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Buch lesen: «Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!», Seite 3

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IX

Se un amico non vale un tesoro che cosa vale allora una formidabile zia?


Per alcuni giorni io detti il mio nome mortale alla felicità. Ero così pieno di mondo, così compiuto in tutte le cose, che mi parve belloccia anche la signora Adalgisa; la qual cosa non mi era capitata mai, ve lo giuro!

E la signora Adalgisa ritrovava i sorrisi e le graziette de 'suoi remotissimi sedici anni, tantochè ritenne necessario compilarsi una veste nuova di un gusto fantastico, sbalorditivo.

Un giorno me la vidi arrivare tutta color zafferano; la vidi folgorare in un involucro di raso e camminar molleggiando. Due grandi boccoli neri le scendevano, attorcigliati come due trucioli, giù dalle tempie fin oltre le orecchie. E aveva le calze gialle, le scarpette gialle, i guanti gialli, il ventaglio giallo e un nastro giallo fra i capelli raccolti a nodo scorsoio sopra la fronte, come una porcheriola che stesse per dirupare.

Ed era un giallo che prendeva a schiaffi chi lo guardava. Era una signora Adalgisa solare; pareva l'ora della canicola e della insolazione. Eppure si credeva seducente.

Venne innanzi scodinzolando come se le suonasse dentro un tempo di minuetto, su dai vecchi precordi impolverati. E il suo visaccio, insolcato per tutti i versi, come una strada motosa in un giorno di fiera, cercava una peregrina soavità per intonarsi al nuovo involucro in cui si era infilato il suo corpo civettuolo.

Oh, zia!.. Oh, paterna zia!..

Ristette alla mia presenza sorridendo anche dai neri vani che avevano lasciato i denti partiti per l'eterno esilio.

– Cosa ne pensi, Francesco?

Risposi semplicemente:

– Sicuro!

Ella rimase in dubbio; riprese con la sua più piccola voce:

– Come sicuro?

– Vi siete fatta una veste nuova.

– Ti piace?

– Mah?!.. Ecco… il colore…

– Già, l'avevo detto anch'io alla sarta. Io avrei preferito un verde… un bel verde pisello, ma la sarta mi ha assicurato che questo è il vero colore di moda.

– Ve l'ha assicurato la sarta?

– Ma sì!

– Allora non c'è rimedio.

– Ti sembra brutto?

– È piuttosto vivace.

– Però la confezione è stupenda!

– Perdio!.. Mi sembrate la signora Cagliostro.

– E chi era questa signora?

– Era evidentemente la moglie del famigerato Cagliostro. Ora è morta.

– Povera donna!

Io frattanto volgevo per la mente un atroce dubbio: perchè mai la mia signora zia si era conciata in quel modo? che pensava fare? quale infernale macchinazione si associava al suo vestito giallo. Le domandai:

– Perdonate, zia: se non sono indiscreto, perchè vi siete fatta quella veste?

– Ma per essere degna di te.

– Di me?.. E che c'entra?..

– Scusa, ma quando si celebreranno le nozze dovrò ben essere presentabile!

– E chi vi ha detto che io sposi?

– Come?!..

– Sì, chi ve lo ha detto?..

Ella mutò voce e atteggiamento all'improvviso:

– Non scherziamo, Checco. Tu sai benissimo che su certe cose non amo scherzare. Non avresti scelto, in tutti i casi, il momento buono. Poi ringrazia Iddio di avere una zia come me, che pensa a riparare alle tue balordaggini!

Nè potei aggiunger parola ch'ella già, voltatami la parte tramontana e infilato l'uscio della stanza, dileguava.

La seguii e la vidi scender le scale; e la vidi andarsene per il Borgo dei Cotogni, rullando come una nave a mare morto. Poi si fermò a parlare con qualcuno che non riconobbi. Due monelli le fecero i versarci e un cane, un vecchio cane filosofo, le annusò l'ampissima gonna poi, posato su tre gambe, lasciò piovere sulla medesima un ingeneroso ricordo.

Il mio dèmone si dichiarò soddisfatto; ma io non ne avevo colpa, posso giurarlo.

X

Non dire di aver mangiata la ciliegia se prima non te la trovi in bocca!..


