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Buch lesen: «Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!», Seite 4

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Signore mie, allora avevo diciannove anni e non vi meraviglierete se due lacrime mi scesero per la faccia ruzzolando precipitosamente. Avevo diciannove anni, signore mie, e un cuore che non conosceva la volgarità e mi commovevo e mi entusiasmavo perchè mi piaceva di regalare me stesso, non avendo proprio niente altro da regalare. Pensate a questo, prima di giudicarmi severamente, perchè, se piansi allora, vi giuro che avevo ragione. Forse potrete rimproverarmi la facilità con la quale prendevo tutto troppo sul serio; ma che ci potevo fare io se, in quel punto, Giacometta era sincera? Perchè Giacometta era sempre sincera e sempre al di là del bene e del male e se non aveva una linea continuativa, se non voleva essere e non poteva addimostrarsi eterna nelle cose sue, come piacerebbe alla vostra sentimentalità, care signore, ebbene la colpa non era nè sua nè mia.

– Pensa adunque, Franzi, in quale orgasmo io vivessi. Guarda, è la prima volta che ne parlo… tu sei il primo al quale confido il segreto della mia fanciullezza ed ora che, per parlarti, mi costringo a rivivere le sensazioni di quei giorni, mi sento avvincere dallo stesso fascino, tanto che non so più se tutto ciò sia avvenuto nei pochi anni di questa mia vita o in un punto indeterminato nelle lontananze del tempo, quando non ero quella che oggi sono, qui, in quest'ora di aprile… accanto a te che mi vuoi bene.

«Siccome in un giorno solo non potevo vedere e saper tutto quanto era racchiuso nei cassetti del vecchio canterale, presi l'abitudine di chiudere a chiave la stanza di nonna Tatiana e di non abbandonare detta chiave neppure nel sonno. Ogni giorno ritornavo nel mio sacrario e mi vi rinserravo. Così potei scorrere tutte le lettere scambiate fra nonna Tatiana e nonno Felice e così mi capitò sottomano un libriccino rilegato, nel quale la nonna scriveva il suo diario. Capii che Tatiana si era negata a nonno Felice fino al giorno delle nozze, ma nonno Felice non aveva saputo o voluto prenderla. Ciò che piaceva alla giovinetta selvaggia non entrava nella mente dell'uomo abituato a vivere nel fondo di una quieta provincia dove tutto si cristallizza, nei secoli, in dogmi ferrei e la mente, cresciuta sotto il peso di tali dogmi, perde l'elasticità, la bellezza creativa, il senso della libertà e della gioia. L'amore di nonno Felice era grande ma vestiva il costume del suo tempo, povero amore! E nonna Tatiana, fin dai suoi primi anni, aveva imparato a crear la sua libera vita fra i pericoli, fra gli ardimenti, sola col suo istinto, la sua fierezza e la sua giovine forza dominatrice. Fra i due c'era, in realtà, un abisso. Così all'una sarebbe piaciuto di esser subitamente ghermita da un bell'uomo predace, simile allo sparviero, mentre all'altro piaceva la santità dell'imene.

«Ritornando al diario di nonna Tatiana, il punto che più può interessarti, ora che ti ho raccontato tutto, è quello che precede di qualche giorno la celebrazione del matrimonio. Io so a memoria il piccolo diario. Ora in una pagina che porta la data del 20 maggio 1820 è scritto: – Fra quattro giorni crederanno di aver fatto di me una povera cosa nel ritmo della loro pallida vita; fra quattro giorni crederanno di avermi vincolata per sempre. E perchè? Quale parte mia potranno vincolare che io non voglia? Chi è questa gente? Quando mai mi è stata VICINA? Ho detto a Felice: «Perchè vuoi questo? Non ti accontenti del mio amore? Non hai paura di ucciderlo facendolo passare fra la polvere di queste strade?» Ma Felice non mi ha intesa. Egli non vede che per gli occhi dei suoi; non agisce che per mantenersi ligio agli usi de' suoi borghigiani. Ed io? Crede egli di non potermi perdere quando mi abbia sposata? E crede ancora che mi deciderò a sposarlo se prima non avrà ubbidito al rito della mia gente e non mi avrà dimostrato di essere sempre padrone dell'anima sua e del suo coraggio? Questa notte gli parlerò. Ho veduto, in fondo al giardino, un muro con una pianta di gelsomini in fiore. Là intesserò la mia piccola ghirlanda ch'egli dovrà conquistare e riconquistare di notte in notte finchè non lo chiami e non gli dica:«Ora sono tua anche attraverso alle tue consuetudini e per le tue grige strade piene di polvere e di vento…

