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Buch lesen: «Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!», Seite 5

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XIV

Ebbene, sì, avevi ragione, Giacometta!.. Avevi ragione!..


Il resto della sera non passò troppo lieta.

Giacometta aveva cambiato umore all'improvviso.

Mi ricordo che si parlava di Paolo e Virginia e che io avevo bonariamente osservato come un amore simile mi sarebbe parso troppo pastorale, troppo candido…

Giacometta non aveva detto niente; ma io, che la guardavo sempre, avevo notato una subita ombra negli occhi suoi e la sua fronte si era leggermente corrugata.

– Ho detto male, Giacometta?

Ella, per tutta risposta, aveva aperto un giornale e si era messa a leggere.

Gli zii se ne erano andati. Eravamo soli nella sala deserta.

– Giacometta?..

Niente!.. Ormai era lontanissima ed impassibile.

– Sei inquieta, Giacometta?.. Perchè… Giacometta?..

– Non mi seccare!..

E il silenzio più grande, e la più remota distanza eran discesi fra me e lei.

Così, senza che una parola fosse stata detta; senza che vi fosse stato un accenno o il principio di un permale.

Ora leggeva muta e accigliata ed io la guardavo sospirando.

Ciò che si soffre, quando si è innamorati per davvero, è cosa risaputa, dal più al meno, da tutta quanta l'umanità; ma la sofferenza si moltiplica e si esaspera là dove un povero innamorato si trova all'improvviso di fronte a qualche cosa che gli riesce inesplicabile, che lo sbalestra in un mondo di congetture, in un arruffìo di domande senza risposta, in un caos nel quale tanto più si addentra quanto più si sente disperdere. Perchè, in questi casi, l'amore ha la forma e l'inconcepibile voluttà di un lento suicidio. Un uomo si distrugge e lo sente… Ma non può farne a meno. Deve amare e morire, deve misurarsi con la sfinge, deve rispondere alle domande di lei che non ammettono mai risposta. È tutto un giuoco passionale senza equilibrio nel quale l'uomo porta quanto ha di energia intellettuale e fisica e la donna non porta quasi mai niente. O, per lo meno, se porta qualcosa e si distrugge a sua volta, non è certamente per lo stesso amore.

Ebbene, che avevo detto io, giudicando Paolo e Virginia?.. Perchè sentivo di tornarle uggioso; io sentivo ch'ella mi respingeva da sè, stanca, annoiata, satura di ogni apparenza e sostanza.

Ella era un'altra creatura con un'anima diversissima da quella che le avevo conosciuta fino a quel punto.

Mi trovavo per strade e castelli dei quali non avevo immaginato l'esistenza e in cui, pur dovendo soggiornare, non sapevo come soggiornare.

E guardavo Giacometta, sospirando sempre più forte, nella speranza di attirare l'attenzione di lei. Ma è scritto che in amore, salvo eccezioni singolarmente rare, l'uno dei due debba soffrire; ed è scritto altresì che quanto più l'uno soffre, tanto più si inasprisca l'altro nell'esacerbargli la pena.

Questa strana legge presiede l'unione delle anime e dei corpi; ma guai all'amore che non conosca sofferenza! Niente è più in causa allora; e nessuna vera gioia può aprirsi alle misere creature senza mutamento.

V'è certamente una muta e oscura e altissima volontà che ci costringe al dolore, che ci prepara al dolore per guidarci più oltre, sempre più oltre, superata la nostra miseria, verso la pura gioia che si eterna nella immensità stellare. Agli occhi che guardano per entro le anime e i fatti del mondo, questa verità non può sfuggire. Noi siamo a una dura tormentata prova dal primo all'ultimo giorno del nostro vivere.

E la mia prova, cominciata già con l'inopinato salto che l'amore m'aveva costretto a fare, si inaspriva ora in più complicate apparenze, in più sottili dissonanze.

Il silenzio si faceva più penoso, per me, di minuto in minuto: un silenzio ostile nel quale pareva covasse la tempesta destinata a tutto travolgere.

