Nur auf LitRes lesen

Das Buch kann nicht als Datei heruntergeladen werden, kann aber in unserer App oder online auf der Website gelesen werden.

Buch lesen: «La plebe, parte I», Seite 28

Schriftart:

CAPITOLO XXV

Anche la Leggera era una povera creatura appartenente alla classe dei derelitti. Ella aveva bensì avuta la buona sorte di nascere da legittime nozze, nell'infima plebe, dove si stenta il pane ed è più travagliata la vita. Le memorie che le ne erano rimaste di quella sua prima infanzia erano debolissime, offuscate e cancellate dalle tante e sì strane vicende che le erano intravvenute di poi. Solamente si ricordava di aver avuto freddo l'inverno, caldo la state in una soffittaccia vuota di masserizie, fame tutto l'anno, e troppo sovente l'accompagnatura di battiture senza ragione.

Un bel giorno ella si ricordava essersi ferma sur una piazza a mirare una schiera di saltimbanchi che faceva degli esercizi i quali a lei parevano i più meravigliosi del mondo. C'erano due ragazze, presso a poco della sua età, che con un sorriso fisso sulle labbra sottili contorcevano le loro piccole membra in mosse le più forzate e violente. Gli occhi della piccola Martuccia – allora la non si chiamava ancora nè Zoe nè la Leggera – erano attratti come per una malìa dai lustrini che lucicchiavano nelle sottane corte e sporche di quelle sue coetanee, dai ricami dorati nei loro corpettini frusti e sgualciti che agli occhi della bambina abituati allo spettacolo della peggiore miseria parevano poco meno che una sontuosità ed una ricchezza.

Il capo di quella schiera di saltimbanchi, un uomo grande, grosso, straordinariamente membruto nelle braccia e nelle coscie, con un collo da toro ed una voce eternamente rauca, una matassa arruffata di capelli lanosi sulla grossa testa dalla fronte bassa, la faccia sempre sporca e la barba sempre da radere; il capo adocchiò questa bambina pallida, ma di avvenente aspetto e di sì ben costrutta corporatura che un ginnastico ne sarebbe stato molto soddisfatto ed un artista ammirato, la quale con tanto d'occhi stava intenta allo spettacolo offerto pubblicamente ai fannulloni della piazza. L'istruire dei bambini e sopratutto delle bambine all'arte dei salti mortali e delle contorsioni impossibili era, come si suol dire, la specialità di quell'uomo; il quale accortamente aveva notato come la vista degli esercizi di quelle povere creaturine, massime se femmine, eccitando assai meglio la compassione degli spettatori, procurasse una più abbondante raccolta di soldi.

Ora la sua compagnia infantile erasi ridotta a due soltanto; e ciò non gli bastava. Ancora, una delle due rimastegli minacciava intisichire ed andare a raggiungere quanto prima nel mondo di là le sue compagne, che il saltimbanco aveva seminato qua e colà pei varii cimiteri delle città traverso cui si era trascinata la sua nomade vita. Da qualche tempo cercava una preda, e l'aspetto della piccina strappata e macilenta, che vedemmo poc'anzi, fatta donna, in palco al teatro, che troveremo or ora nel suo splendido quartiere, l'attenzione profonda prestata da essa ai giuochi che le si venivano facendo dinanzi, gli parvero indizi quella essere fatta apposta pel suo bisogno.

Un vecchio organetto scordato, posto sopra un cavalletto di legno zoppo, accompagnava colle sue disarmoniche armonie irritanti gli esercizi di forza e di destrezza che le due bambine venivano facendo sopra il logoro tappeto steso sul suolo a mezzo il circolo degli spettatori. Quest'organetto laceratore di ogni orecchio, anche del più mal costrutto, era suonato da un giovinotto magro magro, le cui guancie infossate erano coperte da un centimetro di belletto e che vestiva da pagliaccio. Il poverino con una fame da sedicenne non mai saziata, fatta azzittire mercè i mali trattamenti del principale, aveva l'incarico di tener allegri gli spettatori mediante certe facezie che aveva imparato a memoria a suon di bastonate e mediante le smorfie che doveva fare quando il capo gli tirava le orecchie o gli assestava un calcio nel sedere in presenza del rispettabile pubblico rappresentato da una frotta di facchini e di furfantelli, e dell'inclita guarnigione presente per mezzo di qualche sfaccendato coscritto. Queste tirate d'orecchio e questi calci dovevano essere figurativi, e il buon pubblico, che li prendeva per tali, si sganasciava allegramente alle boccaccie spiritate che faceva il meschinello di pagliaccio, ricevendoli; ma in realtà avveniva che troppo spesso erano di maledetto senno, sì che il giovinetto tutto indolenzito ne portava i contrassegni per un pezzo, senza che ciò andasse pure in diminuzione di quella provvista di cazzotti e di picchiature che il bravo principale aveva per abitudine di distribuirgli a domicilio.