«In un'altra pagina che reca la data del 22 maggio 1820, nonna Tatiana scriveva: – Oggi, sul tramonto, siamo scesi in giardino. Ho accompagnato Felice al muro dei gelsomini ed ho intessuto la ghirlandella. Egli mi guardava fare senza aprir bocca. Fiore per fiore ho pronunziato la parola rituale, poi ho fatto appendere la piccola ghirlanda, in cima in cima al più alto ramo di una betulla. Se domattina il vento non l'avrà fatta cadere e il mio destino mi avrà detto, così, ch'io devo affrontare questa avventura, incomincierà la prova di Felice. Ho fatto rimandare il matrimonio di venti giorni…

«Ahi, scarno Felice!.. Io stavo, ora, come chi si sente preso dal più grande vortice oceanico, là dove si incrociano le immense correnti.»

Ma Giacometta continuava a parlare e dovevo ben conoscere le oscure fasi della prova alla quale dovette sottostare nonno Felice.

– Da questo punto – continuò Giacometta – il diario di nonna Tatiana non è più particolareggiato ma prosegue per sommi capi, accennando a qualche fatto incomprensibile. Vi è una pagina, che reca la data del 2 giugno 1820, la quale dice: – Ho passato una notte in grandissima pena. Felice non è ritornato che verso l'alba. Quando mi è comparso innanzi era stravolto e aveva le mani e la faccia insanguinate. – Poi, al 5 giugno, scriveva: – Ha vinto! È mio! Tutto ciò che ha compiuto resterà nel mistero. Nessuna legge potrà colpirlo. Poi il mio amore è grande e lo difende. – Questa è l'ultima giornata del diario di nonna Tatiana.

– E… sposarono? – domandai.

– Sì, sposarono. Ebbero tre figli; ma dopo cinque anni di vita comune, nonna Tatiana scomparve e nessuno ne seppe più niente.

«Si eclissò il giorno in cui credette di non essere più amata come voleva. Questa la storia che ti volevo raccontare: un po' perchè ti fosse nota la vita di questa stramba Giacometta che tu giudicherai chissà come; un po' perchè tu sapessi la ragione di ciò che pretendo da te per amarti compiutamente. Un giorno, la prima volta che ci parlammo, mi pare, ti dissi che in questo stesso luogo io avrei intessuta una ghirlandella di gelsomini. Ora vedremo che mi dirà il destino; ma sono certa della risposta perchè ti voglio bene. Ti voglio bene e non ti sposerò appunto per questo.

– È giusto. Ma… come mai ti son potuto piacere? Proprio io che sono un povero giovine senza alcun valore?..

– Perchè non mi hai chiesto niente e non mi avresti mai chiesto niente. Non è forse vero?

– Oh, questo è verissimo!

– Appunto! La scelta è stata mia e non tua. D'altra parte sentivo che tu non eri come gli altri.

Dopo aver tanto parlato, Giacometta rimase per un poco assorta, il volto nascosto fra le piccole mani. Poi si riscosse e si levò.

Volgeva l'ora più soave del giorno, quando il sole si affaccia un po' più lontano e cammina sulle grandi strade dietro l'ombre che lo fuggono.

Si udiva Principina cantare da una serra lontana. Si vide Girolamo attraversare un viale e scomparire, a testa bassa, fra i fiori che faceva nascere.

Giacometta raccoglieva, ora, lunghi tralci di gelsomino e ne distaccava i fiori che lasciava cadere nelle mie mani congiunte a giumella. Quando le mani mie furono colme, si guardò intorno a cercare un luogo nel quale riporre la raccolta; poi sedette sull'erba e mi fece cenno di lasciarle cadere sul grembo la bianca messe. Io continuai l'opera ed ella, frattanto, componeva lentamente una spessa ghirlandella.