Giuocando a tutti gli equilibri, cercando gli adattamenti più disparati ed improvvisi; ecclissandomi a tempo debito e a tempo debito ricomparendo; schivando le forme più correnti in cui l'amore cerca il sigillo di una effimera eternità; essendo uno e multiplo come occorreva essere per non urtare le infinite suscettibilità di un'insidiosa vergine ero riuscito a farmi volere un po' di bene da Giacometta; a non stancarla durante il non lungo, ma per me penatissimo, periodo di cinque giorni. E, durante questi cinque giorni, ero stato alle corse con lei, avevo incominciato a ballare, a giuocare al tennis e imparavo a cantare.

Giacometta mi aveva scoperta una bella voce. A vero dire non me ne ero mai accorto. Il fatto si era che cantavo, sedendo ella al pianoforte; cantavo ed ero sempre più innamorato.

Ero adunque riuscito a farmi volere un po' di bene, però, per conto mio, rincaravo la dose di giorno in giorno col moltiplicarsi delle stramberie di Giacometta. Ma l'uomo, per quello che ho potuto imparare, e dalla mia e dalla altrui esperienza, è quella tal creatura la quale tanto più si logora e si rode quanto meno si vede apprezzata; e le maggiori trionfatrici di questo fierissimo animale sono state appunto quelle fanciulle e donne le quali erano e non erano; davano e non davano, abili sempre nell'inasprire la più o meno bramosa povertà del maschio e nel lasciarla insoddisfatta o quasi. E in tutti i secoli, per la generosità che lo distingue, l'uomo si è vendicato di queste sue più amate compagne vituperandole.

Ora la prima volta ch'io potei baciare in pieno Giacometta, fu lo stesso giorno del suo arrivo. La breve assenza l'aveva rinverdita, aveva dato all'anima di lei una specie di distesa continuità inusitata. Io ero entrato nella sua bianca casa, sul lembo di un giardino, alle dieci e ne ero uscito a mezzanotte. Queste quattordici ore erano state meno che niente.

Fu nel pomeriggio, dopo una lauta colazione. Eravamo nel giardino incantato, dietro una gran macchia di roveri. Il giorno di aprile aveva una limpida soavità come gli occhi di Giacometta e c'era per l'aria un non so quale pàlpito che gonfiava il cuore.

Non si parlava. Giacometta si abbandonava sul mio braccio con maggior languore. Poi, quasi per un contemporaneo avvertimento, ci volgemmo a guardarci. Il brivido che era in me era in lei; ciò ch'io sentivo ella sentiva; la mia inespressa volontà era la sua volontà inespressa. Io vidi ne' suoi grandi occhi celesti, un lontano sorriso morire in fondo alle pupille in un'ombra amorosa, vidi ch'ella non era più vigile, ma tutta nel suo abbandono; ch'ella cercava di non saper più niente, di non udir più niente ma solo di lasciarsi portar via, in quell'ora dolcissima, dal pàlpito dell'aprile che gonfiava il cuore.

Nè io ragionai più ch'ella non ragionasse quando le passai un braccio attorno alla vita, quando la trassi a me, la strinsi, la serrai a me con improvvisa violenza, la mia bocca sulla sua bocca. Allora fui ebbro del profumo e del fiore di quella divina giovinezza che si piegava fra le mie braccia come affranta e prostrata; fui ebbro e la vidi inarcarsi, abbandonar il capo all'indietro come per offrir meglio il rosso desiderio della sua bocca alla furia dei baci; vidi il suo pallido volto contrarsi un poco e illuminarsi nel sorriso della profonda angoscia; la vidi, dalle radici dei capelli all'ombra del piccolo seno, vibrar tutta, di uno spasimo nuovo; più affilato il volto come se in realtà il piacere lo coprisse di un'improvvisa ombra di morte.

– Bella bella bella!..