Accanto allo strimpellante organetto, una donna di corporatura enorme, con lineamenti da uomo e colorito permanente da ubriaco sulle guancie paffute, con certe braccia da parer coscie di un alcide, batteva a contrattempo dei colpi tremendi sopra una gran cassa sostenuta ancor essa da un cavalletto di legno. Era essa vestita eziandio colla sottana corta di color rosso e giallo, tempestata di lustrini, e mostrava certe gambe che a paragonarle a quelle dell'elefante era far torto a queste ultime.

Il saltimbanco si accostò a questa donnaccia, ed accennando la piccola Martuccia, le disse sottovoce:

– Eh? mi pare che quel bocconcino lì sia l'affar nostro.

La donna fece rotare i suoi occhi senza luce verso la piccina, e rispose con un cenno affermativo. Martuccia sentì su di sè lo sguardo di quell'uomo e di quella donna, e benchè ne provasse una specie di malessere, non ebbe tuttavia la risoluzione e neppure l'idea di allontanarsi da quel luogo.

Gli esercizi erano finiti, il cerchio degli spettatori erasi dileguato, e Martuccia era ancora lì con occhi spalancati a fissare quelle due bambine, alle quali la femmina enorme aveva distribuito un pezzo di pane ed un pomo per ciascuna, e che se lo mangiavano avidamente, accoccolate sopra il tappeto ripiegato e portato presso l'organetto. Il pagliaccio, forse in punizione di qualche commesso malestro, non aveva ricevuto nè pomo nè pane, e sedutosi per terra dall'altra parte dell'organo, stava colle gomita appoggiate alle ginocchia e la faccia nascosta fra le mani.

Lo sguardo che Martuccia fissava sul pane e sul pomo delle due piccole saltatrici, era tutta una rivelazione. La donnaccia pensò subito trarne profitto. Si accostò alla piccina con in mano un pomo e sulle labbra un sorriso che voleva esser grazioso e riusciva ad orribile.

– Bella piccolina: diss'ella alla bimba. To', vorresti tu questo bel pomo?

Il primo movimento della piccina fu di paura. Si trasse in là vivamente e guardò esterrefatta quella faccia grossa di color pavonazzo, da cui usciva fuori una voce inqualificabile nella gamma delle voci umane.

Ma quel pomo che la megera faceva girare fra il suo pollice e l'indice grossi come bacchette da tamburo, innanzi agli occhi di lei, esercitava pure un fascino potente sulle viscere digiune di quella meschina. Stese ratto la mano ed afferrò il pomo: ma la donna non lo lasciò mica andare; preso invece nella sua la manuccia della bambina e tirandola verso l'organetto dove sedevano le altre bambine, le disse il più melatamente che seppe:

– Sì, cara, gli è tuo questo pomo, ed anche un altro se vuoi, e un pezzo di pane eziandio, se te ne dice la coscienza, ma vieni a mangiarlo qui in compagnia di queste due brave ragazzine…

E la trasse diffatti dove voleva.

Un pomo perdette il genere umano, secondo la Genesi: un pomo perdette per sempre la miserella, che avrebbe potuto diventare la moglie onesta di un lavoratore, madre di onesti operai.

– Oh! oh! che bella piccina! Disse colla sua voce rauca il saltimbanco facendo una carezza alla guancia di Martuccia. Questa sì che è una bella piccina davvero!