Io pensavo che Giacometta avesse indovinato tutto; che la mia sciocca zia l'avesse urtata fino alla nausea; che io non potessi apparirle ormai se non come un povero diavolo che non poteva disporre neppure della propria volontà.

E non mi dava modo di parlare, evitava guardarmi; si scansava infastidita, se, per caso, una mia mano, abbandonata sulla tavola, le sfiorava il gomito sul quale aveva appoggiato il capo, sempre volgendosi dalla parte nella quale non potevo trovarmi senza possedere il dono della ubiquità.

– Scusa, Giacometta… che cosa ti ho fatto?

Non rispose.

– Ho detto qualcosa che non ti sia piaciuto?

Voltò il giornale e si chinò ancor più sul medesimo come se tutta la sua attenzione fosse assorbita chissà da quale racconto.

– Se ho potuto dispiacerti te ne chiedo scusa!

Nè mi accorgevo che la mia sciocca umiltà esercitava su di lei l'effetto opposto a quello che mi attendevo.

– Dimmi almeno che cosa ti ho fatto?..

Senza levare il capo dal giornale, rispose:

– Mi hai annoiata!.. Vuoi saperlo?

Allora vidi tutto il mio mondo crollare; vidi le speranze che m'erano state sorelle svanire nella livida uniformità della mia povera vita; tutto mi si chiuse d'innanzi agli occhi della mente e mi sentii davvero morire in una squallida miseria di anni senza volto perchè senza amore.

Alla mia candida semplicità non poteva apparire se non come definitivo, l'improvviso atteggiamento di Giacometta.

E certo dovevo esser pallido e stravolto perchè ella volse rapidamente gli occhi verso di me e si affrettò a riabbassarli sul giornale accigliandosi ancor più.

– Allora… tutto è finito?.. Tutto è finito, Giacometta?.. Rispondimi!..

Si levò; piegò il giornale con minuziosa cura; si guardò intorno e si mosse per avviarsi.

– Mi lasci così?..

Si fermò appoggiando una mano alla tavola e mi chiese a sua volta con la maggiore indifferenza:

– Come dovrei lasciarti?

Non solo la sua voce era fredda, ma da tutta la sua persona appariva una grandissima noia.

– Non so… Credo di non meritare questo trattamento!..

– Quale trattamento?.. Io non ti so capire davvero!..

Non aggiunsi altre parole.

Giacometta si avviò, lenta e dinoccolata, verso la porta. Ella era veramente un'altra creatura e un'anima diversa era in lei. Quale improvviso dèmone la possedeva? Tutta la sua giovinezza pareva svanita in un infinito disgusto e pareva che la più amara esperienza della terribile inutilità della vita l'avesse smagata sì da renderla insensibile e tanto lontana da ogni cosa e da ogni creatura da non avvertirne la presenza.

Anche il suo volto non era più quello di una bimba; gli occhi avevano perduto la loro azzurra e quieta serenità per farsi torbidi e oscuri; i lineamenti non avevan la morbidezza disciolta de' suoi diciassett'anni, ma si erano induriti fissandosi in una linea aspra.

Giunse così fino alla porta, camminando come se una suprema stanchezza la stroncasse e non fosse in grado di muovere il passo sicuro.

Giunta all'uscita si fermò presso una mensola e si guardò nella grande specchiera situata all'angolo della sala.

C'erano dinnanzi a lei, sulla mensola, tre piccole rare ceramiche. Le guardò un poco poi con gesto inatteso e rapidissimo, le afferrò l'una dopo l'altra e le scagliò contro il muro opposto.

Ero sbigottito.

Come se niente fosse pose la mano sulla maniglia della porta; ma, prima di uscire, si rivolse a me e con voce strascicata disse:

– Vi prego di non ritornare se non sarò io a chiamarvi!

Poi uscì.

Ed io rimasi come il gavitello disancorato che appare e scompare sulla cresta dei marosi.

XV

Non suicidatevi. Sarebbe un imperdonabile errore.


