Nur auf LitRes lesen

Das Buch kann nicht als Datei heruntergeladen werden, kann aber in unserer App oder online auf der Website gelesen werden.

Buch lesen: «Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire», Seite 6

Schriftart:

La pace di Villafranca sembrò sulle prime porsi come insuperabile ostacolo all'adempimento dei voti degli italiani; ma in breve quella infausta illusione si dissipava. – Mentre la diplomazia stabiliva a Villafranca e a Zurigo, che l'Italia rimarrebbe a un dipresso qual era prima del 59, che la Lombardia sola sarebbe annessa al Piemonte, che la Venezia sarebbe lasciata all'Austria, che i duchi e i principi scacciati rientrerebbero al possesso dei loro stati, e che tutti i sovrani d'Italia compreso l'imperatore d'Austria, formerebbero una confederazione sotto la presidenza del romano Pontefice; mentre Napoleone dettava tali condizioni, ed il nuovo ministero di Vittorio Emanuele le accettava, le annessioni dei ducati, della Toscana, delle Legazioni si compivano, e si rendeva impossibile il ritorno dei principi. – Si temeva che l'imperatore dei Francesi si adirasse contro questa audace resistenza a' suoi voleri; ma tale resistenza sanzionata dai plebesciti delle provincie, che volevano l'annessione, fu giudicata legittima e giusta.

Più tardi l'Umbria, la Sicilia e il napoletano invocarono l'annessione; e Garibaldi co' suoi mille andò a mettere in fuga i soldati borbonici, che impedivano l'aperta manifestazione della volontà popolare.

L'imperatore Napoleone aveva proclamato due principii, ch'egli imponeva all'Europa di rispettare. Eran questi, la onnipotenza del suffragio universale, ed il non intervento. – Tutto ciò ch'erasi operato in Italia era stato sancito dai plebisciti, ossia dal suffragio universale, ed il principio del non intervento non permetteva all'Europa di opporvisi. – Questi principii, che furono la nostra egida, Napoleone li proclamò in favor nostro; e ciò solo dovrebbe bastare ad assicurargli la nostra indelebile riconoscenza.

Ma la cessione della Savoja e del contado di Nizza fu per gli italiani un seme di discordia e di malcontento. – Col tempo impareremo a benedire quel sacrifizio come il vero fondamento della nostra indipendenza.

Gli italiani vogliono innanzi tutto, ed è ben naturale che così sia, vogliono, dico, ottenere l'intento loro; ma le loro forze non essendo sempre adequate alla grandezza dei loro concetti, essi o implorano o accettano l'aiuto di chi si dice loro amico; e questo aiuto gli italiani sognano sempre che abbia ad essere gratuito. – Se loro si chiede schiettamente un compenso, essi si sdegnano, e si tengono per sciolti da qualsiasi obbligo di gratitudine. – Essi non vedono essere il puntuale pagamento del compenso richiesto e convenuto la sola via per raggiungere e per conservare la loro indipendenza. – Dio ne liberi dal peso di un debito non definito e non pagato! Quel peso è come un fantasma minaccioso, che si frappone in perpetuo fra il beneficato e ogni atto di indipendenza ch'egli sta per compiere. Benedetto invece quel benefattore che fissa il prezzo dell'opera sua, e che ricevutolo, si tiene per soddisfatto, e dichiara il beneficato sciolto da ogni debito verso di lui! Ciò pattuiva il conte di Cavour coll'imperatore Napoleone, perchè l'imperatore doveva alla Francia di non sottoporla a sacrifizi senza compenso, e perchè il conte di Cavour voleva che l'indipendenza italiana non fosse più illusoria, ma vera e durevole, non quale era stata tante volte, il passaggio da una ad un'altra dominazione. – Abbiamo saldato il nostro debito verso la Francia; e sebbene dobbiamo ad essa i più sinceri sentimenti di gratitudine, non dobbiamo nè ad essa, nè ad altra potenza non italiana, il sacrifizio della benchè menoma frazione della nostra indipendenza.