La vanità e la civetteria sono proprio istintive in una buona quantità del sesso femminile, e Martuccia le aveva dalla natura nel suo carattere maggiori che in altrui; quelle parole produssero in lei un soddisfacimento tanto più vivo in quanto che era la prima volta che le udiva. La si sentì rinfrancata, e con tutta scioltezza prese posto sul tappeto rotolato e si diede a mangiare il pomo e il pane con avidità pari a quella delle due piccole saltatrici.

La donnaccia e il saltimbanco, interrogando destramente la piccina, ebbero in breve saputo tutto ciò che la riguardava: la povertà della famiglia e il poco amore che i genitori le dimostravano.

– Di' un po', uscì fuori l'uomo ad un punto, pigliando nella sua grossa mano il mento delicato di Martuccia, non ti piacerebbe egli venire con noi, veder tanti paesi, portare una vestina tutta oro ed argento, aver giocattoli e regali a macca, sentirti a lodare da tutti e gridar brava dal pubblico e buscar tanti soldi che stando in tua casa non ne vedresti mai pure la centesima parte?

Alla bambina quelle parole del saltimbanco parvero aprire dinanzi un avvenire tutto color di rosa; pensò che non avrebbe avute più le battiture del padre ubbriaco e della madre di cattivo umore per aver dovuto impegnare l'ultimo suo straccio onde averne del pane, che sarebbero finite le lunghe ore di noia in cui le toccava star seduta in un cantuccio di quella trista e scura soffittaccia ornata di ragnateli, che almanco avrebbe avuto l'aria aperta, il cielo, il sole, e visto cose nuove; i suoi occhi brillarono ed ella disse con gioia:

– Oh sì che mi piacerebbe.

– E va benissimo. Allora mi condurrai dal tuo babbo, ed io gli domanderò se vuole lasciarti venire con me.

Così fu fatto. La proposizione veniva a quegli sciagurati genitori in un momento appunto in cui peggio li percuoteva la miseria. Per onor loro devo dire che lottarono un poco, e la madre principalmente fu dapprima assai restia: ma il saltimbanco insistette accrescendo sino a cinquanta lire la somma che aveva offerto dapprima; gl'infelici, per cui questo era poco meno che un tesoro insperato, cedettero, e chi volesse non essere menomamente ingiusto nel condannarli, come si meritano, dovrebbe pur tener conto dei tristi e perniciosi effetti che a forza produce sull'anima umana il continuo, irrimediato tormento della miseria.

Martuccia seguì i saltimbanchi assai lieta; e da principio la sua vita le parve, paragonata a quella sino allora vissuta, un piccolo paradiso. L'avevano spogliata delle sue vestine strappate e sporche e del suo nome trovato poco adatto alle nuove sorti a cui era chiamata. Le avevano messo intorno i panni che aveva vestiti una delle sue precessore morta, nessuno si ricordava più dove, e il nome portato dall'ultima che aveva disertato la compagnia per la fossa. Questo nome era Zoe. Il bravo saltimbanco aveva un repertorio di nomi da affibbiare così alle sue allieve in luogo dei prosaici che ordinariamente esse portavano, e questi nomi faceva passare dall'una all'altra, quando la prima occupante veniva a mancargli. Pei primi giorni adunque tutto andò bene. A Zoe non si dava altro da fare che certi movimenti di braccia e di gambe per iscioglierne le membra; movimenti che non avevano nulla di faticoso e tanto meno di doloroso. Il saltimbanco usava palparla nelle spalle e nelle reni, press'a poco della guisa con cui una cuoca in mercato palpa un pollastro che vuol comprare, e diceva poscia tutto soddisfatto:

– Benissimo costrutta! La diventerà un soggetto, ma di quei fiamminghi!

Le si dava da mangiare quanto occorreva, passava la giornata sulle piazze, sollazzata dall'aspetto di tante cose e di tanta gente, dormiva benissimo la notte sopra uno strammazzo di paglia con accanto le sue due compagne; ed era tutto fiera quando, essendo andata alla colletta presso gli spettatori, tornava dal saltimbanco col piattello pieno di soldi, per cui quell'omaccione gli diceva una parola di elogio e gli faceva una carezza. La donna tentava far dolce la sua vociaccia ogni qual volta parlava colla piccola Zoe, e questa incominciava a darsi un po' d'importanza e credersi dappiù paragonando il modo con cui essa era favorita a quello onde erano trattati i suoi compagni.

