Buch lesen: «E Non Vissero Felici E Contenti», Seite 2

Federica Cabras
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Lui se ne era fatto una ragione. «È la vita…», diceva, con tono triste ma fermo.

Stavano insieme da anni; entrambi avevano altri amanti e spesso litigavano tanto da mettersi le mani addosso… tuttavia erano l’uno il porto sicuro dell’altro. C’erano, e in quel tipo di vita era già tanto così.

«Fanculo, abbassa questa merda!»

«Muori, maiale!» disse lei. Era mezzanotte ma aveva gli occhiali da sole. Muoveva la testa a ritmo di canzone e aveva chiuso gli occhi. Quella canzone parlava di amore e speranza; ascoltarla portava un po’ di luce nel buio di una vita vuota, senza senso.

«Eccheccazzo, sei sempre la solita stronza!»

«Senti,» disse lei, poco convinta «ti ho procurato la dose, sai? Quindi che vuoi da me? Minimo mi fai sentire la canzone di che cazzo mi pare…» concluse, perentoria.

Lui mise il muso, ma lei non se ne curò.

«Merda, c’è un cazzo di animale nella strada!»

«Frena!» urlò lei, in preda al panico.

Ma non ci riuscirono. Investirono quella carcassa scura. Poi, con un botto, si fermarono e scesero dalla macchina per vedere.

Nessuno li avrebbe potuti preparare per quello che avevano davanti.

Ester vomitò l’anima e litri di alcol su quei due corpi martoriati.

Gli occhi di Sandi erano aperti, vuoti, freddi e la testa, girata sul lato destro, era piena di sangue. Eddie era riuscito a chiudere gli occhi, prima di frantumarsi nell’asfalto di quella strada poco trafficata. Gli arti di ambedue formavano angoli irregolari.

«Chia, chia… Chiama… Chiama qualcuno!»

«Ester, qui ci vuole un carro funebre.»

«Non mi importa chi diavolo vuoi chiamare, Miguel! Chiama qualcuno… Oddio, oddio…»

Pianse a dirotto, chinata su se stessa.

Ancora non sapeva che quell’immagine l’avrebbe accompagnata per il resto della sua vita; non sapeva nemmeno che quella strada coincidenza degli eventi l’avrebbe salvata.

*

Arrivò un mare di agenti, paramedici e medici. A Ester venne data una coperta mentre Miguel giaceva svenuto in un’altra ambulanza. Ma nessuno si stupì di quel macabro ritrovamento. I corpi vennero chiusi in un telo di plastica scura e spediti all’obitorio.

Qualche giorno dopo Ester e Miguel si fecero una promessa: che quello fosse un nuovo inizio. Soprattutto dopo aver scoperto la verità.

PARTE PRIMA

Si dica ciò che si vuole! Il momento più felice di chi è felice è quando si addormenta, come il momento più infelice di chi è infelice è quando si risveglia.

Arthur Schopenhauer

1

Sandra Alti era una bella donna – di quelle belle donne che rimangono impresse nella mente di chi le trova nel suo cammino. Non aveva quella bellezza perfetta – stile Barbie, con capelli platino, occhi cielo e fisico asciutto – ma sapeva produrre invidia nelle donne ed eccitamento negli uomini. Procace e seducente, maliziosa in sguardi e frasi, mai ingenua – anche se sapeva fingere bene, il più delle volte, di esserlo… se non altro per attirare su di sé ancora più ammirazione – sapeva nascondere il suo egoismo dietro frasi di circostanza e finto interesse. Era sempre stata una prima donna, e mai e poi mai avrebbe ceduto trono, scettro e corona a qualcun’altra. Se non ti ascoltava non era mai perché era un po’ sorda – come talvolta sosteneva, seppur con poca convinzione, al fine di rendere le cose meno evidenti – ma perché semplicemente o non le interessavi tu o non si curava di ciò che avevi da dire. Le sue armi – infallibili e precise – erano un’estrema autostima – nessuno mai avrebbe potuto farle pensare che non valeva; chiunque ci avesse, in passato, provato, era finito in un bar malconcio a bere sulla sua stupidaggine – e un Gucci sui polsi. Non aveva un lavoro molto soddisfacente – faceva l’imballatrice presso una grossa azienda di giochi per bambini – ma aspettava, di continuo e senza mai perdere di vista l’obiettivo, la sua occasione come scrittrice. Erano anni che provava a scrivere; aveva iniziato una favola, un romanzo e un bel paio di racconti per bambini, tuttavia, puntualmente, si ritrovava a chiudere il PC e a tornare alle faccende domestiche. Le mancava quel non so che necessario per trovare l’idea vincente. Non si sarebbe arresa – «Mai!» aveva giurato a se stessa, qualche inverno prima – ma per ora si limitava a svolgere una vita annoiata e disinteressata. Suo marito Edmund Bellavista, per tutti Eddie, del resto aveva smesso di prenderla sul serio: lei non avrebbe nemmeno saputo dire perché, ancora, dopo tutti quegli anni, fossero ancora sposati, visto che l’interesse era finito da un pezzo.