La nostra nazionalità conta oggi sette anni di vita; e questi sette anni di goduta libertà, di pubblica tranquillità e di moderazione ne hanno fruttato il riconoscimento di tutte le potenze europee. – Ne hanno fruttato un bellissimo esercito, una marina considerevole, un sistema di ferrovie che rilega fra loro tutte le parti d'Italia, e facilita l'accomunarsi delle varie popolazioni e dei loro interessi: cospicui abbellimenti nelle principali città, e la universale simpatia dell'Europa, a tal segno che quando all'aprirsi della penultima stagione estiva chiedevamo all'Austria di cederne quella parte della patria nostra ch'essa teneva tuttora schiava, l'Europa tutta sclamò essere la nostra domanda giusta e legittima, e dovere la Venezia esser ceduta all'Italia. Chi ne avrebbe detto dieci anni sono, che i nostri diritti sarebbero oggi così spontaneamente confessati e sostenuti da quelle potenze, che per lo addietro dileggiavano le nostre pretese, i nostri sforzi sempre vani?

La sorte delle armi non ne fu, quanto lo avevamo sperato, propizia, e l'imperizia e l'inesperienza dei grandi comandi, e delle grandi battaglie, tanto dei capi militari di terra, quanto di quelli di mare, ne costò molto sangue, e ne fruttò poca gloria. – Ma nessuno si ingannò sulle cagioni di cotesti nostri problematici successi; e il valore dell'esercito intero, l'eroismo dei nostri soldati di marina, risplendettero così straordinariamente durante la guerra, che gli stranieri ne rispettarono dopo questa assai più che nol facevano per lo passato, e ne tributarono meritate, ma non aspettate lodi. – La Venezia è omai nostra col consenso dell'Austria stessa; e quel formidabile quadrilatero, perenne minaccia alla nostra libertà ed indipendenza, diventa ora per noi un baluardo quasi inespugnabile contro qualsiasi futuro tentativo d'invasione.

Tale è il passato che ne condusse, attraverso tante catastrofi e peripezie, al felice e glorioso nostro presente. – Ma il carattere dei popoli si compone delle passioni e dei costumi acquistati sotto l'influenza del loro passato. – Il passato può essere completamente distrutto, e trasformato in un presente tutto opposto a quello; ma le traccie del passato esistono nel carattere e nelle abitudini popolari che in esso si formarono. – Quando il passato più non esiste, ed ha dato luogo ad un presente che in nulla gli somiglia, le tendenze morali ed intellettuali create da quello più non convengono a questo. – Per noi del resto la necessità di spogliarci di quegli avanzi del passato è singolarmente evidente, in quanto che siamo stati educati dai nostri dominatori per compiacerci negli ozi della schiavitù, e per essere indegni della libertà. – Siamo stati educati a diffidare e a sospettare di tutto e di tutti; a stancarci di tutto ciò che dura da qualche tempo, a biasimare e criticare ogni cosa, a giudicare degli uomini e delle cose colla nostra imaginazione piuttosto che col freddo criterio; ad esaltarci fuor di misura per tutto ciò che riveste un aspetto drammatico di sublimità e di eroismo, senza esaminare se la sostanza corrisponde all'apparenza. – Siamo stati educati ad impiegare parole ampollose ed enfatiche, e a prenderle per l'espressione di sublimi concetti, a confondere l'enfiagione della vanità colla coscienza della nostra irresistibile forza, e non dubitare della nostra superiorità, e dei trionfi ch'essa ne assicura; e quando invece di trionfi raccogliamo rovesci, ad esagerarli, a darci in preda all'abbattimento e alla disperazione, e ad imputare altrui le sventure che la nostra imperizia e la nostra inesperienza ne hanno procurato. – Siamo stati educati a disprezzare la scienza e gli studi necessari ad acquistarla, e a vantarci del nostro ingegno svegliato, che conosce ogni cosa per intuizione, senza condannarsi alla noia dell'imparare. – Siamo stati educati da chi voleva mantenerci schiavi, in modo tale da renderne incapaci di costituirci in nazione libera ed indipendente; incapaci di compiere i doveri del cittadino, come di sacrificare le private ambizioni e i privati interessi alla salvezza e alla prosperità della comune patria.

Il nostro principale studio deve essere omai di spogliarci di tutte le letali influenze del passato.

Ricordiamoci che il nostro passato fu un'era di schiavitù, e che il popolo educato alla schiavitù deve trasformare sè stesso, se vuol diventare atto a godere della libertà e della indipendenza.

CAPITOLO TERZO
CARATTERE DELL'ITALIANO
SUE VARIETÀ E SUE CONSEGUENZE

L'Italia può oggidì considerarsi come fatta e compiuta. Lo scopo di tanti sforzi, di tanti sacrifizi, l'oggetto di tante aspirazioni e speranze, può dirsi raggiunto. – L'Italia ha veduto l'ultimo di quei soldati stranieri che la tennero sì a lungo soggetta rivarcare le Alpi, lasciandola erede dell'inespugnabile quadrilatero; e l'Europa tutta proclama la santità de' suoi diritti, e si dichiara stanca di vederli conculcati.