Bene avrebbe potuto farla avvertita di quanto la aspettava l'esempio di ciò che accadeva a questi ultimi. Le percosse che prendevano le piccine, quelle più fiere ancora che toccavano al pagliaccio la movevano bensì a compassione dapprima, ma poi – la umana natura è così fatta! – la ci si era abituata e siccome non a lei toccavano in fin dei conti, le pareva ch'ella avrebbe dovuto esserne esente per sempre.

Le cose cambiarono, quando a capo un mese, la compagnia abbandonò Torino. Fosse timore che in questa città la piccina trovasse i suoi genitori e si lamentasse se maltrattata e da ciò potesse nascerne qualche richiamo all'autorità, qualche intromissione di quella noiosa d'una polizia, fino a che si fu nella capitale del Piemonte, la pelle di Zoe fu rispettata; ma fuori!.. In breve tempo ella ebbe la sua parte cogli arretrati. L'uomo era crudele, ma la donna era feroce. In loro la natura era barbara e rozza, ma la educazione non aveva fatto nulla per migliorarli ed ingentilirli, e la loro sorte, gli esempi, l'ambiente in cui erano vissuti erano invece fatti apposta per inasprire il carattere, incrudire il cuore e svolgere i più fieri e cattivi istinti. Delle colpe, delle scelleraggini, delle infamie di quei derelitti, quanta imputabilità non è da darsi al mezzo sociale in cui vivono! Quell'uomo era nato in quella melma, s'era allevato fra gli stenti e i vizi di quei bassi fondi sociali, maltrattato, angustiato, senza conoscere, senza provare pur mai nessun effetto di istruzione, di dolci affetti, di bene morale. La donna era di pari condizione, fatta peggiore, perchè la natura femminea, come nel bene, così eccede pur anco nel male. Quindi ella si compiaceva non solo a tormentare essa stessa direttamente le povere vittime cascatele sotto le unghie, ma ad istigare ancora contro di esse la collera e la brutalità del marito.

Il peggio trattato era il povero pagliaccio. Che nome aveva egli? Chi era? Donde veniva, o meglio a cui era stato tolto? I saltimbanchi stessi parevano averlo dimenticato, egli non ne sapeva nulla. Da tanti anni, che gli parevano secoli, egli cresceva in mezzo alle percosse di quei due crudeli. Non era altro più che pagliaccio, un essere fatto apposta su cui sfogare coi cazzotti, coi pugni e coi calci il cattiv'umore di chi gli dava uno scarso tozzo di pane. Egli soffriva e taceva. Raro è che parlasse. Si piaceva a rincantucciarsi e star solo, coi gomiti sulle ginocchia e la faccia nelle mani a meditare. Che meditava egli mai?

Una fra le due compagne di Zoe era più miseruzza dell'altra. Tossiva spesso, si lamentava di dolori allo stomaco, raramente poteva cibarsi con appetito, dormiva poco, troppo sovente tremava e sudava dalla febbre. I saltimbanchi uomo e donna, la rimbrottavano acerbamente, dicevano che quella era pigrizia, che gli eran vizi e malavoglia di fare il dover suo, e accadde più d'una volta che anche la picchiassero per obbligarla a star bene e scendere in piazza a fare i soliti esercizi. La poverina si travagliava miseramente nelle sue capriole e negli sforzi delle sue mosse ginnastiche, tenendo sempre fisso sulle labbra quell'imposto sorriso costretto e contratto, che era dolorosissimo a vedersi, chi per poco esaminasse la infelice, e poi cadeva ansimante per terra presso l'organetto, serrandosi colle mani convulse lo stomaco in cui soffrivano, i suoi polmoni, i più cocenti dolori. Pagliaccio lasciava scendere uno sguardo pieno di compassione sopra quella sofferente, ma lo sviava tosto da lei e con più violenta prestezza si dava a girare il manico di quel scellerato strumento disarmonico e stonato. Era la sola manifestazione di sentimento che potesse esser colta negli atti, nella fisionomia di quel giovanetto, che del resto si mostrava d'una indifferenza stupida e non mai smentita; manifestazione codesta ch'egli metteva assai cura a non lasciare scorgere nè da quel crudele nè da quella megera che erano i suoi padroni.