Non seppi dir altro, nel tremito di ogni mia vena. Ella chiuse i grandi occhi e allora, alla sommità del suo viso, non fu se non l'oscura ombra delle ciglia. Poi di un subito, le sue braccia dapprima inerti, mi allacciarono il collo ed ella aderì tutta quanta a me, dalle ginocchia al seno, tutta quanta mia, tutta nel mio desiderio, accesa del mio ardore, soggetta alla mia volontà e la sua bocca, dischiusa sulla bianchissima chiostra dei denti serrati, mormorò una parola sola, il segno della sua perduta volontà di non esser più che una sofferenza e un piacere nell'impeto del mio amore, nella violenza della mia forza maschia.

Ci trovammo seduti sull'erba.

E già ogni mia timidezza era un solo remotissimo ricordo allorchè udimmo levarsi dal discreto silenzio, una squillante risata.

Rotto l'incantesimo, mi trovai di fronte al tremendo compito di assumere in un battibaleno il più indifferente aspetto che potesse avere un garbato giovine giunto nuovo in quel luogo e ignaro di quanto si era fino a quell'ora passato.

Io conoscevo ormai l'anima di Giacometta. Ella infatti volse il viso da un'altra parte, si ricompose i capelli, si riassettò e, sorta in piedi, riprese il cammino, affatto dimentica della mia presenza.

Comunque fosse, il resto della giornata non ebbe a risentire di troppo violente variazioni.

Nei giorni che seguirono la faccenda fu diversa, per quanto fra tennis e pianoforte riuscissi a destreggiarmi abbastanza abilmente fra le meteoriche burrasche della mia nebulosa. Però Giacometta era sempre una creatura di mistero e nessuno avrebbe potuto mai con certezza dire che cosa avrebbe fatto, o pensato, o deciso, o amato da un'ora all'altra. Ella usciva dal comune; aveva un suo sistema metrico decimale o non ne aveva affatto, ciò che le capitava più spesso. Passava dal termine dell'abbandono al più risoluto disprezzo; dimenticava ciò che aveva calorosamente affermato un'ora prima; poteva concedervi la più grande gioia e ritogliervela dopo dieci secondi. Era più mutabile del mare del quale portava il colore ne' suoi grandi occhi fondi. Una volta si era ordinata quattro vesti di cui mi aveva decantata la grazia e l'eleganza; orbene, quando le arrivarono, capitò questo: una fu regalata alla cameriera; un'altra andò a finire sotto il letto e le ultime due ebbero una sorte peggiore: volarono con la scatola e tutto fuori dalla finestra. Questa era Giacometta.

XI

Tu sola, Principina, eri veramente la primavera!


Ora avvenne ch'io portassi, un giorno, un garofano rosso all'occhiello e che la mia formidabile zia uscisse per le strade della Città dai tre campanili, tutta vestita color zafferano. Nè io sapevo che si rimuginasse la mia congiunta nella sua ampia testa dai grandi boccoli neri attorcigliati come trucioli, nè ella sapeva che mi pensassi di far io della mia vita in quel giorno di sole.

Era una giornata calda e di languore come ne porta l'aprile nel suo grembo. A quando a quando passavano delle nuvole bianche e altissime; piccole nubi indolenti, abbandonate a un vento inavvertibile. I tre campanili della mia città le salutavano a gara, tutti immersi, talvolta, nel loro chiarore d'argento.

Non avevo preso il pastrano ed indossavo il mio nuovo vestito da poca spesa.

Mi avviai lungo il Borgo dei Cotogni. Erano le tre del pomeriggio. Non c'era nessuno. La gente dormiva. April dolce dormire! C'erano le nuvole bianche e amorosamente pigre nel cielo profondo; c'erano i tre campanili immersi nella gran luce come tre fantastici coni di tre maghi in ascolto sul mistero del mondo. La mia piccola città non grugniva più; dormiva sotto le bianche nuvole dell'aprile. Epperò io mi sentivo preso da un languore voluttuoso, da un sordo spasimo, da un'ansia inespressa, sentivo battere alle tempie e ai polsi la mia giovane forza d'amore.

Da dietro le basse case arrivava l'anima dei giardini. Erano i lillà, le madreselve, i gelsomini, le acacie che riempivan l'aria tepida del loro vivo sentore, di un amoroso ed ebbro profumo solare. Per le strade non c'era nessuno. La gente dormiva od amava dietro le griglie socchiuse, per le stanze immerse nella penombra. Erano in me un nuovo senso pànico ed una nuova levità. Io mi sentivo immerso e preso nel piacere del mondo perchè era il mese d'amore, e la prima gioia e il primo spasimo della fecondazione riempivan le ore dei giorni commossi.

