata bruciava ogni verdura. «Potevano sopportare tanti guai, i poveri Padri?» La meditazione stava bene, ma se il suolo mettevasi a ballar la tarantella, chi poteva più riconcentrarsi e pregare? La penitenza stava ancora meglio; ma bisognava pure evitare che, a furia di mortificazioni, i penitenti non se ne andassero difilato all’altro mondo prima d’aver purgato i loro falli. Per conseguenza, impetrarono ed ottennero di stabilirsi definitivamente a San Nicola, intorno al quale venne crescendo un paesetto che, dal Santo, si chiamò Nicolosi per l’appunto. Lì, il convento fu costruito con qualche comodo, più grande dell’antico, e i monaci vi restarono molti anni; però Nicolosi non scherzava neppur esso: la neve, se non per sei mesi, vi cadeva copiosa in inverno, e il freddo era ancora troppo pizzicante; tanto che gli ammalati bisognò mandarli in un altro ospizio fabbricato apposta più giù, alle porte di Catania; senza dire che i ladri infestavano quelle campagne. Veramente i monaci, che avevano fatto voto di povertà, non avrebbero dovuto temerli; perché «cento ladri», come dice il proverbio, «non possono spogliare un nudo»; ma Re, Regine, Viceré e baroni avevano cominciato a donar roba al convento; e a furia di raccoglier legati i Padri si trovavano possessori di un gran patrimonio. Ora, chi doveva godersi quelle ricchezze? i topi? Perciò nel 1550, i Benedettini pensarono di venirsene definitivamente in città, mettendo la prima pietra d’un magnifico edifizio alla presenza del Viceré Medinaceli. Certuni volevan dire che San Benedetto fosse crucciato perché i suoi figli avevano lasciato i boschi e s’erano accasati da signori in città: menzogna patente, poiché, finito che fu il convento, il glorioso fondatore dell’Ordine lo preservò dal fuoco del vulcano: la lava dei Monti Rossi, discesa fino a Catania, preciso in direzione del convento, giunta dinanzi ad esso girò dalla parte di ponente e andò a gettarsi in mare senza fargli alcun danno. È vero che nel 1693 il terremoto rovinò l’edificio dalle fondamenta; però il castigo, se mai, non fu inflitto ai soli Padri, ma a mezza Sicilia che se ne cascò come un castello di carte. E allora finalmente cominciarono la costruzione che adesso ammiravasi sopra un piano tanto grandioso che non si poté eseguir tutto: per portarne a compimento una metà, i lavori durarono fino al 1735. La ricchezza dei Padri era pervenuta al sommo: settantamila onze l’anno, e certi feudi erano così vasti, che nessuno ne aveva fatto il giro!

Quando parlava di queste cose, fra’ Carmelo non ismetteva più, perché egli aveva passato più di cinquant’anni fra quelle mura, e voleva bene a’ Padri, ai novizi, alle immagini della chiesa ed agli alberi della Flora, come se tutti fossero parte della sua famiglia. Conosceva i feudi, le tenute e i poderi meglio di tutti i Cellerari di campagna, ciascuno dei quali era preposto al governo d’una sola proprietà; e quando bisognava rammentar qualcosa, la data d’un avvenimento molto lontano, la misura d’un antico raccolto, tutti ricorrevano a lui.

Il principino era adesso la sua più grande affezione: egli se lo teneva vicino più che poteva, gli regalava dolci e balocchi, lo vantava all’Abate, al maestro dei novizi, agli zii ed a tutti. Il ragazzo, veramente, era troppo vivace, faceva il prepotente, attaccava lite coi compagni; fra’ Carmelo, paziente ed indulgente, sapeva scusarlo presso il maestro, se commetteva qualche monellata, e raccomandava prudenza agli altri fratelli se di queste monellate essi scontavan la pena.

«Bisogna lasciarli fare, i ragazzi; e poi sono signori, e a noi tocca obbedirli.»