Piegati a cerchio varii tralci di gelsomino e di vitalba e intrecciatili fra di loro, trasceglieva tra i fiori che aveva sul grembo, quelli che eran più grandi e sbocciati, e li fissava fra le connessure del fusto, tanto vicini da non lasciar il benchè minimo spazio fra l'uno e l'altro. Le nasceva così una bianca e soave ghirlanda. Si era ella composta sul verde prato, in un atto soave, il volto un poco inchino, soccallate le palpebre, ma appena, sì che le lunghe ciglia, leggermente arcuate, le raccoglievan nell'orbita un più oscuro colore che rammentava quello delle violette. Ed aveva il sole sui capelli ad onde, e a sommo del volto, e sulla persona sottile che si stagliava così, fra i fiori e le piante, in una aggraziata levità da core.

Poi, a questa grazia, una nuova se ne aggiunse che nacque improvvisa. Si riudì di molto lontano il canto di Principina e allora anche Giacometta incominciò a cantare.

Ora il sole era già presso al tramonto quando Giacometta balzò in un grido festoso.

– Franzi, Franzi, questa piccola cosa nata dal nostro amore dovrà indicarci la strada nostra!

Poi, posata la ghirlandella sui capelli riprese sorridendo:

– Ora baciami!

E la baciai sulla bocca.

XII

Se trovi una ghirlandella, non perdere troppo tempo


Questa era adunque la cosa che Giacometta ricordò di aver dimenticata quando eravamo sul punto di cadere avvinti fra l'erba di un prato deserto; e questi i barbarici riti che la mia bella spietata aveva appresi e conservava in sacra eredità dalla sua selvaggia antenata Tatiana.

Ora Giacometta, voltasi intorno e veduto Girolamo passare con una scala a pinoli, lo chiamò a gran voce e, come fu vicino, gli ordinò di posar la scala sopra una vecchia ed altissima betulla che sorgeva in mezzo ad un prato, dietro il muro dei gelsomini.

Quando ebbe fatto questo il vecchio giardiniere riprese la strada lemme lemme, a testa bassa, scomparendo tra i fiori ch'egli faceva nascere.

Poi che fummo soli, Giacometta riprese:

– Vedi quel ramo?.. Quell'ultimo ramo là, in alto?

– Sì.

– Bene: tu devi appendere la nostra ghirlanda lassù.

L'impresa non era facile ma la condussi a termine.

Riprendemmo la strada con l'ultima luce del giorno. Però non era tanto buia l'aria che, giunti presso la finestra della mia soffitta, non scoprissimo, io con orrore e Giacometta con curiosità, un'ombra appoggiata al davanzale delle mie lunghe attese.

Ed io vidi bene di che si trattava e avrei voluto cambiar cammino, ma non così Giacometta la quale mi domandò:

– Chi c'è lassù, alla tua finestra?

– Non saprei!.. – risposi per distogliere l'attenzione di Giacometta dallo sgradevole fenomeno.

Ma proseguendo ella, scoprì nella pallida luce un fantasma giallo il quale coi più svenevoli e barocchi atteggiamenti pareva voler richiamare l'attenzione nostra.

– Con chi ce l'ha? – chiese Giacometta.

– Sarà una pazza! – risposi.

– La conosci?

– Mai veduta!

– E allora come si trova in casa tua?

– È appunto quello che non mi spiego.

– Guarda come ci saluta…

Io vedevo infatti la mia formidabile zia, nel suo giallo addobbo di raso, agitarsi e protendersi e salutar con le mani e col capo e col torso. E temevo ch'ella stesse per compromettere la mia lunga fatica, come infatti tentò di fare.

Ad un tratto levò la querula voce a un confidenziale saluto, tanto che mi si gelò il sangue quando l'udì dire:

– Buonasera nipotini miei!.. Buonasera!..

Giacometta si fermò e scoppiò a ridere.

– Ma è pazza!..

– Non c'è dubbio – risposi.

– E non hai paura di trovartela in casa quando ritorni?

– No. Ci ho fatto l'abitudine.

– Dunque la conosci?

– Mi par di sì. Deve essere una mia vicina.

– E quando è impazzita?

– Dopo la morte del marito… molti anni fa.

– E perchè veste in quel modo?

– Chi lo sa? Forse era il gusto del suo povero marito.