Era notte alta e ancora giravo per le deserte vie della città semibuia.

Avevo deciso di non ritornare a casa. Dovevo andarmene lontano da tutto e da tutti; dovevo lasciare, una volta per sempre, la signora Adalgisa e la piccola città grugnita fra i suoi tre campanili.

Già che la fortuna mi aveva creato libero, dovevo valermi della mia libertà.

Quante mai volte non m'ero io soffermato, sul tramonto, ad ascoltare il rombo di un treno che si allontanava verso l'imminente sera? E quante mai volte, per un senso di penata impotenza, non avevo sospirato dietro quel rombo che, pareva a me, fosse avviato verso tutte le terre promesse, verso tutte le musiche lontane? Oh, potersi lanciare nel solco del sogno; nella luminosa scia della nave che scomparirà fra breve, che non sarà più niente fra breve ma una esilissima traccia di fumo nell'ultimo cielo!.

Tutta la mia passionata anima voleva ora, voleva fortemente, non già per fuggire il dolore, ma per non languire nel dolore. Portarsi via la propria sofferenza; essere una faccia pallida e ignota nella grande fiumana degli ignoti, via per le strade della terra.

Io volevo questo.

Quella notte c'era, anche in me, un filo di tragedia.

Sì, signori e signore, io camminavo quella notte, sull'orlo di un precipizio, perchè Giacometta aveva fatto di me quell'uso che si fa di una sigaretta che non garba: la si accende appena e la si lascia incenerire sull'orlo di un portacenere.

Io potevo incenerire mandando il mio esile fiocco di sogni per l'aria; ma Giacometta non si sarebbe commossa.

Ormai lo sapevo. Ero partito dalla casa di lei irritatissimo contro me stesso e più che deciso di punirmi perchè non volevo soffrire come soffrivo.

Questo era il filo di tragedia.

E avevo incominciato a correre per la notte, non per la furia di arrivare chè non dovevo arrivare proprio in nessun luogo; ma per stordirmi.

Poi, dopo aver corso per un bel pezzo, l'affanno mi aveva costretto ad aver meno fretta.

Ma volevo finirla comunque fosse.

Solo mi capitava di non saper sciegliere il modo per porre ad effetto una tale decisione.

Non avevo neppure una pistola.

Ve lo giuro.

Ero stato, fino allora, un giovane molto calmo e molto lontano da qualsiasi idea estrema.

Ma allora, che mi sarebbe abbisognata, mi accorgevo di non aver neppure una pistola.

Allora m'incamminai verso il fiume, ma tornai indietro molto prima di esservi arrivato. Cioè… sbagliai strada…

Insomma, fa lo stesso! Tornai indietro!

Dopo il fiume mi venne in mente di finirla aprendo il rubinetto del gas…

Però pensai a tempo che in casa mia non potevo darmi a questo scialo perchè di gas non ce n'era.

Pensai ancora di gettarmi da una finestra… Ma avevo già provato un'altra volta e non m'ero fatto niente.

E allora?..

Continuavo a camminare per la notte allorchè mi colpì l'orecchio il suono prodotto, sul selciato delle vie deserte, da uno di quei pesanti carri trainati dai buoi, che sogliono usare i contadini del mio paese.

Si udiva il trabalzare delle basse e pesanti ruote da ciottolo a ciottolo, da buca a buca e si udiva uno scatenìo di ferramenta accompagnato dal metallico dondolio della caviglia delle anella. A quando a quando i vetri delle finestre vibravano al passare del carro che pareva scuotesse le piccole case dalle fondamenta.

Un bove muggì. Si udì una porta chiudersi di forza. Sotto la rada linea dei fanali la strada dormiva luccicando ne' suoi ciottoli.

Poi una voce maschia si levò a cantare. Mi fermai. Musica e parole eran tutt'uno; semplici e chiare l'una e le altre.

 
Torna al tu' paès
Girometta…
torna al tu' paès…
 

Una canzone dei secoli sopra un ritmo malinconico.

Così come canta il popolo, sempre.