Mi fermai alla bianca casa di Giacometta sul lembo di un giardino. Sarei entrato? Come mi avrebbe accolto Giacometta? Premetti il bottone del campanello; venne ad aprirmi Principina. Domandai:

– C'è?

– Sì – rispose la piccola sorridendo.

– Dov'è?

– In giardino…

E mi guardava sempre.

Attraversai l'andito; uscii nel sole. Principina mi precedeva di qualche passo. Era tutta rossa in volto e scalza. Camminava lungo il margine del viale; leggera e sottile. Vestiva di un niente. Di sotto la stoffa si accennava appena, come una promessa novella, il suo acerbo seno.

Proseguì, scalza levità bambina, fra l'erba di un prato conchiuso da una fiorita di meli e io vedevo il suo respiro profondo animarla come di un affanno senza parole, nel cuor dell'aprile, e vedevo batterle una vena, forte forte, alla fontanella della gola.

Giunti che fummo oltre la cerchia fiorita dei vecchi meli, Principina si fermò e mi disse tendendo un braccio verso il sentiero delle roveri:

– È là.

Poi mi sorrise e si allontanò nel dolce sole che porta sul mondo le nuvole bianche.

Giacometta era seduta sull'erba a una grande ombra. Era scapigliata. Aveva puntato i gomiti sulle ginocchia e appoggiava la faccia sulle palme aperte. Non mi vide. Non so che guardasse. Anche quando le fui vicino non si accorse della mia presenza. Mi sedetti al suo fianco. Allora ella, senza volgersi, allungò una mano e la pose fra le mie. Rimase così, gli occhi larghi e fissi fra l'erba. Aveva sui finissimi capelli biondi e ricciuti, dei pètali di fior di melo. Si vedeva dalle sue vesti, un poco in disordine, e dal rossore di tutto il volto che doveva aver corso fino allora.

Mi domandò senza guardarmi:

– Perchè sei venuto così tardi?

– Non sapevo di trovarti in casa.

– Sono tre ore che ti aspetto.

Strinsi forte, fra le mie, la sua piccola mano nata per le carezze; una mano bianca, dagli unghielli rosati, leggera come la rondine. E la piccola mano di lei si avvinghiò alla mia, dito con dito, amorosa e calda. Fu già, in questo, un principio di possesso, perchè le mani mandano al cuore il primo tonfo, quando si intendon fra loro; ed aprono il varco improvviso ai giardini senza cancelli nei quali l'amore si esilia per vivere più oltre e, spesso spesso, per morire.

Come era prevedibile, l'ultima distanza che ci separava fu superata senza ch'io mi accorgessi come la cosa fosse avvenuta. Io combattevo, in ardore, col mio garofano rosso, ma tutte quante le mie parole naufragavan nell'ombra. E ciò mi faceva pena. Perchè nessuna porta si dischiude, anche lentissimamente, senza una paroletta sorrisa, senza il barlume di un sogno.

Passavano adunque le nuvole quando anch'io passai un braccio attorno alla vita di Giacometta. Questo non potrà farvi dispiacere, credo. E la strinsi a me con tanta forza ch'ella ne ebbe il respiro mozzo; ma non disse niente. Fui io che le dissi a un tratto:

– Giacometta, io sento qui dentro – e mi portai una mano al cuore – sento qualcosa che mi fa morire!..

Ella sorrise con un ranuncolo giallo.

– Non mi credi?..

Guardò, più lontano, una macchia di lillà che sfumava nella penombra.

– E poi, Giacometta, sarebbe tanto bello morire davvero!

Respirava un po' forte e non rispose.

– Morir d'amore… per te sola!..

Giacometta chinò il mento al seno e questo mi piacque. Si volse e mi guardò smarrita. Poi le nostre bocche furono unite.