Era proprio a questo che pensava, in quell’umida mattina di fine aprile, mentre, in mano un bicchiere di vino bianco, faceva un bagno caldo nella vasca a idromassaggio.

Pensava a quanto fosse infelice la sua esistenza. Una grande casa e due estranei che vi abitavano. Nulla di nuovo, nulla di speciale… nulla e basta. Il bagno, nei suoi colori tenui, era il luogo adatto per riflettere sul senso della vita. Un senso che, tuttavia, ora a lei sfuggiva: «Perché continuare a fingere?» concluse, stancamente. Poi pensò allo stipendio di lui – di netto superiore al suo – e tutte le soluzioni le giunsero al cervello annacquato di acqua e profumi per bagno.

«Sono a casa!» urlò Eddie, dal piano inferiore. Lanciò la borsa nella poltrona e si diresse in cucina. Nessuna risposta, ma ci era abituato. Solo cercava di avvisarla quando entrava in quella casa che era di entrambi; se non altro per non far succedere quello che era capitato qualche tempo prima.

Era stata una giornata faticosa in ufficio, ma era riuscito a terminarla in modo più indolore possibile. Non aveva avvisato Sandi che stava rientrando: solitamente quando faceva tardi dormiva da Sergio, suo amico e compare, ma quest’oggi, liquidata la sua solita proposta si era diretto verso casa. Aveva bisogno di un bel bagno e del suo letto.

Entrò in casa cercando di non fare rumore e si diresse verso il frigo bar. Prese una bottiglia di Montenegro e ne versò una quantità generosa in un bicchiere pesante di vetro, con quattro cubetti di ghiaccio. Poi si stravaccò nella poltrona verde del salotto, non prima di aver sbattuto sonoramente un ginocchio nel tavolino in vetro dinanzi a sé. Pochi minuti dopo fecero irruzione in casa sua due poliziotti. Fu allora che Sandi, pallida e nervosa, fece capolino dalla scala. Era furioso.

«Ora non posso nemmeno entrare quando mi pare in casa mia, Sandi? Vuoi sbattermi fuori?» domandò, stizzito.

«No, è che io…», lei non riuscì a terminare la frase. Si sentiva sciocca, in quel momento. Ora capiva. Certo: un ladro non avrebbe fatto tutto quel trambusto.

«Agenti, è mio marito, potete andare…» aggiunse, imbarazzata.

Uno degli agenti ci mise un secondo a digerire l’informazione, e Eddie capì subito perché. Sandi aveva una vestaglia in pizzo e la biancheria, rosso fuoco, brillava al di sotto. Non si era struccata dalla sera precedente, e la sua bellezza rifulgeva di luce propria, in quella scala buia.

«Fuori, per favore… vorrei discutere con mia moglie.» sbottò nervosamente enfatizzando, forse in modo eccessivo, la parola “moglie”.

«Ci scusi… arrivederci.»

«Che diavolo hai indosso? C’è un altro uomo, su con te?»