Come canta quando non prende a prestito, da chi non ha l'anima sua, la musica che non vive perchè non rispecchia un po' di universo e non piange o ride nel cuore delle moltitudini.

 
Torna al tu' paès
Girometta…
torna al tu' paès…
 

Mi scendeva al cuore, ascoltando, una più umana quietudine… l'ombra sacra di un focolare; il sorriso di una placida creatura.

Ma Girometta?.. Così appunto le persone del popolo chiamavano la mia bella crudele.

Girometta!.. C'era un sentore di arie lontane, di costumi diversi, di pace infinita. Girometta dal bel neo a sommo della guancia sinistra e dalla candida parrucca; Girometta uscita dal chiostro sognando gavotte ed abatini e cavalieri serventi… Girometta che avrebbe combinato il suo adulterio con candore monacale, senza pensare al peccato, ma solo per distrazione come avviene qualche volta quando la vita si aduggia e il marito diventa una cosa che mangia e dorme e si ricorda di Girometta solo qualche volta nel giro di una settimana, perchè il letto è tepido e la giovane moglie non dorme…

Sì, Girometta, sì!..

Tu non potrai essere moglie perchè sei troppo dell'amore. Tu sarai sempre una spaesata nel regno del matrimonio.

 
Torna al tu' paès
Girometta…
torna al tu' paès…
 

Poi l'adolescente che cantava, lasciò morire la sua chiara voce lentamente nell'ultima cadenza lunghissima e non riprese.

Le case dalle finestre aperte, le vecchie vecchie case della mia Tebaide, ascoltavano ancora; aspettavano ancora che Girometta rivivesse, come una volta.

 
Torna al tuo paese… Girometta…
 

Queste sole parole, queste sole parole udivo e riudivo nel silenzio del mio essere… queste sole parole come un ammonimento solenne.

 
Ma quale era il paese di Girometta?
 

Non il mio, non quello dove era nata, non un altro purchessia…

 
Quale era il paese di Girometta?..
 

Forse stava nel giro di un'ora… forse nel battito di un secondo… forse nell'ultima stella sperduta in fondo all'universo…

Perchè noi abbiamo inventato le parole per creare confini su confini e ad un tratto ci accorgiamo di essere al di là di ogni finzione, al di là di ogni figurazione: soli… ma terribilmente soli nella smisurata profondità del niente.

Noi stessi qualche volta ci accorgiamo di non avere, di non poter avere un paese.

Potevo io adunque fissare un luogo dove l'anima di Girometta fosse apparsa e potesse dimorare in perfetto equilibrio, fusa e confusa con le cose del mondo?

Ella, in realtà, ritornava di continuo da dove era venuta e cioè nell'ombra, nel mistero dell'indagabile. Ella si perdeva come era apparsa e senza saperlo. Ah, Girometta, mio soave mistero stellare, io allora ti consacravo la mia pena e il mio tormentato pensiero con tale profonda e spontanea dedizione che facesti male a non accorgertene.

Facesti male perchè questa era una ricchezza vera e, se tu ben guardi, al mondo, per chi non viva solo per il ventre, non ve ne sono altre.

Ripresi la strada verso la luce che si annunziava dalle lontananze del cielo. E camminai, camminai benchè incominciassi a sentirmi stanco.

Un senso di pesantezza mi gravava sugli occhi. Uscii per la campagna. Sedetti sulla proda di un fosso, vicino a un mucchio di ghiaia. Incominciarono a cinguettare i passeri. Da una pieve si udì una campana che suonava l'alba.

Quale era ormai il mio giardino nel mondo?

Mi abbandonai col dorso sul mucchio di ghiaia che non mi parve duro.

Ah Girometta!.. In fondo a quale strada eri tu allora?..

Dove andavi… tanto mai lontana… sotto l'alba, con lo squillo di una pieve?..

Dove… dove andavi tu… Girometta?..

E chiusi gli occhi sulla strada sterminata di Girometta…

E mi addormentai.