Un certo sentimento di orgoglio può essere scusato in noi, quando pensiamo alle cangiate nostre sorti, alla simpatia acquistata, al nostro rapido innalzamento al grado di potenza di primo ordine; in noi che otto anni indietro eravamo considerati come una mandra di servi austriaci. Ma l'ebbrezza della gioia e dell'ambizione soddisfatta riesce pericolosa a chi troppo vi si abbandona. – Abbiamo altro da fare che congratularci vicendevolmente per le conquiste ultimate. – Dobbiamo costituirci fortemente, e vincere quelle abitudini e quelle tendenze del nostro carattere, che si oppongono al nostro sviluppo morale, intellettuale e nazionale.

L'Italia fu sempre riputata ricchissimo paese, e fu questo un equivoco. Il suolo italiano è certamente il più ferace di Europa, e l'agricoltura vi è giunta, parzialmente almeno, ad un certo grado di perfezione che mal si accorda col limitato sviluppo delle scienze e dell'industria. – Il motivo di tale difetto di armonia è evidente. L'Italia non ha vissuto sin quì di sua vita propria, nè conformemente ai propri bisogni, ai propri interessi; ma fu diretta da' suoi padroni, secondo ad essi conveniva, e secondo risultava più confacente all'insieme di quei corpi politici mostruosi e diformi, di cui le provincie italiane erano parte. La frazione d'Italia che dipendeva direttamente dall'Austria (e l'Italia presso che tutta ne dipendeva indirettamente) fu detta paese agricolo, e tale è difatto; ma i tempi in cui la ricchezza pubblica delle nazioni si misurava dalla fecondità del terreno, e dalla salubrità del clima, sono lungi da noi. La ricchezza degli Stati è oramai la conseguenza dello sviluppo dell'umana operosità nell'industria e nel commercio, non meno che dello sviluppo dell'agricoltura.

L'impero austriaco, che si componeva di tante provincie e di popolazioni fra loro eterogenee ed avverse, considerava le sue provincie italiane come il suo giardino e il suo granaio. E di fatti nè la Boemia, nè l'Ungheria, nè la Gallizia, nè la Stiria, nè alcuna di quelle nordiche contrade possono competere coll'Italia per la feracità del suolo e per la mitezza del clima. L'Italia fu dunque dall'Austria destinata, o per dir meglio condannata a fornire all'impero i prodotti agricoli, e a consumare i prodotti dell'industria delle altre provincie. L'industria fu interdetta all'Italia, perchè all'impero conveniva di averla inoperosa ed incapace di sovvenire ai propri bisogni. Nel lungo corso del dominio austriaco in Italia, più d'una prova fu tentata da capitalisti italiani, per introdurre nel paese qualche industria che valesse ad arrestarne il rapido impoverimento. – Il governo austriaco conosceva la iniquità del suo procedere, e sentiva la necessità di mascherarlo. Per ciò non si opponeva apertamente a tali esperimenti; ma ben sapeva renderli vani, ed ottenerne l'abbandono. I capitalisti autori di quelle prove si vedevano subitamente decaduti dal favore del governo; incontravano non preveduti ostacoli ad ogni loro mossa; il prezzo degli oggetti necessari al progredire della industria loro cresceva ad un tratto smisuratamente. Se ad essi occorrevano macchine che non si potessero avere che dall'Inghilterra o dalla Francia, l'importazione di tali macchine era sottoposta a tasse e a difficoltà siffatte, che la nascente industria non poteva sostenerle, e il tentativo andava fallito. Certo che un simile procedere non avrebbe ottenuto in Inghilterra il successo che ottenne in Italia; ma gli italiani sono per natura poco inclinati al lavoro, e la fredda e pacata resistenza ad una mascherata persecuzione li stanca. – Essi resistono a qualsiasi costo quando l'ira li sprona; e in tal caso sdegnano i consigli della prudenza, si slanciano ad aperto combattimento, e spesse volte sono vinti dall'avveduto nemico che si era da lungo tempo preparato alla lotta. – Ma la costante e misurata resistenza ad una coperta persecuzione, il combattere nascostamente, nelle tenebre, e lungi da ogni spettatore, lascia l'italiano freddo, e gli toglie coll'ardore della pugna in campo aperto la forza materiale e l'energia morale. – Gli italiani accettarono dunque la parte che il governo austriaco loro destinava nella commedia politica di un impero, e questa parte era quella del compratore di oggetti manufatturati nelle provincie germaniche e slave. – Gli italiani ricuperarono in compenso la facoltà di abbandonarsi all'ozio; compenso fatale, perchè troppo conforme all'indole nostra e dei popoli meridionali in generale, cosicchè abbandonandosi all'ozio per necessità, vi si adagiarono senza rimorso, nè vergogna, e ne contrassero rapidamente l'abito. – Che la parte imposta agli italiani nella costituzione economica dell'impero dovesse condurli in breve ad una inevitabile rovina, era cosa preveduta da chiunque rifletteva alle condizioni finanziarie dell'Italia, e a quelle che i moderni progressi delle scienze e dell'industria hanno creato in Europa. – Non è da supporsi neppure che gli uomini di Stato austriaci ignorassero ove conduceva la via imposta agli italiani; ma al governo austriaco, come a tutti i governi dispotici, poco importa de' suoi amministrati, e se un sistema di governo o di amministrazione gli sembra conveniente, esso lo addotta, quand'anche lo sappia ingiusto, rovinoso e mortale per una parte qualunque de' suoi sudditi.