I fratelli, infatti, erano addetti alle grosse bisogne, servivano i Padri al refettorio, mangiavano alla seconda tavola; e quando i monaci dicevano l’uffizio in Coro, essi recitavano in un cantone il solo rosario. Per entrar novizi e diventar monaci bisognava esser nobili, e fra’ Carmelo, fanatico di quelle cose quanto donna Ferdinanda, celebrava la nobiltà riunita a San Nicola. Vi si trovavano infatti i rappresentanti delle prime famiglie, non solo della Val di Noto, ma di tutta la Sicilia, perché in tutta la Sicilia c’era solo un altro convento di Cassinesi, a Palermo, e così inferiore in grandezza, ricchezza ed importanza, che mandavano lì da Catania i monaci stravaganti, per punizione. L’Abate era un gran signore napolitano, il secondogenito del duca di Cosenzano; da Monte Cassino era venuto anche il Padre Borgia, romano, di quella famiglia che aveva dato un Papa alla cristianità; e poi c’erano gli isolani, i Gerbini, che discendevano da Re Manfredi per via di donne; i Salvo, venuti in Sicilia con gli Svevi; i Toledo, i Requense, i Melina, i Currera spagnoli come gli Uzeda, i Cùrcuma e i Sagonti, di nobiltà longobarda; i Grazzeri, discesi di Germania; i Corvitini, fiamminghi; i Carvano, i Costante, francesi; gli Emanuele, appartenenti ad un ramo de’ Paleologhi, imperatori d’Oriente.

«Basta essere ai Benedettini, o monaco o novizio, per significare che uno è signore,» spiegava fra’ Carmelo al principino. «Qui entrano soltanto quelli delle prime case, come Vostra Paternità.»

Ai ragazzi toccava il «Vostro Paternità» e il «don» come ai monaci, e tutte le volte che un Padre o un novizio passava dinanzi ai fratelli questi dovevano inchinarsi, piegandosi in due, incrociando le braccia sul petto; e se erano seduti, alzarsi in piedi per salutare. C’era uno di questi fratelli, fra’ Liberato, vecchissimo, quasi centenario, non più buono a nulla, il quale usciva dalla sua camera per tremare al sole sopra una sedia a bracciuoli; un giorno il principino gli passò dinanzi e il vecchio non s’alzò. Allora il ragazzo riferì la cosa al maestro, il quale fece al fratello una lavata di capo coi fiocchi.

«È istolidito, poveretto,» disse fra’ Carmelo, scusandolo. «Quando ci facciamo vecchi, torniamo peggio di quand’eravamo bambini!»

Consalvo riceveva così le stesse lezioni che gli aveva fatte donna Ferdinanda, le digeriva meglio che non l’altre del latino e dell’aritmetica. Esse gli davano un’idea straordinaria di quel che valeva, ma gli procuravano anche di solenni scapaccioni dai compagni, specialmente dai maggiori d’età, pel disprezzo col quale li trattava. Michele Rocca si gloriava d’avere anche lui un Viceré tra gli antenati; ma Consalvo correggeva: «Viceré? Presidente del Regno!…» E l’altro: «No, Viceré…» E Consalvo: «No, Presidente…» finché Michelino, infuriato, gli si slanciava addosso. Allora, piuttosto che venire alle mani, egli gridava al soccorso e a fra’ Carmelo toccava comporre la lite. Ma ricominciava con gli altri, attaccava brighe sopra brighe.

Quasi tutte quelle famiglie baronali avevano un nomignolo spesso ingiurioso o avvilitivo, col quale erano conosciute in città più che col vero nome. I Fiammona si chiamavano i Caratelli, perché corpacciuti come mezze botti; i San Bernardo Piange le fave, allusione alla miseria in cui erano ridotti; i Currera Tignosi perché tutti con le teste calve come palle da bigliardo; i Salvo Mangia Saliva, altri peggio ancora. Il principino, a corto di argomenti, gridava ai compagni: «Oh, dei Pancia-di-crusca!… Oh, dei Cute-di-porco!…» e quelli, non potendogli rendere pane per focaccia, giacché il nomignolo degli Uzeda, i Viceré, diceva la loro antica potenza, se lo mettevano sotto, quando riuscivano ad agguantarlo, e lo pestavano bene. Fra’ Carmelo accorreva, con le mani in testa, per liberare il suo protetto e predicar la pace, l’amore reciproco, l’attenzione allo studio.

Durante le lezioni, quando si dava la pena di stare attento, Consalvo capiva tutto e raccoglieva lodi e premi; ma del resto non c’erano castighi, ché i maestri lettori, tutti preti di bassa estrazione, non osavano neppure dar dell’asino agli scolari. Il Priore, in segno di soddisfazione pei buoni rapporti del maestro, veniva a trovare qualche volta il nipote al Noviziato, portandogli regali di dolci e di libri sacri; don Blasco, al refettorio, gli dava qualche scappellotto, a modo di carezze; ma la prima volta che fra’ Carmelo lo condusse al palazzo, in permesso, per mezza giornata, tutta la famiglia, riunita per la circostanza, gli fece gran festa.