XVI

Non raccontate mai alle vecchie pettegole ciò che avete fatto con l'amor vostro.


Riuscii ad entrare in casa verso le sette quando la signora Adalgisa era fuori per la spesa. Era mia intenzione di non veder più mia zia e di non aver con lei spiegazioni. Il proposito di andarmene per sempre non era tramontato in me, anzi si era rafforzato per nuove considerazioni ponderate.

Al mondo non avevo, di veramente mio, che una cosa della quale era necessario mi disfacessi.

Mio padre m'aveva lasciato in eredità le gioie della famiglia.

Oh, le gioie della famiglia Balduino!..

Sì, signori miei, erano poca cosa e non certo tale da paragonarsi al tesoro della Basilica di San Marco; però potevo ricavarne qualche migliaio di lire e cioè il necessario per andarmene.

Presi adunque i piccoli e i grandi astucci, li infilai nelle tasche ed uscii.

Necessariamente la vendita non fu cosa facile ma, dopo vari rifiuti, trovai, in un vicoletto, un vecchio strozzino che comprò tutto per duemila lire.

Ora il problema si complicava. Come ritornare a casa senza incontrare la signora Adalgisa? E non volevo partire senza un vestito e un paio di scarpe e la bicicletta. Affrontai la burrasca.

Mi dissi:

– Tu ti farai di smalto, Francesco Balduino!

Entrai in casa che eran forse le undici del mattino e, la prima cosa che vidi quando aprii la porta, fu la faccia della signora Adalgisa.

Ora, quale non fu la mia sorpresa, quando mi accorsi che mia zia mi sorrideva? Mi domandò:

– Che cos'hai fatto ragazzo mio? Sei tanto pallido!.. Hai due occhiaie che sembri malato. Ah, Francesco, non bisogna approfittare così della giovinezza!

E questo?.. Che voleva dir questo?.. Dovevano davvero toccare a me tutte le esperienze nel più breve tempo possibile?

Mi avviai verso la mia stanza. Donna Adalgisa mi tenne dietro.

– Zia… Vorrei dormire…

– Sì, caro, sì! Ma aspetta che ti faccia un caffè.

– Non lo prendo, zia.

– Vuoi due uova?

– No, vi ringrazio.

– Prendi due uova. Ti faranno bene dopo la notte che hai passata.

E che ne sapeva lei?

– Non ti ho sentito rientrare questa notte, ed ho pensato che tu fossi rimasto con Giacometta.

– Che cosa?

– Lo so bene che certe faccende non si raccontano – riprese fra il furbo e lo scherzoso – … però bambino mio, non bisogna strapazzarsi tanto…

L'ascoltavo senza risponderle.

– Dunque ti porto due uova frullate nel caffè?

– No, grazie.

– Ma ci vogliono, tesoro mio, ci vogliono!.. Chissà che cosa avrete fatto!..

Incominciai a girare per la stanza e a spogliarmi.

– Ti vuol bene veramente quella ragazza…

Un passerotto volò sulla finestra, nel sole d'oro della mia finestra.

– … e te ne ha dato anche una bella prova!..

Entrò, dal giardino, un calabrone che si dette a ronzare furiosamente.

– Perchè, non tutte, credi a me, non tutte sono disposte a certi anticipi!..

Gettai il colletto sul canterale.

– Come sei rabbioso!.. È questo il bell'effetto che ti fa l'amore?..

Mi tolsi una scarpa e la lanciai lontano.

– Di' un po': era davvero come va?..

La seconda scarpa raggiunse la prima.

– Perchè le ragazze d'oggigiorno, molte volte, lasciano la loro primizia fra gli spini della strada. Non è più come una volta che si poteva giurare di trovarle come le aveva fatte la mamma!.. Noi portavamo al marito proprio il fiore… sai?.. il fiore!..

Dio, che schifo!..

E avevo una voglia matta di dirle:

– E qual fiore potevate portar voi, monna Schifalpoco, con quel naso come una durlindana?..

Questo avrei voluto dirle ma mi trattenni. Mi annoiava parlare. Poi non ne valeva la pena.