L'Italia possedeva tesori in oggetti di belle arti e di antichità, come sarebbero intagli, avori, smalti, cesellature in metalli, ecc. Le sue principali città vantavano famiglie nobili di smisurata ricchezza. Le repubbliche di Genova e di Venezia avevano creato, mediante il commercio, delle ricchezze private come non se ne conoscevano altrove in quei tempi, cioè sul principiare del secolo decimonono. Ma tutte queste dovizie, erano tesori accumulati da lungo tempo, e nessuna nuova sorgente erasi aperta per riacquistare il denaro che si spendeva con prodigalità più pazza che altro. – I tesori italiani dovevano dunque esaurirsi in un dato tempo; ma varie circostanze concorsero ad abbreviare quel tempo e ad affrettare il compimento della inevitabile rovina. – La rendita che rimaneva agli italiani traevasi, come ho già detto, dall'agricoltura; ed era prodotta in gran parte dai bachi da seta e dalle viti. Ognuno conosce la dolorosa storia di questi due prodotti agricoli, durante gli ultimi dodici anni. – Un morbo speciale e misterioso in quanto alla sua origine piombava sui bachi e sulle viti, nè ha per anco ceduto ad alcuno dei rimedi tentati. E non si vede nè come nè quando nell'avvenire l'industria sericola riprenderà il suo corso, e ridonerà qualche valore al suolo, da cui si traeva. – Parecchi possidenti, che godevano di un'annua rendita di circa cento mila franchi, cavati dalla coltura dei bachi, si sono trovati subitamente ridotti ad una pressochè assoluta povertà. – I bachi prosperavano e sembravano promettere un abbondante raccolto, quando tutto ad un tratto, mentre stavano avviandosi al bosco, o disponendosi a formare la loro buccia, cadevano morti, quasi colpiti da morbo pestilenziale. Da dodici anni queste scene si ripetono ogni primavera, ad onta dei lunghi e pericolosi viaggi intrapresi da giovani avventurosi nelle più remote e barbare contrade dell'estremo oriente, per procurare agli allevatori di bachi da seta, una semente più sana, e non ancora tocca dal morbo europeo. – Nulla valgono questi generosi tentativi; che dopo due o tre anni di mediocre raccolto, e di cure indefesse, la semente straniera risente l'azione della morbosa influenza, ed i bachi che ne nascono muoiono, come morivano dapprima gl'indigeni. – Si sono fatti studi variati ed estesi per conoscere la cagione del male, e per trovarvi un rimedio; ma dopo tanti anni, ancora non si giunse a stabilire con certezza se il germe infetto sia quello del baco, ovvero quello del gelso.

La crittogama della vite non è così misteriosa come la malattia dei bachi; ma è tenace non meno di quella, e la distruzione di quei due prodotti della nostra industria agricola sembra farsi di giorno in giorno più probabile. E quei due generi erano veramente e considerevolmente i due più ricchi prodotti della nostra agricoltura; quelli che le davano una certa importanza come sorgente della pubblica ricchezza, ed una certa superiorità sull'agricoltura delle altre contrade d'Europa. – A noi lombardi rimangono i terreni inaffiati o paludosi, le praterie a marcite, le risaie, ecc.; ma questi terreni sono necessariamente assai ristretti, e tutto il rimanente del suolo italiano è limitato attualmente alla produzione dei cereali, cioè alla produzione medesima delle altre parti d'Europa; alla produzione di cereali che possono bene bastare al nutrimento del contadino, ma che a nulla montano come oggetti commerciabili, destinati ad impedire che il tesoro pubblico si esaurisca intieramente.