E aveste tempo di trascorrere, nuvole bianche dell'aprile, per il gran cielo turchino! Il nostro bacio era tenace e qualcosa stava per accadere di molto diverso. È inutile ch'io vi racconti quale dolce pericolo si corresse allora, perchè lo sapete meglio di me.

Però Giacometta mi aveva parlato, una volta, di una ghirlandella ed era molto naturale, anche se a voi non sembra, ch'ella vi ripensasse proprio in quel punto.

E vi ripensò.

Le vergini soffrono così di inesplicabili pause quando sono per varcare la linea.

Sta di fatto che, essendo noi, anche quella volta, sul punto logico e gradevolissimo della suprema carezza, a nulla si approdò.

Di un subito Giacometta cambiò volto e mi disse:

– Franzi, mi sono dimenticata una cosa.

Mio Dio, quale cosa poteva aver dimenticato che le fosse necessaria?

Si levò, mi tese una mano. Riprese:

– Andiamo.

– Andiamo pure!

Andammo come era naturale che avvenisse. Io, a vero dire, mi trovavo in un certo disagio. Poi il cuore mi batteva forte: c'erano troppe cose a mezzo. Questo accade quasi sempre quando si fa all'amore. Accade anche alle persone molto pudiche.

Si prese un piccolo viale traverso. Giacometta camminava lentamente e il giardino non finiva mai. Poi incominciò a raccontarmi la nobile ed istruttiva istoria che segue.

– Franzi, una volta una mia nonna doveva andare a nozze. Era un matrimonio d'amore ch'ella faceva. Si chiamava Tatiana questa mia antenata ed era di un paese lontano lontano, in fondo alle steppe della Siberia. Nonna Tatiana era discesa in Italia per accompagnarvi sua madre, malata di petto. Era una giovinetta bionda con dei grandi occhi turchini. Dicono mi assomigliasse. Ne giudicherai. Ti farò vedere una sua miniatura. Dunque nonna Tatiana era diretta a Bordighera. In quel tempo usavano ancora le diligenze. Volle il caso che nella stessa diligenza in cui viaggiava nonna Tatiana, si trovasse anche nonno Felice il quale, giusto in quei giorni, era partito per recarsi ad una fiera a Lione. Ora avvenne che, ad un certo punto, in uno svolto brusco della strada costiera, uno dei cavalli della diligenza adombrasse e si imbizzarrisse tanto da rovesciar tutto, giù per una scarpata. Nonno Felice uscì dal disastro con le ossa peste e nonna Tatiana anche; ma chi rimase moribonda sul colpo fu la madre di lei. Conveniva ricoverare la povera donna in qualche luogo per apprestarle le cure più urgenti. Giusto nelle vicinanze sorgeva una vecchia villa disabitata. Nonno Felice andò, pagò il guardiano, si fece aprire la villa e vi raccolse la ferita la quale poche ore dopo moriva. Ecco Tatiana sola, con uno sconosciuto. Ho sempre sentito raccontare che, quella notte, la passò come se fosse impietrita. Non pianse, non parlò, sedette accanto al letto della morta e stette per ore ed ore, gli occhi sbarrati contro l'ombra. Nonno Felice rispettò quel dolore, in disparte, raccolto nell'angolo più buio della stanza. Poi doveva essere ciò che fu. I due giovani andarono insieme a Bordighera. Ivi la nonna si fermò e il nonno proseguì per Lione con la promessa di ritornare. E ritornò perchè era innamorato. Gli zii mi hanno raccontato poi che Tatiana non voleva saperne di matrimonio; era una tartara selvaggia e voleva ritornare fra le sue steppe desolate. Amava l'Italia ma sentiva il doloroso incantesimo del suo triste paese. Nonno Felice non volle lasciarla. Partirono insieme e Tatiana non fu sua…

Io ascoltavo allibendo. Non riviveva l'anima della remota antenata in quella di Giacometta?

– … Tatiana non fu sua. Era una giovinetta gagliarda e fiera tanto da non temere di rimaner sola anche con dieci giovani. Sapeva volere e sapeva difendersi. Quando un uomo si imbatte in una simile creatura può dirsi perduto.