«Che bel monachino!… Che bel monachino!…»

La principessa, dolente di non averlo più con sé, ma rassegnata come sempre ai voleri del marito, se lo mangiava dai baci, l’abbracciava stretto stretto con tanta maggior forza quanto maggiore repulsione le ispiravano gli altri; donna Ferdinanda anche lei, venuta apposta al palazzo, gli prodigò molte carezze; Lucrezia, placatasi ormai che non correva più pericolo di vederselo in camera, gli diede confetti e biscotti; il principe, senza smettere l’abituale severità, lodò i figli obbedienti. Don Eugenio fece una predica intorno ai benefizi dell’istruzione; perfino lo zio Ferdinando scese dalle Ghiande per assistere a quella visita. Mancavano però la zia Chiara e il marchese: sicuri d’avere il tanto aspettato e desiderato figliuolo, un triste giorno la gravidanza era andata in fumo; essi portavano da quel momento il lutto della speranza perduta. C’era invece una bambina di sei anni che guardava il monachino con grandi occhi curiosi e una balia che teneva in braccio un lattante.

«Le tue cugine, figlie dello zio Raimondo,» spiegò la principessa.

«E la zia Matilde?»

«Sta poco bene…»

Ma donna Ferdinanda troncò quegli stupidi discorsi, e prese a interrogare il nipotino intorno ai compagni, alla vita del monastero, all’impiego della giornata, intanto che fra’ Carmelo tesseva l’elogio del ragazzo alla madre.

«Ti faresti monaco?» gli domandò il principe, per chiasso. «Ci staresti sempre, al convento?»

«Sì,» rispose egli, per non dargliela vinta. «È bello stare a San Nicola!…»

I monaci infatti facevano l’arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso. Levatisi, la mattina, scendevano a dire ciascuno la sua messa, giù nella chiesa, spesso a porte chiuse, per non esser disturbati dai fedeli; poi se ne andavano in camera, a prendere qualcosa, in attesa del pranzo, a cui lavoravano, nelle cucine spaziose come una caserma, non meno di otto cuochi, oltre gli sguatteri. Ogni giorno i cuochi ricevevano da Nicolosi quattro carichi di carbone di quercia, per tenere i fornelli sempre accesi, e solo per la frittura il Cellerario di cucina consegnava loro, ogni giorno, quattro vesciche di strutto, di due rotoli ciascuna, e due cafissi d’olio: roba che in casa del principe bastava per sei mesi. I calderoni e le graticole erano tanto grandi che ci si poteva bollire tutta una coscia di vitella e arrostire un pesce spada sano sano; sulla grattugia, due sguatteri, agguantata ciascuno mezza ruota di formaggio, stavano un’ora a spiallarvela; il ceppo era un tronco di quercia che due uomini non arrivavano ad abbracciare, ed ogni settimana un falegname, che riceveva quattro tarì e mezzo barile di vino per questo servizio, doveva segarne due dita, perché si riduceva inservibile, dal tanto trituzzare. In città, la cucina dei Benedettini era passata in proverbio; il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse ciascuna come un mellone, le olive imbottite, i crespelli melati erano piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare; e pei gelati, per lo spumone, per la cassata gelata, i Padri avevano chiamato apposta da Napoli don Tino, il giovane del caffè di Benvenuto. Di tutta quella roba se ne faceva poi tanta, che ne mandavano in regalo alle famiglie dei Padri e dei novizi, e i camerieri, rivendendo gli avanzi, ci ripigliavano giornalmente quando quattro e quando sei tarì ciascuno.