Altre cagioni di rapido impoverimento si sono aggiunte a quelle già accennate. Il mostruoso incremento del lusso, e il disgraziato abito, contratto dalla gioventù d'ogni classe, di fuggire qualsiasi occupazione che non sia di puro divertimento. E siccome il vigore giovanile vuole uno sfogo, i giovani che hanno imparato a considerare le occupazioni dello studio o di un impiego, in una parola quelle occupazioni che compongono una professione, ossia una carriera amministrativa, militare, magistrale, scientifica o artistica, come un mezzo per guadagnar denaro, come una necessità per chi non ne ereditava dalla propria famiglia; i giovani, dico, disgraziatamente imbevuti di tali falsissimi concetti, non trovano altro pascolo alla loro operosità che nell'imitare servilmente i costumi dei giovani della aristocrazia inglese, francese e russa, i quali disponendo di beni di fortuna assai superiori ai nostri, ne porgono rovinosi esempi. I nostri giovani, i quali ereditarono dai padri loro una rendita che i padri non riescivano a spendere, la ricevettero già ridotta dalla parte che la legge garantisce ai fratelli e dalla dote delle sorelle, gravata inoltre d'imposte che non pesavano sui padri loro; e si credono tenuti di far onore alla nobiltà della stirpe coll'eseguire in Italia tutto ciò che i loro pari inglesi, francesi e russi, eseguiscono a Londra, a Parigi e a Pietroburgo. I nostri giovani rappresentanti le antiche famiglie della nostra storia, non sono contenti di possedere dei buoni e bei cavalli, delle carrozze comode ed eleganti, e tutto ciò che costituisce dei ricchi e convenienti equipaggi; ma vogliono essere ammirati come gli esatti fac simili dei giovani inglesi di alto grado; e siccome tanto le importazioni quanto le imitazioni inglesi non si ottengono in Italia se non si pagano a peso d'oro, così la soddisfazione degli innocenti e puerili desideri dei nostri giovani basta talora a mandarli in rovina. Non uno forse degli eredi delle nostre più cospicue e più doviziose famiglie ha saputo conservare intatti i suoi beni e la condizione elevata che essi gli procuravano. Con una rendita ridotta e frazionata, i nostri giovani, a nulla intenti se non all'esatta riproduzione dei costumi oltramontani, spendono assai più che non spendevano i loro padri. Nel secolo passato l'anglomania spuntava appena, e gli uomini di qualche valore morale, intellettuale o anche soltanto sociale, avrebbero arrossito di scendere dalla loro elevata condizione per cambiarla con quella d'imitatori delle straniere singolarità. – Quando gli animali o gli oggetti qualsifossero, che servivano ai loro comodi o ai loro divertimenti, riempivano di fatto la missione loro imposta, i nostri antenati non si tormentavano lo spirito a ricercare se i lord inglesi non avrebbero richiesto di più: possedevano dei magnifici palazzi, delle ville pressochè reali; ma non trasformavano queste loro sontuose dimore in una perenne occasione d'ingenti spese. L'addobbamento dei loro palazzi era in armonia coi palazzi medesimi, e si componeva in gran parte di oggetti d'arte, pitture, sculture, bronzi, porcellane e sete; ma nessuno pensava a rinnovarli prima che il tempo li avesse contaminati e distrutti, perchè in altri paesi le case dei ricchi si ammobigliano in diverso modo.