Prima di togliermi gli ultimi indumenti attendevo che il mio domestico tormento se ne andasse. Ma ella non ci sentiva da quest'orecchio; era presa dalla curiosità delle vecchie sudicione che vogliono sapere come sono andate le cose.

Dunque la nostra vita in comune mi era valsa a far sì che la signora Adalgisa conoscesse l'anima mia quanto gli anelli di Saturno? Ma poteva ella credere ch'io fossi stato disposto (dato per vero ciò che supponeva) a raccontarle la faccenda ne' suoi particolari? Certo il mio viso non doveva apparirle calmo e sereno se ad un tratto mi domandò:

– Ma si può sapere che cos'hai?

– Sono stanco!

– E va bene… sarai stanco… ma potresti anche confidarti alla tua vecchia zia.

Allora quel po' di pazienza che mi rimaneva se ne andò in fumo.

– Sapete quel che vi ho a dire?.. Che mi avete seccato!..

– Eh!.. che furia!.. Non ti si può più parlare oramai!.. Sì, me ne vado… me ne vado… ma non diremo che da ieri sera tu sia stato troppo gentile con chi ti vuol bene!.. Hai ragione che ci è di mezzo qualcosa di molto più importante… altrimenti…

E, su tale minaccia, mi voltò le terga e se ne andò.

Non appena rimasi solo, mia prima cura fu quella di chiudere l'uscio a doppia mandata. Volevo assicurarmi la solitudine. Mi accostai poi alla finestra… guardai nel mio ex giardino incantato…

Tutto fioriva, tutto era sereno. Un chiaro d'acqua, nel cuor di una vasca verde di muffe, rispecchiava la pace addormentata del sereno.

Una siepe di tamerici, come una nebbia turchiniccia chiudeva un prato…

C'era il sole del mattino… c'erano i fiori del ciliegio… c'era un'allodola altissima che cantava l'inno di una larga1 pastora… c'eri tu, Primavera!.. Ma nel mio cuore cadevan le foglie di un albero morto in fondo a una strada… in fondo a un giardino senza nome…

Mi ritrassi e m'abbandonai sul mio piccolo letto bianco. Poi il sonno troncò la favola triste e, in me, non fu più niente, se non un grande riposo.

XVII

Qualche volta partire a tempo vuol dire raccogliere a tempo.


Già sopravveniva la sera quando mi destai. Ritornai alla vita come se arrivassi per la prima volta da una incommensurata distanza. Non ricordavo più niente; non sapevo più dove mi trovassi; non avevo nozione nè dell'ora nè del tempo nè del mio essere.

Le prime idee che mi ritornarono alla mente furono tronche e disparate; mi ci volle fatica per raccogliere la memoria e porre l'anima mia sulla strada quotidiana, dietro le orme interrotte.

Comunque fosse, per lungo tempo rimase in me un singolare smarrimento come se, in verità, la morte mi avesse preso e abbandonato di bel nuovo sulle vie della terra.

Girai per la stanza senza sapere che volessi nè che mi cercassi. Mi accostai al canterale, poi al tavolo e gli occhi miei si posavano perdutamente sulle cose senza riconoscerle.

Fu un canto che mi richiamò alla finzione dei giorni; un canto che mi arrivò dal fondo del giardino, addolcito dalla lontananza.

Era Principina, il piccolo amore del silenzio.

Di un subito, la trama che il sonno aveva troncata, riprese il palpito del mio cuore, la vita del mio cervello.

Guardai l'orologio. Erano le sette del pomeriggio. Giusto l'ora decisa per la mia partenza.

Ciò che avevo fissato doveva compiersi. Mentre andavo e venivo per la stanza, mi accadde di vedere, vicino alla finestra, un involtino bianco. Lo guardai dapprima distrattamente senza farne gran caso. Mi parve un po' di carta accartocciata ch'io stesso, molto verosimilmente, avevo gettato in quell'angolo; volli accertarmene.

Era una lettera piegata in modo da contenere un ciottolo.