«… Andarono, viaggiarono per più di un anno, durante il quale nonno Felice non dette mai notizie di sè alla famiglia. E a casa lo credevano già sperduto o morto fra le steppe della Siberia quando un bel giorno di aprile del 1820, una vettura si fermò dinnanzi a questa casa e ne discesero nonna Tatiana e nonno Felice. Ancora non avevano sposato e Tatiana non era stata di chi l'amava…

«Però si era decisa ormai e nonno Felice la presentò come fidanzata. Ora, dall'arrivo alle nozze, non doveva correre più di una settimana perchè nonno Felice aveva molta fretta…

– … Aveva molta fretta e combinò tutto in modo che non potessero sorgere impedimenti improvvisi. Però Tatiana non parlava mai. Giusto in quei giorni fu presa da una fra quelle grandi tristezze alle quali andava soggetta di quando in quando e nonno Felice, nonostante tutto il suo amore, non poteva trarla dalla profonda lontananza nella quale affondava…»

Eravamo arrivati, camminando così passo passo, al muro del gelsomino di Spagna e Giacometta mi invitò a sedere vicino a lei sulla minuscola panchina.

La storia mi interessava ormai troppo perchè avessi la mente ad altro.

– Da quel tempo – riprese Giacometta con la voce più spenta e gli occhi semichiusi – da quel tempo nulla è mutato qui. I lunghi anni han lasciato le cose come erano. Anche allora c'era questo muro e lo stesso gelsomino. Tu hai veduto, in casa, la stanza dei nonni; la stanza verde, stile impero; nessuno l'ha toccata da quel tempo. Sono passati ormai tanti anni eppure dentro il canterale, nel primo cassetto, vi sono ancora dei gelsomini secchi. Li raccolse certo la nonna in un giorno della sua remota primavera e li lasciò là con la sua memoria. Io ho pensato tanto alla mia avola alla quale assomiglio. Certo qualcosa dell'anima di lei è in me! Però debbo raccontarti un altro episodio perchè tu capisca ciò che voglio dirti e tu mi comprenda in ciò che sono per fare.»

Raccolse il volto fra le piccole palme aperte e si concentrò nella lontananza dei ricordi. La guardavo, preso dal suo fascino oscuro. Ella non era più presente come palpito e desiderio; il suo sangue si era di un subito acquetato. Vedevo come i suoi occhi celesti si smarrissero in una grandissima ombra quasi che ella comunicasse con l'ultravisibile e fosse, ad un tempo, vicina e lontana: nella profondità del mistero e con me, accanto a me nella tepida primavera d'amore.

Incominciò una capinera a cantare sommessamente da una macchia di lillà.

– Io non son nata qui – riprese. – Nacqui a Madera, nell'inverno di un triste anno che doveva lasciarmi al mondo senza nessuno. Mio padre era in America allora. La mamma morì pochi mesi dopo avermi partorito e il babbo volle seguirla a breve distanza, laggiù, nelle pampas dell'Argentina. Vissi a Madera fino ai cinque anni. Di quel mio tempo quasi di sogno non ricordo che una sivigliana, una giovane sivigliana che aveva il colore dell'ambra. Questa giovane mi raccontava certe storie che mi facevano abbrividire ed erano sempre storie d'amore e di sangue. Così, bambina com'ero, mi ci appassionavo tanto che volevo stare sempre con lei e sentirla parlare. Se vi ripenso, ho ancora nella mente la sua voce fonda, il volto malinconico e forte, i suoi occhi che lampeggiavano. Questa donna mi fece provare i primi brividi; tolse l'anima mia bambina dalla sua inconsapevole serenità.

Giusto in quel tempo dovetti partire. Gli zii vennero a prendermi a Madera. Mi ricordo che piansi come una disperata e che non volevo saperne di seguirli. Ne avevo paura. Erano sempre serii. Mi parlavano, fin da allora, come se fossi stata una donna. Tu non li conosci bene; sono tanto buoni ma hanno attraversato la vita come due minori osservanti senza sapere niente di niente all'infuori delle loro cacce. Non hanno avuto mai un cuore di donna vicino; e la loro casa, come l'anima loro, manca di quella intimità, di quell'amorosa penombra che può portare solo una innamorata… Allora ne avevo paura. Se vollero condurmi con loro furono costretti a sobbarcarsi al peso di Paquita. Diversamente non avrei abbandonata l'isola dolce dove ho trascorsi i primi cinque anni del mio sogno terreno.