Essi rifacevano le camere ai monaci, portavano le loro ambasciate in città, li accompagnavano al Coro reggendo loro le cocolle, e li servivano in camera se le LL. PP. si sentivano male, o si seccavano di scendere al refettorio. Lì il servizio toccava ai fratelli: a mezzogiorno, quando tutti erano raccolti nell’immenso salone dalla vòlta dipinta a fresco, rischiarato da ventiquattro finestre grandi come portoni, il Lettore settimanario saliva sul pulpito e alla prima forchettata di maccheroni, dopo il Benedicite, si metteva a biascicare. Il giro della lettura cominciava dai più piccoli novizi fino ai monaci più vecchi, per ordine d’età; ma una volta arrivato ai Padri di fresca nomina, ricominciava per evitare quel fastidio ai grandi, i quali se ne stavano comodamente seduti dinanzi alle tavole disposte lungo i muri, sopra una specie di largo marciapiedi; l’Abate, nel centro del gran ferro di cavallo, aveva una tavola per sé. I fratelli portavano intanto attorno i piatti, a otto per volta, sopra un’asse chiamata «portiera» che reggevano a spalla. Distinguevansi i pranzi e i pranzetti, questi composti di cinque portate, quelli di sette, nelle solennità; e mentre dalle mense levavasi un confuso rumore fatto dell’acciottolio delle stoviglie e del gorgoglio delle bevande mesciute e del tintinnio delle argenterie, il Lettore biascicava, dall’alto del pulpito, la Regola di San Benedetto: «… 34° comandamento: non esser superbo; 35°: non dedito al vino; 36°: non gran mangiatore; 37°: non dormiglione; 38°: non pigro…»