Non mi tratterrei così lungamente sopra queste apparenti inezie, se non si traessero dietro gravi e tristissime conseguenze. Non credo, ripeterò, siavi nell'Italia del nord un solo dei rappresentanti delle nostre famiglie illustri, che non abbia più o meno sciupato l'ereditato patrimonio, e che non sia avviato verso una maggiore rovina; e ciò senza aver imparato cosa alcuna, senza avere acquistato nè oggetti preziosi, nè introdotto o tentato d'introdurre nel proprio paese altre novità, fuorchè le stranezze di oziosi stranieri, che non formano nei paesi loro che una derisa minoranza. Poichè nè in Inghilterra, nè in Francia, nè tampoco in Russia prevale quella assurda opinione, che lo studio o la scelta di una professione o di una pubblica carriera sieno cose riservate ai poveri, che hanno bisogno di lavorare per guadagnarsi il vitto. Fatale errore! Il lavoro non è soltanto il mezzo più onesto di guadagnar denaro, è il dovere di ogni cittadino, o, diciam meglio, di ogni essere dotato di ragione, che possiede un'anima intelligente, di cui dovrà un giorno render conto al creatore. Lo studio e il lavoro sono il mezzo che una benefica provvidenza ne largisce per sviluppare e perfezionare l'intelletto nostro; sono il mezzo col quale ciascuno può servire il proprio paese; sono la scala per cui la creatura umana sale dalla terra al cielo, dalla vita materiale, che ha comune coi bruti, alla vita spirituale a cui può sola aspirare.

L'avversione al lavoro, e il disprezzo per chi è costretto a dedicarvisi, sono una inesauribile sorgente di danni pel paese nostro. – Il popolo, e particolarmente gli abitanti della campagna, inclinano per la naturale loro pigrizia all'ozio, e non potendo abbandonarvisi interamente (chè ad essi lo vieta la necessità di procurarsi vitto, casa e vestimenta), si contentano del puro necessario; e, questo ottenuto, nessuno al mondo li saprebbe indurre a prolungare di un'ora l'opera loro. Perciò avviene che ogni nuova imposta, o tassa, per poco gravosa e per equa che siasi, pare al nostro contadino una misura vessatoria, iniqua ed intollerabile; solo perchè essa lo toglie momentaneamente a quell'ozio ch'egli considera come suo privilegio e suo diritto. Come potrebb'egli giudicare altrimenti, circondato qual è da altri contadini che la pensano come lui, da un clero che si studia di mantenerlo nell'ignoranza, e quindi nella soggezione e nella dipendenza de' suoi voleri, ed alla presenza di un padrone, che lungi dall'inspirargli l'energia e l'amore al lavoro, come alla unica fonte di ogni prosperità, gli dà il deplorabile esempio di sprezzare il lavoro e di astenersene ogni qual volta lo può?

D'altra parte nè l'abilità al lavoro, nè l'attitudine all'applicazione, non s'acquistano in un giorno. – Un'intera generazione non basta a formare una nazione laboriosa ed energica, nè ad imprimerle quel carattere di creatrice, che distingue così eminentemente fra tutte le altre la inglese, e fa sì che un'impresa industriale da essa tentata, è giustamente considerata dalle altre nazioni, come una impresa felicemente compita. – Io pure vorrei che gli italiani prendessero gli inglesi per modelli; ma non per imitare le puerili stravaganze di alcuni ricchissimi oziosi, bensì per emulare la maravigliosa operosità delle moltitudini. E si osservi altresì che quegli stessi ricchissimi oziosi cui la nostra gioventù tributa tanta ammirazione, non sono poi così oziosi come lo crediamo, e lo sono in tutt'altro modo di noi. I loro passatempi, i viaggi, le caccie, le corse e gli esercizi equestri, nulla hanno per certo di effeminato; anzi allo sviluppo delle forze intellettuali unendosi così lo sviluppo delle forze fisiche, come a concepire essi riescono atti a compiere le più ardue imprese. I viaggi più pericolosi di questo secolo, le scoperte di nuove terre, e di nuovi passi per recarvisi, sono dovuti in gran parte ai rampolli della inglese aristocrazia; e quelli poi che non hanno acquistato fama di grandi viaggiatori, non si sono però addormentati nell'ozio e nell'effeminatezza; ma o proseguono nei maschi diporti della caccia e del cavalcare, o si dedicano all'agricoltura, all'industria, al commercio, o a qualche dotta professione, impiegando così nell'età matura quell'eccesso di energia che li aveva traviati nella primissima gioventù. In Inghilterra gli uomini che non si consacrano ad una occupazione, o ad uno studio, o ad uno scopo di pubblica beneficenza, insomma che non impieghino la esistenza loro al servizio del loro paese, formano una impercettibile minoranza; mentre da noi, i giovani forniti di beni di fortuna, che si dedicano ad un proposito patriottico, formano la volta loro, rarissime eccezioni. Abbiamo veduto che il numero dei rappresentanti delle nostre più illustri e più ricche famiglie i quali abbiano conservato intatto il patrimonio loro, non è superiore a quello dei giovani che si dedicano ad una virile occupazione; e di ciò siamo oltremodo dolenti, perchè il rapido deperimento di una classe di cittadini così importante come la nobiltà italiana, in cui erano concentrate le maggiori ricchezze del paese e tutta l'autorità e l'influenza che sono come i corollari delle ricchezze, non può decadere senza produrre un adequato e funesto squilibrio in ogni classe della società.