Un giorno finalmente la piccola inferma non potè a niun modo levarsi più dallo stramazzo in cui aveva dolorato tutta la notte. Il saltimbanco capì che la era spacciata come le altre mancategli della medesima guisa. La chiuse nel granaio tutto sola, e condusse in piazza il resto della compagnia. Quando tornarono la sera, la poverina era morta.

– Che peccato! Disse il saltimbanco poichè si fu accertato che la era freddo cadavere. Se avesse vissuto questa qui sarebbe diventata un fiero soggetto.

Fu l'orazione funebre di quella creatura sventurata, che non aveva conosciuto vivendo le carezze materne, che era morta abbandonata senza il conforto d'una mano amorevole, d'una parola pietosa.

Poscia il saltimbanco e la donna se ne uscirono di là per recarsi all'osteria secondo il solito, lasciando chiusi entro il granaio, col cadavere della piccola morta, Zoe, l'altra compagna superstite e Pagliaccio.

Era la prima volta che la Martuccia si trovava in faccia allo spettacolo della morte, e quel viso immobile color di cera, la bocca semiaperta e tirata, quegli occhi spenti entro le occhiaie infossate, di cui niuno aveva avuto la pietosa cura di abbassare le palpebre, le incutevano una tremenda paura. Guardava, guardava quella faccia di cadavere, e le era dolorosissimo il guardarla, e non poteva pur tuttavia staccarne gli occhi.

Fu il povero Pagliaccio quegli che abbassò le palpebre della piccola morta. S'inginocchiò presso di lei, le rese quel pietoso ufficio, poi si volse all'altra ragazzina che piangeva, forse più ancora di spavento che di dolore.

– Perchè piangere? Le disse con una voce straordinariamente grave per uno appena entrato nell'adolescenza. Essa è più felice di noi; ha finito di soffrire; e certo dov'essa è andata si sta meglio che non qui sotto la sferza del principale… Una volta che, scappando di casa, ho potuto entrare in chiesa un momento, ho udito un prete a predicare, il quale diceva che chi muore senza aver fatto del male va in paradiso dove c'è un eterno benessere. Questa poveretta non ha mai fatto male a nessuno e dev'essere andata colassù. Sapete ciò che abbiamo da desiderare anche noi? Si è di far presto ad andarla raggiungere; poichè tanto e tanto questa ha da essere la nostra sorte.

Detto ciò Pagliaccio si accoccolò, come soleva, coi gomiti sulle ginocchia e la faccia nelle mani e stette immobile presso il piccolo cadavere. Le sue parole avevano ispirato nell'animo di Zoe una indicibile mestizia. Anche di poi, nel più brillante apogeo della sua sciagurata carriera, ella non aveva dimenticata quella notte e diceva non poterla dimenticar mai. Ella erasi stretta in un cantuccio lontano il più possibile dalla morta, insieme colla sua superstite compagna, e stette colà fino al mattino impedita dallo spavento di dormire di sonno fermo, sonnecchiando di tanto in tanto, solo per avere in quel sopore più tremende le immagini di inesprimibili confuse visioni. Ancora nel buio più fitto delle ore notturne, ella credeva vedersi innanzi quella faccia patita di color cerco, quegli occhi spenti a guardarla, quelle labbra livide a dirle con voce cupa le parole pronunciate da Pagliaccio:

– Anche questa ha da essere la tua sorte.

Il domani stesso, come sempre faceva in simili casi, il saltimbanco partì dalla città in cui si trovava e con viaggio più lungo del solito, mise una maggior distanza che non solesse fra la sua nuova residenza e quella che aveva abbandonata.

– Orsù, aveva egli detto a Zoe quel domani medesimo, ora tocca a te a tener il posto di quell'altra, e bisogna sgranchirsi un po' meglio.

Queste parole furono il vero annunzio d'un accrescimento di lavori e di fatiche accompagnato necessariamente da una recrudescenza di battiture.

Ma Zoe era temprata con nervi d'acciaio, e in quella lotta dell'organismo per acconciarsi a siffatte condizioni d'esistenza, la parte fisica si era afforzata di guisa da vincere, soffocando quasi del tutto la parte morale, che in tali circostanze è quella che procura i maggiori tormenti alle anime oneste.