– Quanto è brutta, povera donna – fece Giacometta avviandosi.

Ed era tempo che si abbandonasse il luogo perchè la signora Adalgisa si disponeva a parlare e sa Iddio che cosa sarebbe uscito da quella sua bocca nera. Però non tanto in fretta ci allontanammo che non la si udisse gridare:

– Checco? Checchino?.. Vieni, sai, che ti aspetto a cena!.. Ci sarebbe un posto anche per Giacomettina se volesse degnarsi di venire in casa nostra! Hai capito, Checco?.. Guarda che ti ho preparato i cappelletti con un cappone che ha fatto un brodo da leccarsi le dita!.. Hai capito, Checco?

Non fui tranquillo se non quando Giacometta, con la sua estrema facilità di tramutare, non mi disse:

– Senti, Franzi, questa sera tu resti con noi, è vero?.. Resti a cena con noi!

Poi, siccome non rispondevo, soggiunse:

– Vuoi farti pregare?

– Ma no, amor mio, – risposi – no!.. Resto anche per tutta l'eternità…

Quando fummo di fronte alla casa bianca dai grandi cristalli, i due zii di Giacometta erano appoggiati agli stipiti della porta, la faccia all'aria. E non ci salutarono neppure, intenti come erano a rifare il verso a un fringuello cieco che cantava alla disperata.

XIII

Ah, dolcezza mia, ch'io ben conobbi, per te, la mia prima ciambella senza buco!..


La sala era grande e cupa. Gli zii mangiavano senza togliere gli occhiali a stanghetta. Allora la casa bianca dai grandi cristalli non era ancora illuminata a luce elettrica.

Dunque, in mezzo alla tavola, non c'era che un lume a petrolio. Ma, per me, c'era Giacometta che aveva tutto il sole ne' suoi capelli biondi. Questo però non toglieva che ci si vedesse poco e che la sala fosse grande e cupa.

Io stavo bene ugualmente perchè Giacometta mi sedeva accanto.

Lo zio Tomaso e lo zio Antonio non ci guardavano neppure, da dietro i loro grandi occhiali a stanghetta; essi masticavano e parlavano di uccelli e di tese e di richiami e di panie e di panioni.

– Sapete Antonio? Bisogna ordinare un po' di quel vischio che ha il Mattirolo. È di ottima qualità.

– Ci ho pensato.

– E bisogna anche andare a Faenza per il mercato degli uccelli. Mi diceva iersera lo Stangone che il Birli ha certe calandre e certi rigogoli da pagarsi a peso d'oro.

– Andremo la prossima settimana.

– E bisogna provvedersi di due o tre civette.

– Non vi pare che sia presto ancora?

– No, questo è il tempo, a volere che la civetta si appasti e cuccuveggi per bene.

– Ma dove trovarle adesso le civette?

– A Faenza.

– Non ce ne sono.

– Come lo sapete?

– Me lo ha detto Stangone, l'altra sera.

– Allora, una di queste notti, andremo noi stessi a cacciarle. È sempre in soffitta il panione per le civette?

– Sì, è sempre in soffitta.

– E il pettirosso è sempre vivo?

– Vive e canta che fa piacere.

– Sapete rifarlo voi il verso alla civetta?

– Io?.. Sono maestro!

– Fate sentire.

– Aspettate.

E lo zio Antonio, dopo aver frugato per qualche tempo nelle ampissime tasche della sua cacciatora, ne tolse un vuoto guscio di chiocciola che si pose fra l'indice e il pollice della mano destra. Assestato che l'ebbe con l'apertura in alto, incominciò a soffiarvi dentro gonfiando le gote e ne trasse un lugubre suono che assomigliava mirabilmente alla infernale risata delle civette e al loro stridulo grido. Tale ingratissima musica che urtava me e Giacometta, garbava, all'opposto, in siffatto modo agli antichi zii, che non pensarono di smetterla tanto presto; anzi, passandosi vicendevolmente il vuoto guscio di chiocciola, e vicendevolmente soffiandovi dentro, cercavano nuove modulazioni e nuovi stridori per raggiungere quella perfezione la quale avrebbe permesso loro di trarre in inganno, fino alla loro pania, i notturni volatili che destano il terrore dei fanciulli e delle donne. E ad ogni nuovo tentativo erano approvazioni o disapprovazioni.