La Regola, veramente, andava letta in latino; ma al principino e agli altri novizi, aspettando che la potessero comprendere in quella lingua, la spiegavano nella traduzione italiana, una volta il mese. San Benedetto, al capitolo della Misura dei cibi, aveva ordinato che per la refezione d’ogni giorno dovessero bastare due vivande cotte e una libbra di pane; «se hanno poi da cenare, il Cellerario serbi la terza parte di detta libbra per darla loro a cena»; ma questa era una delle tante «antichità» – come le chiamava fra’ Carmelo – della Regola. Potevano forse le Loro Paternità mangiare pane duro? E la sera il pane era della seconda infornata, caldo fumante come quello della mattina. La Regola diceva pure: «Ognuno poi s’astenga dal mangiare carne d’animali quadrupedi, eccetto gli deboli et infermi»; ma tutti i giorni compravano mezza vitella, oltre il pollame, le salsicce, i salami e il resto; e in quelli di magro il capo cuoco incettava, appena sbarcato, e prima ancora che arrivasse alla pescheria, il miglior pesce. Molte altre «antichità» c’erano veramente nella Regola: San Benedetto non distingueva Padri nobili e fratelli plebei, voleva che tutti facessero qualche lavoro manuale, comminava penitenze, scomuniche ed anche battiture ai monaci ed ai novizi che non adempissero il dover loro, diceva insomma un’altra quantità di coglionerie, come le chiamava più precisamente don Blasco. Articolo vino, il fondatore dell’Ordine prescriveva che un’emina al giorno dovesse bastare; «ma quelli ai quali Iddio dà la grazia di astenersene, sappiano d’averne a ricevere propria e particolare mercede». Le cantine di San Nicola erano però ben provvedute e meglio reputate, e se i monaci trincavano largamente, avevano ragione, perché il vino delle vigne del Cavaliere, di Bordonaro, della tenuta di San Basile, era capace di risuscitare i morti. Padre Currera, segnatamente, una delle più valenti forchette, si levava di tavola ogni giorno mezzo cotto, e quando tornava in camera, dimenando il pancione gravido, con gli occhietti lucenti dietro gli occhiali d’oro posati sul naso fiorito, dava altri baci al fiasco che teneva giorno e notte sotto il letto, al posto del pitale. Gli altri monaci, subito dopo tavola, se ne uscivano dal convento, si sparpagliavano pel quartiere popolato di famiglie, ciascuna delle quali aveva il suo Padre protettore. Padre Gerbini, la cui camera era piena di ventagli e d’ombrellini che le signore gli davano ad accomodare, cominciava il giro delle sue visite; Padre Galvagno se ne andava dalla baronessa Lisi, Padre Broggi dalla Caldara, altri da altre signore ed amiche. Tornavano all’ave, per entrare in chiesa, ma quelli che venivano un poco più tardi, o a cui doleva il capo, se ne salivano direttamente in camera; e non già per dormire, ché la sera, fino a tre ore di notte, quando si serravano i portoni, c’erano visite di parenti e d’amici, si teneva conversazione, molti Padri facevano la loro partita. Un tempo, anzi, per colpa di Padre Agatino Renda, giocatore indiavolato, c’era stato un giuoco d’inferno: in una sola sera Raimondo Uzeda aveva perduto cinquecent’onze, e più d’un padre di famiglia s’era rovinato; tanto che i superiori dell’Ordine, dopo aver chiuso un occhio su molte marachelle, avevano dovuto finalmente prendere qualche provvedimento. Era appunto allora venuto da Monte Cassino, in qualità di Abate, Padre Francesco Cosenzano, e per un po’ di tempo, con l’autorità della fresca nomina, aiutato dai buoni monaci, che non ne mancavano, quel bravo vecchietto era riuscito a infrenare i peggiori; ma, poi, coll’andare del tempo, zitti zitti, a poco a poco, questi erano tornati alle abitudini di prima: giuoco, gozzoviglie, il quartiere popolato di ganze, i bastardi ficcati nel convento in qualità di fratelli – dei Padri – nuovo genere di parentela! E i timidi tentativi di resistenza dell’Abate gli avevano scatenato contro un’opposizione violenta. Don Blasco fu dei più terribili. Egli aveva tre ganze, nel quartiere di San Nicola: donna Concetta, donna Rosa e donna Lucia la Sigaraia, con una mezza dozzina di figliuoli: e l’Abate lasciava correre, sebbene fosse uno scandalo che tutte quelle mogli e quei figliuoli della mano manca, anzi di nessuna mano, venissero a udir la santa messa recitata dallo stesso monaco. Poi, tutte le mattine, egli scendeva in cucina, ordinando che mandassero i migliori bocconi alle sue amiche, e i giorni di magro si metteva sul portone per aspettar l’arrivo dei cuochi col pesce, in mezzo al quale faceva la sua scelta, ordinando: «Taglia un rotolo di questa cernia e portalo a donna Lucia!» E l’Abate lasciava correre. Ma un giorno finalmente i nodi vennero al pettine, per causa di costei. Il convento possedeva una buona metà del quartiere in mezzo al quale sorgeva: i tre palazzotti della piazza semicircolare dinanzi alla chiesa e una quantità di case terrene tutt’intorno alle mura. Da queste fabbriche ricavava una magra rendita, perché parte erano affittate a prezzi di favore a vecchi fornitori o sagrestani ritirati, parte erano addirittura concesse come elemosina a povera gente, a famiglie nobili cadute in bassa fortuna. Ora don Blasco, con una particolare affezione per donna Lucia Garino, la Sigaraia, le aveva fatto concedere un bel quartierino di abitazione nel palazzotto di mezzogiorno e una bottega sottoposta dove suo marito teneva il negozio dei tabacchi. L’Abate, visto che questa donna Lucia non era né indigente né nobile decaduta e che non vantava altro titolo, per godersi la casa, fuorché l’amicizia scandalosa di don Blasco, mentre poi tanti e tanti poveri diavoli non sapevano dove dar del capo, pensò di ordinarle che o pagasse regolarmente l’affitto del quartiere e della bottega, oppure che sgomberasse. Don Blasco, a cui già il fare da moralista del nuovo Abate aveva dato ai nervi, tanto che non aspettava se non l’occasione per aprire il fuoco, a questa intimazione riferitagli dall’amica piangente diventò una bestia, salvo il santo battesimo, e fece cose dell’altro mondo, gridando pei corridoi del convento, sotto il muso dei Decani e dietro l’uscio dell’Abate, che se qualcuno avesse osato dar lo sfratto o pretendere un baiocco dalla Sigaraia, l’avrebbe avuto a far con lui. E disciplinata l’opposizione ancora incerta e tentennante, raccolto intorno a sé la schiuma del convento, i monaci che non potevano digerire le austere ammonizioni del superiore e la fine del giuoco e di tutti gli scandali, se prima era stato lo spavento del Capitolo, da quel giorno divenne un diavolo scatenato. Per amor della pace, il povero Abate dové rimangiarsi il suo provvedimento, ma l’Uzeda senior non si placò per questo, ché dove poté trovare argomento da suscitare mormorazioni e liti, non diede tregua al suo «nemico». Giusto, l’Abate, ammirato dei severi costumi e della scienza di don Lodovico, s’era messo a proteggerlo, fino a sostenerne poi l’elezione al priorato; perciò don Blasco, il quale voleva aver egli quel posto, accomunò il nipote e il superiore nell’odio feroce e inestinguibile.

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Veröffentlichungsdatum auf Litres:
30 August 2016
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