A dodici anni la era una delle acrobatiche e delle ginnastiche più brave che si potessero vedere, e il suo sviluppo fisico era tale da presentare una precoce adolescenza, ch'ella stessa, prematuramente corrotta nel suo pensiero, si compiaceva a rendere tentatrice ai vizi dei libertini. Le nozioni del bene dove avrebbe ella potuto attingerle? Del pudore e dell'onestà femminile dove averne gli esempi? Il vizio e la corruzione fin dalla sua infanzia le erano stati compagni, come cosa naturale, come l'ambiente necessario in cui vivere. S'era ausata ad udire, vedere e ridere di tutte le morali sconcezze che riguardano i rapporti dei due sessi, come se questa fosse una parte del suo mestiere, una condizione del suo essere. I suoi principali erano pronti a venderne la bellezza al primo che loro offrisse patti convenienti; e non glie lo nascondevano: il saltimbanco intanto sentiva di quando in quando delle velleità di appropriarsi esso stesso quel boccone che avrebbe fatto gola al più frusto libertino del mondo.

È doloroso aver da rivangare questa melma sociale, e noi passeremo solo di sfuggita sopra tali orrori. Zoe s'accorse delle intenzioni del suo principale, e non se ne indignò, non sapendo neppure che c'era caso da indignarsene. Per un preannunzio di quel carattere che doveva essere il suo, di quella infame sorte a cui era predestinata, essa non pensò altro che tentar di ricavare il miglior profitto possibile dalle intenzioni del saltimbanco. Fino d'allora la cortigiana si rivelava in tutta la sua essenza. Chi indovinò eziandio i tristi propositi del saltimbanco, e ne soffri immensamente, fu il povero Pagliaccio. Gli anni erano passati anche per lui, ma pure non avevano recato alcun cambiamento alle sue meschine sembianze. Era sempre il mingherlino macilento, le cui gambe sottili e le braccia grosse come canapuli ballavano nelle vestimenta troppo larghe, senza un pelo di barba sulla faccia, sempre colla sua aria melensa, tra mesta e timorosa e meditativa.

Eppure la sbocciante bellezza di Zoe aveva prodotto un grande effetto anche nell'anima di quell'infelice. Non le parlava quasi mai, eccetto per dirle ciò che era strettamente necessario, ma la seguiva cogli occhi continuamente, e quando nessuno poteva scorgerlo, il suo sguardo addormentato balenava d'una subita fiamma; talvolta, suonando l'organetto, mentr'ella faceva i suoi esercizii, egli dall'ammirazione rimaneva lì a bocca larga, colla mano per aria, e Zoe doveva gridargli colla sua voce chiara e vibrata, all'udir la quale egli si riscuoteva tutto:

– Animo Pagliaccio! Su la musica!

Ed egli, con nuovo ardore, quasi arrabbiato, si dava a girare il manico dell'organetto.

Anche per ragione d'interesse, Zoe era diventata carissima al saltimbanco. La bravura di lei e le grazie della sua persona, guadagnavano le simpatie di tutto il pubblico, e quando essa andava in giro col piattello, l'introito era sempre vistoso.

Il saltimbanco, incoraggiato da questi successi ad essere ambizioso, determinò lasciare il suolo libero ed il cielo scoperto delle piazze per provvedersi di un baraccone di tele tirate su listelle e piuoli; e volle quindi eziandio aumentare le attrattive dello spettacolo offerto agli avventori. Un bel dì, quando già la piccola compagnia dava le sue rappresentazioni nella baracca, il saltimbanco istrusse Pagliaccio ad essergli compare in un nuovo giuoco, che egli voleva eseguire, e mercè le strapazzate e le battiture, in poche lezioni ridusse il povero figliuolo a fare appuntino quello che egli voleva. Il giuoco era questo; il saltimbanco avrebbe fatto caricare da uno degli spettatori una pistola, mettendovi dentro una vera palla di piombo, ma Pagliaccio nel riprenderla dalle mani di colui che l'aveva carica, doveva destramente sostituire a quell'arma un'altra perfettamente identica solamente caricata a polvere; allora il saltimbanco avrebbe invitato chiunque volesse dell'assemblea a far fuoco su di lui alla distanza di due passi: naturalmente Pagliaccio avrebbe dato a questo cotale la pistola senza palla, e quando egli avesse sparato, il saltimbanco avrebbe mostrato al pubblico nella sua mano una palla che si terrebbe all'uopo fra le dita e che fingerebbe aver colta a volo.