Frattanto Giacometta mi guardava con dolcissimi occhi. Io sentivo di essere prossimo al mio celeste meridiano.

Poi da una delle due grandi porte, si avanzò un cameriere che annunziò:

– Una signora è in sala che desidera parlare con loro.

Tomaso e Antonio si levarono sul torso e si fecero bui per manifesta contrarietà.

– Una signora? E che vuole da noi a quest'ora?

– Non ha detto che cosa voglia.

– E non sapete chi sia?

– Dice che il signorino – e indicò il sottoscritto – è suo nipote.

Allora tutti gli occhi mi furono addosso ed io sentii d'improvviso un gelo di morte passarmi per le vene.

Nè più sapevo che dire e che farmi ed avrei avuto un gran desiderio di scivolare sotto la tavola per nascondere in quel buio la mia vergogna e la disperazione mia, quando Giacometta mi strinse un braccio e mi sussurrò con voce timorosa:

– Franzi, Franzi.. è la pazza!..

– Certo… è la pazza! – risposi.

– Non riceverla, Franzi… ho paura…

– Lascia fare a me.

E scambiate queste rapide parole con Giacometta, presa ormai una eroica decisione, mi rivolsi ai due uccellatori che mi guardavano aspettando e dissi loro, press'a poco, le cose che seguono.

– Lor signori mi debbono perdonare, ma a me càpita una disgrazia non indifferente. Abita in casa mia una povera vecchia signora che era tanto innamorata di suo marito da impazzire il giorno in cui questi fu chiamato dal buon Dio nelle regioni del cielo. Pazza diventò allora e pazza è rimasta negli anni; ma non fa male a nessuno. Si accontenta solo di vivere delle sue fissazioni e di vestire come una befana. Fra le altre sue fissazioni vi è questa: si è messa in capo di essere mia zia!.. E nessuno è riuscito a convincerla del suo errore. Io sono diventato nipote della signora Adalgisa solamente perchè le ero più vicino. È una fissazione nata per contiguità; la qual cosa non è infrequente. Ora mi càpita, purtroppo, di essere un perseguitato di questa disgraziata donna. Io me la trovo fra i piedi quando meno me lo aspetterei, come questa sera, ad esempio. Non nego che la cosa sia sgradevole… Sì, tanto sgradevole che faccio loro le mie più sentite scuse. Ma, d'altra parte, come si può avversare una povera pazza?.. Come si può metterla alla porta?.. Sarebbe peggio e la sua mania tranquilla potrebbe tramutarsi in pazzia furiosa… con quale danno alla mia persona, lor signori possono facilmente vedere!.. Per questo, e non per altro, sono a pregarli di volerla ricevere e di non dare nessuna importanza a quanto sarà per dire; di assecondarla anzi, sempre pensando che ella non ha niente a che fare con me, e che si tratta solo di una povera pazza.

Lo zio Tomaso e lo zio Antonio si guardarono, mi guardarono, dopo il mio sproloquio, poi uscirono in una risata omerica.

– Fatela entrare, fatela entrare – disse lo zio Pertica rivolto al cameriere.

Il cameriere uscì. Giacometta non rifiatava.

Tutti guardavano verso la porta che si dischiuse ad un tratto. Ed ecco farsi nel vano ed avanzare tutta pompeggiante, la mia barocca consanguinea.

Si era compiuta ancor più con l'aggiunta di una rosa gialla fra i capelli e con un ventaglio di piume gialle appartenute a chissà quale volatile.

Non appena fu su la soglia si inchinò facendo ballare l'ampissimo seno poi, dopo aver sorriso dai piccoli lacrimosi occhi ai bargigli del mento, sostò perplessa e mortificata dal nostro impassibile silenzio.

Stette così qualche istante poi, raccolto fra l'indice e il pollice della mano destra, un lembo della serica veste e messe in mostra le calze e gli scarpini gialli, avanzò di qualche passo e domandò con la sua più piccola voce:

– È permesso?..

Giacometta non trattenne il riso, ma lo zio Pertica rispose:

– Si accomodi.

– Grazie, signore… – riprese donna Adalgisa inchinandosi di bel nuovo. – Grazie per la sua finezza!