«Che diavolo dici? La metto per sentirmi sexy, dato che tu non sei capace di darmi questa semplice soddisfazione.»

«Ok, come ti pare.» terminò scortesemente lui, girandole le spalle.

Si riprese da questa visione passata, e aprì lo stesso frigo bar di quella notte. Stesso bicchiere, stesso liquore e stessa quantità di ghiaccio. Persino stessa poltrona. Chiuse gli occhi, distese i piedi e li poggiò sul tavolino. Era una brava persona, pratica e sempre gentile. Passionale e coraggioso, era anche tenace, non mollava mai. L’unica cosa che non avrebbe mai potuto – nemmeno con la forza dell’intero universo – migliorare era lo stato del suo matrimonio. L’aveva amata, e tanto anche e ancora, seppur di rado perché la distanza metteva delle barriere invalicabili tra loro, si ritrovava a desiderarla. Aveva una moglie bellissima ma era più a portata di mano la Luna che il suo corpo.

Sarà che quando una cosa si rompe non si riaggiusta mai per bene; sarà che le sofferenze non avvicinano, checché se ne dica; e sarà anche che il matrimonio di due persone così differenti non era destinato, dal primo giorno, a finire bene.

O sarà che per tenere unito un filo che passa per due persone è necessario che entrambi lo tengano; nessuno dei due era più disposto a farlo, e quel filo giaceva, esanime, nel mezzo.

Si sganciò la cravatta, e il primo bottone dei pantaloni. Dopo aver guardato un po’ di televisione si diresse, esausto, verso la camera da letto al piano di sopra.

Dormivano ancora insieme, non sapeva perché. Quel gesto sciocco, considerata la situazione, gli dava tuttavia un senso di normalità in tutto quel caos.

Si tolse, lentamente e senza far rumore, i vestiti. Poi alzò un lembo di coperta e si infilò accanto alla donna che aveva sposato circa 15 anni prima. La guardò di sfuggita. Un raggio di luna che penetrava dalla finestra le illuminava il volto pacato, tranquillo. Lui sperò stesse sognando. Avvicinò la mano per sfiorarla e subito un ricordo lo travolse, come un camion.

«Metti la mano sulla pancia, Eddie!»

«Quando? Adesso?» rispose, nervoso, lui.

«Sì, ora. Sai! Accidenti, hai perso il momento.» si espresse, infine, lei. La bambina si era momentaneamente calmata.

«Porca miseria…»

«Dai, tranquillo, fra un pochino si risveglia!»

«Come la chiameremo, Sa’?»

«Ah, non so… ho comperato un libro di nomi.»

Si alzò, goffamente. La pancia era bella grossa, mancava un mese e mezzo e già lei si sentiva una balena. Stare seduta le doleva: la bimba premeva sulle costole provocandole delle fitte atroci.

Gli porse un libretto arancione comprato da pochi giorni. Aveva annotato sui margini i nomi che l’avevano colpita.

«Samantha?» disse lui, inarcando un sopracciglio. Non gli piaceva.

«Bello, Sara. Anche Denise mi piace. Ma è più bello Ginevra.»

«Sì, Ginevra è un gran nome.»

«Allora permettimi di fare due coccole alla mia piccola Ginevra…» propose lui, con il sorriso sulle labbra.

Si distese accanto a lei e le posò la mano sulla pancia, massaggiando il punto dove sua figlia, beata e indisturbata, cresceva.

«Ma non sappiamo ancora se si chiamerà Ginevra…» si lamentò la donna, che però era estasiata dall’entusiasmo di suo marito.

«Ma dai, lasciami fare. Zitta, tesoro…»

E si addormentarono così, con la luce gialla dell’abat jour, un libro arancione accanto e un gran calore che li invadeva.

Tornò al presente, e l’assenza di quel calore percepito pochi istanti prima nella sua mente scostante lo ferì tanto da fargli montare la rabbia.

«Fanculo.» disse, fra sé. Con le lacrime agli occhi le diede la schiena e cercò di dormire.