Parlerò meno diffusamente del carattere e dei costumi delle popolazioni dell'Italia centrale e meridionale, perchè non sono spettatrice costante dei fatti loro, come lo sono dei nostri. Pure quel poco che ne so non mi mostra gli italiani di quelle provincie più esperti e più intelligenti di noi in materia di libertà e di governo costituzionale. Il fatto, per citarne uno a tutti noto, che la città di Messina, la seconda città della Sicilia e in realtà eguale alla prima in estensione, in ricchezza, in coltura e in civiltà, deputò ripetutamente a rappresentarla al parlamento l'esule Mazzini, prova sufficientemente che i suoi elettori nulla intendono del sistema di governo detto costituzionale. Se la Sicilia avesse inteso di protestare contro il governo attuale, doveva mandare al parlamento insieme con Giuseppe Mazzini altri uomini di fama repubblicana; e soddisfatta di avere con ciò espresse le proprie aspirazioni, non ostinarsi in quella espressione dopo che il parlamento l'avea respinta come incostituzionale. – I messinesi si condussero altrimenti. Nominarono un solo repubblicano, Giuseppe Mazzini, insieme con altri molti che avevano protestato della loro divota adesione alla nostra monarchia; e quegli elettori medesimi che avevano votato con entusiasmo per Mazzini, facevano pochi giorni dopo una rumorosa dimostrazione in onore di Vittorio Emanuele, più non ricordo in quale particolare occasione, togliendo con ciò ogni possibile significato al singolare loro voto. Poi quando il parlamento, condannando la illegalità della elezione, la cassò, i messinesi la rinnovarono, mettendosi così in urto ed in ostilità non più col governo, ma colla rappresentanza nazionale, che è quanto dire colla nazione e con sè medesimi.

Lo stesso ha fatto più recentemente Palermo, nell'occasione della legge votata dal parlamento per l'abolizione degli ordini religiosi. Tutti conoscono le orribili scene che scaturirono dalla fanatica superstizione dei palermitani, ad istigazione evidente dei frati e delle monache, inferociti per l'abolizione dei loro privilegi. Nessuno vorrà dire che un popolo capace di simili eccessi sia maturo per godere di una regolare libertà; e i più indulgenti confessarono che un poco di educazione civile e politica, non sarebbe superflua pei siciliani. Ora, questa educazione chi pensa a darla, e come sarà data?

I napolitani hanno l'aspetto e le forme più civili dei siciliani. Oltre ciò hanno una intelligenza così aperta ed una fantasia così svegliata, che prontamente imparano, e si fan proprie le cose, o almeno l'apparenza delle cose che loro passano sotto gli occhi. Aggiungiamo pure che se non le idee, le parole di costituzione, di parlamento, ecc. non giungono ad essi nuove, mentre ebbero un principio di effettuazione nel 21, ed un altro ne avevano avuto sul finire dello scorso secolo. La presenza di cospicue famiglie straniere che a Napoli accorrevano, ivi attratte dalla bellezza del cielo e dalla mitezza del clima, vi avevano introdotto alcune abitudini civili, e sparso una certa gentilezza di modi sopra una popolazione naturalmente alla gentilezza inclinata, quando non sia trasportata da passioni violenti e sfrenate. Napoli diffatto ed il suo popolo hanno progredito verso la vita civile dal 60 in poi. Certe immondezze scomparvero dalle pubbliche vie: certe nudità permesse dal clima, ma vietate dalla civiltà, più non si incontrano per le strade, sulle piazze e nelle chiese; le scuole normali e popolari sono frequentate dai figli di padri e di madri analfabetici.

I napolitani non si mostrano avversi alle leggi della vita civile1. Ma tutto ciò non significa ch'essi sieno in grado d'intendere e di apprezzare i benefizi di un governo costituzionale, nè di compierne i corrispondenti doveri: ed in varie occorrenze gli antichi sudditi dei Borboni mostrarono invece di avere inteso soltanto che la dinastia dei loro re era mutata. Si ricordino i miei lettori certe elezioni avvenute nel 65, e confesseranno meco che i napolitani anch'essi hanno bisogno di essere educati alla libertà. Le doti che la natura ha loro compartito serviranno a rendere la educazione loro più facile e più pronta; ma converrebbe invero supporre ch'essi possedessero la così detta scienza infusa, per ammettere che i diritti ed i doveri dei popoli liberi e civili potessero essere noti a chi non ha mai goduto gli uni, nè avuto chi gli insegnasse gli altri, ad un popolo che fu sempre retto da un despota e da un clero fomentatore della superstizione e della ignoranza, che non conosce insomma via di mezzo fra una cieca obbedienza ed una sfrenata libertà.