Mosse ancora qualche passo e, giunta vicino alla tavola si fermò.

Ella certo si era preparata un bello e lungo discorso di occasione; ma l'imbarazzo causatole dall'accoglienza che non si attendeva non le permise di usufruirne, la qual cosa le destò un subito e grande dispetto.

Com'era ben naturale tale dispetto si riversò su di me tanto che, mutato volto e cercata una voce più familiare e cioè più aspra e nemica, mi interpellò come segue:

– E tu non parli?.. È così che ricevi tua zia?..

Com'era prevedibile, a tale domanda seguì una sonora risata la quale finì di sconcertare la mia zia color zafferano. Questa si fermò a scrutare il mio volto impassibile, passando quindi a considerare la rubiconda cera dei due uccellatori, dopodichè per non saper più quale atteggiamento prendere, rise a sua volta e disse:

– Hanno ragione di essere allegri!.. Sì, hanno davvero ragione!.. Si è visto mai, infatti, un nipote tanto screanzato quanto questo mio signor Francesco che non si alza neppure per ricevere sua zia?..

Io solo rimanevo muto e impassibile come mi ero proposto.

– Mi perdoneranno se mi presento così… – riprese donna Adalgisa. – Ero venuta per far la conoscenza di questa Giacomettina nostra!

Si guardò intorno e, afferrata una sedia la trasse a sè.

– Mi permettono?

– Si accomodi!

– Grazie per la loro finezza! Sono proprio stanca. Si figurino che sono stata in giro tutt'oggi per far delle compere e per annunziare il fidanzamento del nostro Checco…

Io la fulminavo con gli occhi, ma ella aveva ormai preso l'abbrivo.

– Se sapessero la mia felicità! Nessuno certo può immaginarla! – riprese aprendo il ventaglio di piume. – Perchè io non ho vissuto che per questo ragazzo e si può dire che mi sono tolto il boccone di bocca per darlo a lui!..

Si sventolò più forte, tanto era il calore che le proveniva dal non poter dire tutto quello che avrebbe voluto e, per non perdere le staffe e mostrare quale e quanto fosse il suo interessamento per quella ch'ella chiamava già la fortuna della famiglia Balduino, esclamò:

– Ma quanto è bella questa Giacomettina nostra!..

Dopodichè sorrise al lume, agli uccellatori, al cameriere, a sè stessa, che si vedeva riflessa nel pallido fondo di una fra le grandi specchiere della sala. Sorrise e ricominciò, entrando in argomento, questa volta:

– Già, nella vita, l'amore è tutto. Si ha un bel parlare, ma quando l'amore non c'è più, non c'è più niente. Checco lo sa come la penso io. Dopo la morte del mio povero marito che era tutto il mio passatempo

Veramente l'ilarità ch'ella veniva destando non la confortava troppo e lo si vedeva da certi corrugamenti delle sue foltissime sopracciglia; però siccome, com'ella fermamente credeva, c'era di mezzo il suo interesse, aveva tollerato ed era disposta a tollerare fino all'ultimo, pur di riuscire allo scopo suo che era quello di ficcare il suo rosso naso nelle cose che non la riguardavano e di combinare il matrimonio e di farsi accettare come parente dai signori Maldi.

– … ho detto passatempo – riprese – perchè il mio povero marito era tutto, per me. Oh, vorrei che tutte le unioni riuscissero come la nostra! Non c'è stato mai niente da dire fra me e Giovanni. È ben vero che la buona moglie fa il buon marito, ma Giovanni era un vero eccesso… sì, volevo dire un esempio, una epigrafe

Il carnevale era, quella notte, intorno al lume di casa Maldi.

– Del resto – continuò – a me piace la gente allegra e ridere fa buon sangue!

Ma rideva a denti stretti, il mio giallo spettacolo, e se avesse potuto, avrebbe certo dato la stura a tutti gli improperî della sua ricca collezione.

– I signori debbono pensare che io non ho avuta una grande istruzione e che non discendo da una famiglia così nobiliare come la loro. È ben vero che la buon'anima di mia madre era una contessa Pomaranci; ma non portò in dote alla buon'anima del mio povero padre neppure un quattrino. Anche quello fu un matrimonio di amore. Quando nacqui io, le ragazze bastava che sapessero fare la calza. Per la mia istruzione, i miei, spendevano trenta soldi al mese. Tenetelo bene in mente voi, signor Checco, che vi date tanto peso!.. Se io avessi studiato quello che avete studiato voi, a quest'ora sarei Cagliostro!.. E non c'è da ridere, perchè è vero!..