Enormi cartelloni annunziarono questo giuoco sotto il titolo: L'uomo che non può essere ucciso. Straordinaria invenzione mai più vista, ecc., ecc. La curiosità degli abitanti di quella piccola città di provincia, in cui la compagnia si trovava, fu solleticata di modo che un numeroso pubblico accorse. A tutta prima nessuno volle sparar la pistola; ma poi, dietro le sollecitazioni del saltimbanco, un antico militare di più coraggio acconsentì a far fuoco. Il saltimbanco illeso mostrò al pubblico entusiasmato la palla che aveva tra mano e che tutti credettero fosse quella cui avevan visto mettere nella canna della pistola. Tutta la città volle vedere siffatta meraviglia; e tra questo giuoco e le grazie di Zoe, la cassa del saltimbanco ebbe allora una fortuna non mai conosciuta dapprima.

E questa fu la causa della perdita del saltimbanco. I buoni guadagni lo resero più frequente nell'ubbriacarsi, e quando era ubbriaco egli diventava una belva feroce. Zoe aveva saputo temporeggiare e schermirsi sin allora; ma una sera lo scellerato uomo, non solamente le parole più, ma usò la violenza. Pagliaccio era in un cantuccio raccolto in sè al solito, dimenticato come sempre. Che cosa passò mai per l'anima di quell'infelice? E' saltò su come spinto da una molla e venne a piantarsi innanzi al saltimbanco a parare la vittima di lui, difensore fremente ed inefficace. L'ubbriaco, con uno sdegno pieno di stupore, gli diede parecchie ceffate e credette averne ragione: ma no: il disennato resistette, osò ribellarsi, ardì cimentare le sue deboli forze contro le erculee membra di quel sansone. Il trattamento che ne ebbe il temerario, fu tale che Zoe gettossi disperatamente in mezzo domandando pietà. Il saltimbanco gettò il giovane mezzo morto in un angolo: senza che quel disgraziato avesse pur disserrato le labbra per chiedere misericordia, per fare un lamento. Buttato là come uno straccio, egli teneva i denti stretti e i pugni contratti, pallido come un morto, sanguinoso pei colpi ricevuti, ma nello sguardo il fuoco d'un odio implacabile, feroce.

Il saltimbanco tornò senza più contrasto alla sua infame violenza…

La giornata di poi si dovette far riposo perchè Pagliaccio non poteva a niun modo prender parte alla rappresentazione: ma due giorni dopo, all'annunzio d'una nuova ripetizione del giuoco dell'uomo invulnerabile, una gran quantità di spettatori s'accalcava nel baraccone, e Pagliaccio colle lividure del suo viso ricoperte dalla farina e dal belletto rallegrava il pubblico delle usate facezie.

Venne il momento di eseguire il tiro della pistola contro il saltimbanco. Questi, secondo il solito, diede a caricare l'arma ad uno degli spettatori, il quale mise in essa la sua brava palla; fece ritirare la pistola, com'era usato, da Pagliaccio, e poi domandò qualche coraggioso fra gli astanti che gliela sparasse verso il petto alla distanza di due passi. Come tutte le volte ebbe luogo una esitazione nel pubblico, e nessuno volle dapprima prestarsi a tale ufficio; ma il saltimbanco insistendo replicatamente e vivamente, uno acconsentì finalmente a questa prova. Prese da Pagliaccio la pistola, – ma nessuno osservò che in quel punto la mano di Pagliaccio tremava, – e impostatisi come occorreva, egli lo spettatore e il saltimbanco, il primo abbassò l'arma all'altezza del petto di quest'ultimo e fece fuoco. Il saltimbanco gettò un grido, la sua faccia si contrasse e di colpo precipitò lungo e disteso per terra. La palla gli aveva attraversato il cuore. Una voce sola d'orrore s'alzò da tutto il pubblico, alcune donne svennero, successe un tumulto indescrivibile. Zoe guardava tutto stupita di dietro la tenda ove si riparavano per vestirsi, quando Pagliaccio le fu accosto come caduto dal cielo.