Evidentemente era arrivata dal giardino durante il mio sonno.

L'aprii; riconobbi la scrittura di Giacometta.

Diceva:

«La ghirlandella è sempre al suo posto».

Ebbene, signori miei, quando ebbi letta quella frase, divenni pallido, ebbi un attimo di dubbio e una grande stretta al cuore, ma dissi:

– Se la ghirlandella c'è ancora… tanti saluti!..

E continuai i miei preparativi.

Ormai mi si era ficcata in mente l'idea della partenza con una fissità da incubo.

– Tu devi andartene – mi dicevo – devi andartene!.. Non è giusto che ti si debba far soffrire così. Parti finchè puoi farlo… finchè hai ancora un po' di volontà che ti regge. Domani non saresti più in tempo.

Sapevo che la mia signora zia, verso le sette e mezza, era sempre in chiesa. L'ora era adunque propizia. Feci un giro di ispezione per accertarmi se, anche quella sera, aveva seguito il suo costume e, quando non mi rimase dubbio, infilai il mio sacco a spalla, presi la bicicletta e senza rivolgermi, senza guardare nè a destra nè a sinistra, ma solo e diritto dinnanzi a me, infilai le scale e in quattro salti fui nella strada.

Il Borgo dei Cotogni era affollato in quell'ora, ma non feci che inforcare la bicicletta e scivolar via fra uomini e vetture pedalando furiosamente.

In un battibaleno fui alla porta Schiavonìa, attraversai il ponte sul fiume e mi lanciai, in una corsa pazza, per la grande via maestra che costeggiava i colli proseguendo, sempre diritta, fra campi e ville.

Rallentai l'andatura quando riconobbi di essere ormai fuori della zona della mia Tebaide. Scelsi il sentieruccio che correva fra i mucchi della ghiaia e il fosso, come quello più agevole a percorrersi in bicicletta; mi levai sul torso; l'anima mia ritornò in comunione con le cose del mondo.

Mancavano ancora sette chilometri prima di arrivare alla città più vicina e, benchè la luce si spengesse sempre più di secondo in secondo, non provavo ansietà di arrivare.

Ormai me ne andavo per la terra… ma dove?.. ma verso quale meta?.. Non lo sapevo; non m'importava saperlo. Affidavo me stesso al destino. Il primo vento che passa mi porterà al nord o al sud; la prima corrente mi trascinerà dove vuole. Ciò che sarà di me, sarà sempre bene.

Perchè accorarsi dietro il mistero dei giorni? Io seguivo il mio istinto che mi conduceva verso l'ignoto; immaginando tuttavia che l'ignoto sarebbe stato sempre più lontano, benchè, in realtà, fosse in me e nell'irraggiungibile. Ma la dolce tristezza di partire e di ripartire era già padrona dello spirito mio fin da quel tempo; l'amarezza ineffabile di rifarsi sempre da capo, di soffrire ancora per ancora sperare nella gioia, io la conoscevo fin da quei giorni remoti ormai e inabissati nell'ombra che dovrà inghiottirmi.

Io sapevo fin da allora che il mio destino segnato era la solitudine perchè ciò che agli altri era pace, riusciva tormento al mio spirito e ciò che i miei simili sognavano come un confine desiderato, appariva agli occhi miei come una insoffribile catena.

Io dovevo partire e ripartire; essere il pellegrino di tutti i soli; il pastore che appare un attimo per una strada remota, con la sua stella, dietro una bianca gregge di sogni.

Questa era la mia innamorata malinconia; questo il cuor mio di passante; questa l'ebbra canzone e l'elegia de' miei giorni.

Mi intenderà forse chi ha ascoltato, come io ascoltavo ogni notte, fanciullo, il rombo di un treno perdersi nella remota distanza fino al confine della nostalgia e più in là della nostalgia; mi intenderà chi ha avuto sempre una nomade speranza in fondo al suo sistemato cuore e con quella ha riposato, sognando, il giorno in cui la vita gli è apparsa più vana e monotona e gli uomini sedentarî più insopportabili; e meglio mi intenderà ancora colui che sente morire nella quotidiana povertà dei giorni, ogni poesia: e sogna e spera e inutilmente cerca la nuova parola di Dio, il nuovo rito dell'amore, la freschezza di una nuova acqua fontana che scenda fra le genti abbrutite e angosciate, come una purificazione.