Si asciugò due perle sudorifere e riprese:

– Del resto io mi ero permessa di presentarmi a questi signori, prima di tutto per far la conoscenza di questa gemma – e indicava Giacometta – che sarà, domani, l'adornamento del nostro focolare; in secondo luogo per dare una forma… sì, per dare una forma canonica a questo lieto evento!.. Checco ha voluto versare nel mio cuore paterno la sua felicità!.. Povero ragazzo!.. Quando lei era partita ha passato qualche giorno come in un mare di Procuste!.. Non mangiava più… era in una continua ubiquità!.. Si fermò, impermalita questa volta, e chiese:

– Perchè ridono?..

Per qualche minuto non potè proseguire e stette sogguardando or l'uno or l'altro come disorientata finchè, colto il momento opportuno, si rivolse a me come una vipera per gridare:

– Mi meraviglio di te, poi, brutto porco!..

Ma donna Adalgisa era più cocciuta dell'ariete e quando si era ficcata un'idea nella sua zuccaccia melonina, non c'era caso che uomini od eventi potessero estirparla. Ella si era presentata in casa Maldi per uno scopo e a quello scopo voleva giungere, tetragona all'accoglienza, alle risa ed alle beffe che le erano toccate.

Ella adunque, dopo aver dette mille altre cose balorde, si pose una mano in seno e ne estrasse un involtino che posò sulla tavola. Poi, rivolta a Giacometta, incominciò a dire:

– Io sono sempre qua per riparare alle bestialità di questo mio nipote che non sa stare al mondo. Come si fa a fidanzarsi con un angelo di questa sfera e non pensare neppure a portargli un ricordino?.. Il fidanzamento è una cosa sacra quanto il matrimonio consumato e bisogna celebrarlo con qualche gentile minchioneria… con qualche cosettina da niente, ma piena di onore!.. Dunque siccome Francesco non ci ha pensato, ci ho pensato io…

E incominciò a svolgere il piccolo involto dal quale apparve una minuscola scatoletta di cartone.

– Oh, è una cosa che non ha pretese! – continuò; – una cosa degna di Checco che non può permettersi grandi lussi!.. Però c'è del buongusto!.. Il mio Francesco non si è arrischiato di offrire questa cosettina direttamente ed ha voluto, anche per far le cose in regola, ch'io venissi a portarla per chieder loro, nello stesso tempo, la mano di Giacomettina…

A tale colmo, a tale sfacciata improntitudine, a tale balorda cerimonia che la signora Adalgisa veniva inscenando, io non potei più reggere sì che scattai in piedi e gridai:

– Ma non è vero!.. Ma non è vero niente!.. Io li prego di non credere a una sola delle tante parole dette da questa donna!..

– Scusa… ma non è pazza?.. – chiese Giacometta calma calma. – Allora perchè ti inquieti tanto?.. Chi vuoi che le creda?..

– Che cosa?.. – gridò la zia Adalgisa levandosi. – Pazza?.. Chi è pazza?..

Nessuno le rispose. Ella, tutta accigliata, girò gli occhi intorno e riprese:

– I signori credono forse che io sia pazza?..

– Oh, no!.. – risposero gli uccellatori.

– Mi pare che la signorina l'abbia detto, però! Io ci sento bene. E certe cose non si possono dire neppur per ischerzo! Basta… io non voglio far nascere una scena, e mi ritiro come sono arrivata. Però faccio notare a questi signori che non si tratta così una gentildonna!..

Quand'ebbe detto questo si levò e, senza salutar nessuno, si avviò verso la porta. Ma non aveva fatto dieci passi ancora che, presa dall'ira grande che la mordeva dentro, si rivolse di scatto verso di me e mi gridò fulminandomi con un'occhiataccia:

– Con te, poi, faremo i conti a casa, brutto carognone…

E così si licenziò molto nobilmente dalla presenza dei signori Maldi, la mia formidabile zia, squisita gentildonna.