1.Quando io scriveva quelle righe, già si sussurrava di una tacita resistenza al pagamento delle nuove imposte; ma si sperava che in essa non vorrebbero persistere ed ostinarsi i napoletani. – Si cercavano ad essi scuse, e si trovavano facilmente nel fatto, che sino al 59 i sudditi dei Borboni non sapevano per così dire che cosa fossero le imposte, nè perchè si decretassero, nè a qual uso servissero. Tanta ignoranza doveva diradarsi rapidamente, ed era o sembrava impossibile che una popolazione intelligente e svegliata come la napoletana non intendesse che le strade non si aprono, che le scuole non si creano, che la sicurezza e la tranquillità pubblica non si ottengono senza denaro, e che il denaro a ciò impiegato deve essere fornito dal popolo che fruisce di siffatte opere ed istituzioni.
  Forse che la indulgenza usata verso i primi che si astennero dal pagare le nuove imposte persuase ai napoletani che, persistendo essi nella loro resistenza, si manterrebbero immuni da ogni disturbo fiscale. – Il fatto si è che le nostre provincie meridionali pagano in effetto circa il 20 per cento della quota che ad esse spetterebbe di pagare. – I deputati napoletani sono però fra i più accaniti detrattori del governo italiano, perchè esso non propone un mezzo facile ed economico di ragguagliare l'avere ed il dare dell'annuo bilancio. – Nè è da supporre ch'essi ignorino la principale cagione di quella pretesa incapacità del nostro governo; ed un bambino non durerebbe fatica a convincersi che quando il consuntivo non giunge al 50 per cento del preventivo, il deficit non può essere evitato.
  La conseguenza necessaria di tale dissesto è la creazione incessante dì nuove imposte, le quali non rendendo allo stato nemmeno la metà della somma aspettata, e ciò perchè circa una metà degli abitanti del regno non paga la parte sua, rimangono e rimarranno in perpetuo insufficienti. Intanto l'Italia settentrionale che, di mala voglia sì ed imperfettamente paga, ma pure paga, va impoverendosi di giorno in giorno, e potrà fors'anco cadere in rovina, se le cose continuano su questo piede.
  Chi ha pagato i molti milioni impiegati a costruire strade carreggiabili e ferrovie, a stabilire telegrafi elettrici, a fondare nuove scuole primarie in tutti i comuni delle provincie meridionali? chi, se le provincie meridionali stesse non li hanno pagati, e non li pagano? – Noi non siamo fra quelli che si figurano il governo come un essere sui generis, possedente beni suoi propri e tesori inesauribili, indipendenti dalle imposte e dalle somme che ne ritrae. – Se dunque i napoletani fruiscono gratuitamente dei lavori eseguiti nelle loro provincie, siccome il denaro che costarono non può provenire da altra fonte che dal pagamento delle imposte, dobbiamo concludere, che i benefizi largiti ai napoletani furono pagati dall'Italia settentrionale in gran parte, e dall'Italia centrale nella misura delle sue forze.
  Noi non avremmo desiderato che il governo sospendesse i lavori intrapresi nell'Italia meridionale, ed aspettasse per condurli a buon fine che i suoi abitanti si adattassero a pagare le imposte. – Le opere eseguite e le istituzioni attivate erano necessarie alla fusione delle varie popolazioni, che è quanto dire al consolidamento della nostra unità politica, ed è questo uno scopo che deve essere raggiunto a qualunque costo. Nè ci rifiuteremmo di pagare i conti dei napoletani anche nell'avvenire, se credessimo la cosa possibile; ma camminando di questo passo, andremo in rovina, senza vantaggio alcuno pel paese. Ciò che a noi sembra urgente si è di ristabilire l'equilibrio tra le finanze delle varie provincie, insieme con quello degli annui bilanci, costringendo i napoletani a pagare la quota che ad essi spetta. – Tosto o tardi sarà necessario adottare tale partito; e le dilazioni altro effetto non hanno se non di persuadere ai napoletani che, durando nella loro resistenza, rimarranno vincitori.