– Ho vendicato me, te e le infelici che quell'infame ha assassinato. Diss'egli con voce sorda. Vuoi tu venir meco? Io per te affronterò ogni cosa.

La fanciulla si tirò indietro spaventata.

– No, no: diss'ella.

Pagliaccio la prese violentemente tra le braccia, la serrò con passione convulsa al suo seno, le stampò sulle labbra un bacio che ardeva, poi lasciatala libera, quasi respingendola da sè; fuggi dalla parte posteriore del baraccone. Zoe mai più non lo vide, nè mai più intese novella di lui.

Alla morte del saltimbanco, nella piccola compagnia ridotta alla donna ed alle due giovinette, successe la maggiore miseria che avessero ancora provato mai. I guadagni che si facevano ora, sulle pubbliche piazze dove erano tornate a dare spettacolo, dopo vendute le cose migliori; que' guadagni erano sì pochi che appena se ne avevano il pane da sostentarsi. L'umore della donna non avea ragione di abbonirsi e i mali trattamenti fioccavano sulle povere fanciulle rimaste alla discrezione della sua anima crudele e scellerata.

Zoe meditava sottrarsi ad ogni modo a quella vita d'inferno, quando la fortuna volle aiutarla, porgendogliene il mezzo. Il direttore d'una compagnia di cavallerizzi, vistala un giorno a fare i suoi esercizi sulla piazza, comprese che quella avrebbe facilmente potuto diventare una eccellente artista per la sua compagnia e fu dalla donnaccia, cui credeva madre della giovinetta, a domandargliela. La megera, che aveva soltanto più quelle due povere creature onde guadagnarsi il pane, rifiutò con male parole; ma Zoe, quando seppe che la compagnia equestre stava per partire da quella città, scappò di casa, e recatasi al direttore della medesima, gli disse:

– Son qua. Pigliatemi se volete e vi seguirò sino in capo al mondo.

Due anni dopo Zoe, battezzata col nomignolo di Leggera, faceva l'ammirazione di tutti i frequentatori di questa razza di spettacoli, e vedeva ai suoi piedi gli omaggi e le offerte più o meno spropositate d'un nugolo di libertini giovani e vecchi. Scaltrita come vi ho detto ch'ella era, la ragazza seppe scegliere assai bene i suoi adoratori. Le sue acconciature, che erano di quelle chiamate dai Francesi tapageuses, costavano un occhio della testa e abbagliavano tutte le donne oneste in tutte le città dove recavasi a dare rappresentazioni la Compagnia. Avrebbe potuto cento volte abbandonare il dorso nudo del cavallo e le sottanine di garza per darsi di proposito alla rovina di qualche Creso; ma non si affrettava nella scelta, perchè le piaceva il lusinghiero tumulto del circo plaudente, la inebbriava il grossolano incenso dei battimani e delle grida d'entusiasmo della plebaglia stivata ad ammirarla nell'ultima galleria, le mordeva per così dire con diletto l'anima la lotta incessante col pericolo sempre affrontato e vinto. Nessuno era più temerario nel suo ardimento di lei, che le chiome rossigne abbandonate al vento passava innanzi ai guardi del pubblico sbalordito, al galoppo furibondo del suo cavallo, come una meteora, sicura, sorridente, colle sue forme di corpo da statua greca e la sua faccia e il suo atteggio da cortigiana e da baccante. Essa sapeva che, se non i cuori, i desiderii di tutti quegli uomini che la saettavano cogli occhi accesi, la seguitavano in quella corsa sfrenata, e se ne compiaceva con maligno disprezzo del sesso forte in fondo alla sua indole così prematuramente corrotta. Quando aveva fatto fremere tutte quelle centinaia di spettatori pei rischi a cui si esponeva con superba indifferenza, quando chiamata nell'arena sei o sette volte alle ovazioni del pubblico in entusiasmo, ella veniva a ringraziare con un sorriso che si sarebbe potuto dire quello d'una Messalina stanca ma non sazia, ella ai suoi compagni a mezza bocca soleva dire, mostrando il pubblico con una occhiata piena di disprezzo: – Massa d'imbecilli! – Ma l'unica cosa che le facesse battere un pochino il cuore erano tuttavia gli applausi di quegl'imbecilli.