Costoro m'intenderanno quando ci sarà dato incontrarci in un silenzio propizio; soli costoro che sono i poeti del mondo.

E se anche dovessi rimanere senza compagno come sempre sono stato fino a questo punto della vita mia, non mi dorrei ora, come pure più tardi, fino all'attimo mio del trapasso; non mi dorrei della decisione che presi quella sera quando mi affidai al primo vento che passava e alla prima corrente, allorchè mi dissi:

– Ciò che sarà di me, sarà sempre bene!

E il canto più remoto fu quello dell'amor mio; e la strada più lontana quella del mio desiderio; e la sete del mistero fu la mia sola sete.

La luce era ancora sui colli in una delicata bordatura di croco e già cominciavano a comparire le stelle. Io portavo con me l'eredità della mia malinconia.

E ciò farà sorridere, voi, signori, che mi leggete nei vostri salotti dal discreto profumo e bene illuminati… vi farà sorridere un poco perchè è giusto che così sia con chi, come me, è stato il giullare della propria vita! Ha fatto cioè della vita non un tutto organico come un sistema filosofico; non una cosa ordinata giorno per giorno: un po' per la donna, un po' per gli affari, o per l'arte, o per la famiglia… No!.. Anzi ha gettata questa sua vita al primo vento che passava: senza temere la povertà, senza impaurirsi della solitudine… ma solo per partire e ripartire… solo per cercare Iddio e l'amore nel solco della sua tristezza, nell'impeto della sua gioia, nell'angoscia eterna del suo cuore sempre innamorato e sempre insoddisfatto.

Sì, io sono stato il giullare della mia vita, signori e signore, e questa cosa tremendamente seria, per voi, io me la sono giuocata al giuoco di tutte le esperienze, incominciando dai diciannove anni.

Me la son giuocata a tutti i giuochi; l'ho gettata alla prima corrente, sempre felice di poter vivere un giorno che non sapevo e un'ora che non avevo preveduta.

Ma anche quella sera, pure seguendo il mio istinto, ero più innamorato che mai.

Io ero perduto in te, Girometta dall'ignoto paese, e avevo, pure allontanandomi, ferma speranza di rivederti.

Giunsi a Bologna a notte alta.

Scesi ad un primo albergo.

Fin da quel tempo, benchè povero, non sapevo rassegnarmi a risparmiare per battere la strada della povera gente come me. Il mio primo pensiero fu quello di scrivere a Giacometta.

Fui felice quando mi portarono innanzi, nella bene addobbata sala di scrittura, dove presi posto, della carta da lettere e delle buste come non avevo usate mai.

E, Giacometta… (ma in fondo a quale strada sarai ora?..) ero quasi felice di poterti scrivere così riccamente.

Però quando incominciai e fui tutto solo, con te sola, la mia commozione mi vinse e dimenticai il luogo e gli accessorî.

Lo ricordi tu quel che ti scrissi allora?.. Quella lettera mia, in fondo a quale cassetto sarà ancora, se ancora esiste?..

Mi parve di averti dette tante cose belle e tu lo sentisti, perchè due giorni dopo, quando mi levai, c'era un tuo telegramma che mi aspettava.

Un tuo telegramma come un mattutino squillo di campane d'argento:

«Amore amore – aspettami domani a mezzogiorno – aspettami all'albergo amore mio

Giacometta.»

E forse non ti eri accorta di avere scritto in versi. Ah, quanto, quanto eri mai bella, mia dolce Bologna, in quel mattino della fine di aprile!

1.Si chiama larga, in Romagna, una vastissima zona di terra senza alberi; tutta a prati, con qualche stagno, talvolta.