Arrivammo in questo paese che era d'inverno. Un grigiore infinito; un gran freddo. Mi ricordo che, per i primi mesi, non feci che piangere. Abbracciavo stretta stretta Paquita e volevo mi riconducesse al bel sole della mia isola lontana. Non avevo veduto mai la neve; non avevo tremato mai dal freddo; e, al mio primo arrivo in questa casa, non vidi che neve ed ebbi a soffrire per il freddo che mi tormentava giorno e notte. Poi finii per abituarmi a tutto. Gli zii erano molto buoni benchè non si occupassero di me se non per dirmi buongiorno e buonasera. Così rimasi nella tua piccola città malinconica. Dopo un anno Paquita si ammalò e volle ritornare a Madera. La vidi partire quasi con indifferenza. Non piansi. La mia malinconia rimase serrata dentro di me; senza parole. Quando ci separammo, avevo incominciato a poter vivere tranquilla nella mia solitudine. Ho avuto una serietà precoce, Franzi, ho pensato e sofferto in quell'età in cui le bambine non conoscono che il riso e il sonno. A sette anni ebbi un'altra compagna: una istitutrice inglese; ma non mi piacque fin dal primo giorno e la trattai come una nemica. Fin da allora ero padrona di me stessa. Gli zii mi davano sempre ragione e mi lasciavano fare ciò che volevo. Ciò mi fece pensare prima del tempo. E diventai scontrosa; chiusi in me la mia tristezza; stetti giornate intiere senza uscire di camera o dispersa negli angoli più remoti del giardino. Poi incominciai a voler conoscere la mia vecchia casa dai tetti alle cantine; e girai, frugai, interrogai. Volli sapere tutto di tutto.

«C'era allora, in casa, un vecchio servo che era venuto fanciullo al servizio dei Maldi e sapeva punto per punto la storia della famiglia, da cento anni a questa parte. Si chiamava Lorenzo e fu Lorenzo che mi illuminò circa un passato che apparve prodigioso agli occhi miei di bambina. C'era qualcosa di romantico e di misterioso nella storia della famiglia mia. Questo bastava per appassionarmi. Fu allora che conobbi nonna Tatiana.»

Tacque e mi guardò senza levare il volto ma volgendo appena gli occhi dalla mia parte, mi domandò:

– Ti annoio?

Le risposi invitandola a proseguire; dopodichè riprese:

– Nonna Tatiana fu la compagna de' miei silenzi. Per lunghe ore restavo estatica innanzi al suo ritratto, o chiusa nella camera verde dove ella aveva compiuta la sua breve gioia. Ormai non avevo che una ardente curiosità e cioè quella di conoscere fino in fondo la vita della mia misteriosa antenata. Lorenzo, toltone i fatti più salienti, non poteva darmi se non accenni vaghi e questo non mi soddisfaceva ormai più. Volevo saper tutto. Come ti ho detto c'era, e c'è ancora, nella stanza della nonna, un grande canterale, di cui, nel tempo del quale ti parlo, non potevo trovar la chiave. Un presentimento mi avvertiva che, nel segreto del vecchio mobile, doveva trovarsi qualcosa che avrebbe soddisfatta la mia inesausta curiosità di sapere. Come al solito, gli zii non ricordavano che fosse mai esistita una chiave di quel canterale e non si occupavano della faccenda più che io non mi occupassi della loro caccia. Eppure volevo venire a capo del mio desiderio; ma senza che altri sapesse ciò che intendevo fare; senza che altri assistesse alla mia ansiosa ricerca. Ricordo che un giorno mi feci sanguinare le mani nei tentativi di forzare le robuste serrature. Poi mi decisi ad andar alla ricerca di un fabbro il quale, con un grimaldello ebbe, in breve, ragione del vecchio mobile cocciuto. Quando rimasi sola, mi chiusi nella grande oscura stanza e la mia gioia non ebbe più limiti. Parlavo ad alta voce, ridevo, piangevo; mi pareva che nonna Tatiana, rinata mistero delle sue memorie, mi stesse vicina e mi dicesse: – Sì, bambina, sì… tu sei la mia cara figliuola… tu mi assomigli… il mio cuore è il tuo cuore!.. – Mi passavan fra le mani, gioielli, vesti, piccoli libri scritti in una lingua che non capivo, nastri, lettere, fiori secchi; tutto ciò che nasconde una creatura innamorata e triste, in fondo a un cassetto che nessuno aprirà. Trovai, fra l'altre cose, una lettera spedita da Tatiana a nonno Felice. Era scritta in italiano. Diceva, fra l'altro: – … tu ti ostini sulla mia strada e non sai dove potrà riuscire. Io ti ho detto che il mio amore non può soffrire vincoli umani. Bisognava lasciarlo libero per il suo ignoto destino; non bisognava cercare di ridurlo alla misura comune. Hai insistito, hai pianto, hai corso la terra dietro le tracce di questa creatura sperduta, hai rinunziato al tuo mondo, ti dici pronto a rinunziare a tutto.. e sia come vuoi! Purchè tu sappia che Tatiana ti vuol bene, viene con te, ti segue nel paese del sole, farà ciò che desideri, ma la sua strada, che incomincia dall'immensità di una steppa, non potrà finire nella riposata quiete di un piccolo giardino in fondo alla tua provincia; la sua strada, povero amore, dovrà ritornare all'infinito dal quale si è partita. Ogni anima ha il suo destino segnato e gli uomini, con tutte le loro morali e le loro leggi, son meno che niente di fronte al destino di un'anima. Ti ricordi che cosa ti dissi la prima volta, quando l'amore fu con noi? Lo ricordi? Io ti dissi: – Non promettermi niente, non parlare, cerca di essere solo con me, sola, all'infuori di tutto ciò che gli uomini hanno detto e fatto e inventato per avvelenare questo attimo divino. La mia libertà e il mio amore non soffrono leggi; sono come il vento della steppa. E tu prendimi perchè io voglio essere tutta quanta tua; prendimi e macerami e fammi soffrire nel tuo amore maschio. Io sono arrivata dall'ignoto per amarti e per farti il dono di tutta me stessa ma non promettermi niente e non chiedermi di più!.. – Io ti dissi questo, allora, e tu non mi volesti capire. Tu eri e sei troppo schiavo del tuo misero mondo e delle sue convenzioni meschine. Tu vivi troppo «PER GLI ALTRI» e il mio amore non può vivere che nella più selvaggia libertà, per morire e dileguare quando la sua ora sia giunta come per tutte le cose del mondo…»

E la voce di Giacometta si spense. Il sole discendeva fra le nuvole dell'aprile attardandosi nel gorgo del cielo, come innamorato.

E che stava accadendo mai nella mia anima di sognatore? Giacometta mi aveva affascinato con la sua voce e col suo singolare racconto tanto che mi pareva di essere ad un tempo presente ed assente in una immensità di mistero. Sprofondavo nell'impensato con la velocità di un bolide. Io, Francesco Balduino, creatura senza alcun valore, come avevo potuto mai entrare in un mondo tanto strano e impadronirmi di un cuore così moltiplicato nell'inverosimile? Perchè mi aveva prescelto Giacometta? Che poteva vedere e trovare in me, nipote della signora Adalgisa?

Poi ella riprese a parlare, un po' stanca e disciolta in una perduta dolcezza.

– Così incominciai a conoscere il cuore di nonna Tatiana. D'improvviso tutto il buio si diradava e mi vedevo dinnanzi quella che non mi aveva sorriso se non dai grandi ritratti e mi spiegavo la luce perdutamente triste e fiera di quei grandi occhi celesti dietro una lontananza infinita.

«Ormai ti racconto tutto, Franzi mio. Prima di arrivare al particolare per il quale sono risalita nelle mie memorie, voglio tu sappia chi sono, da chi discendo, come ho vissuto perchè un giorno tu mi possa perdonare. Io non ti conosco bene eppure un istinto mi guida. Io sento che tu non sei come gli altri…»

E, per la prima volta, la sua mano lieve mi sfiorò il volto in una carezza.