Sandi, che quando lui era salito ancora non era totalmente addormentata, percepì la mano di lui vicina al suo viso e sentì l’imprecazione. Immaginò il disagio, la frustrazione dell’uomo. Avrebbe potuto girarsi, posare una mano sulla sua fronte e dirgli che andava tutto bene. Sarebbe stata una bugia, è vero, ma una di quelle menzogne bianche. Invece non fece nulla. Sospirò, piano per non farsi sentire, e si addormentò. Era finita fra loro, bisognava solo prenderne atto.

2

Il sole era già alto nel cielo, in quella tiepida mattina di primavera. Sandi si svegliò di soprassalto e guardò accanto a sé. Suo marito era uscito, probabilmente era già a fare jogging. Al suo posto Ted, il loro cagnetto beige, russava sonoramente.

«Ted? Teddy?» si rivolse a lui la sua padroncina, tentando, invano, di attirare la sua attenzione. Ma dormiva, e sodo anche. Girò il musetto peloso dall’altra parte, e sospirò.

«Va bene, quando hai voglia scendi…» finì brevemente lei, mentre si stiracchiava e usciva dalle calde coperte.

Una volta nella sala da pranzo bollì l’acqua e preparò una tisana di the al caramello. Poi si sedette con lo sguardo rivolto verso la finestra che dava sul prato, a pochi metri da lì. Era assorta nei propri pensieri quando il telefono trillò. Si spaventò, posò la tisana rovente e si diresse verso il telefono di casa.

«Pronto?»

«Oh, Sandi! Meno male che ti ho trovata…»

Sua madre. Bene, fantastico anzi. Trovava sempre il momento migliore, il più rilassante, e lo rovinava con le sua ciance inutili.

«Dimmi, mamma. Però sbrigati, sono pronta a uscire.»

«Mi dici sempre così! Sciagurata… Una madre ha bisogno di parlare con la propria unica figlia, di tanto in tanto. E mai che tu sia disposta ad ascoltarmi. E se avessi un problema grave? Se stessi morendo?»

«Mamma, non vivrai per sempre.» concluse, perentoria e secca.

«E quindi?»

«E quindi ti seppelliremo, quando morirai. Certo non ti lasceremo a marcire in casa tua, e nemmeno ti imbalsameremo.»

Sandi era scocciata: possibile che dovesse fare, ogni santa volta, la melodrammatica?

«Ah, be’ se mi dici così. Io ti ho cresciuta…»

La figliola prodiga, esasperata, piantò il telefono nel tavolino del soggiorno per poter andare a recuperare la tisana in cucina. “Tanto” si disse “si sta solo lamentando della vita e di me. I suoi due argomenti preferiti. Ne avrà per molto.”

Ciabattò flebilmente fino alla cucina, prese la tazza della Tour Eiffel – ricordo di Parigi e di quella notte magica, dolce e ardente insieme – e vi soffiò dentro.

«…come al solito nessuno si cura di me! Ti ho cresciuta, quando quel disgraziato di tuo padre se ne è andato! Pensi sia stato facile pensare a cambiare i tuoi pannolini e a lavorare? Io ero un’attrice! Una bellissima, talentuosa attrice di talento, sai, ne avevo da vendere!»

«Ah,» riprese Sandi, che nel frattempo aveva colto solo il senso generale di quel monologo infinito «quindi se non sei diventata famosa sarebbe colpa mia e dei pannolini che solevo sporcare? In questo caso, mi devi davvero scusare. Sono stata una figlia orribile; sporcarmi, mangiare, desiderare attenzioni: che ingrata!»

«Oh, Sandra, non fare la drammatica. Non ho detto questo!»

«Invece mi pare che tu l’abbia appena fatto. Che poi, perdonami se sbaglio, a quel che so io ti avevano già scartata quando ti venne su la pancia della gravidanza…» asserì poi, non senza una punta di cattiveria.

«Bene, devo andare. Ciao.» tagliò corto lei.

Carlotta era stata una donna meravigliosa – come la figlia, d’altronde – ma non aveva avuto molta fortuna né con la carriera né con la famiglia: il suo talento era stato presto smentito da numerosi agenti e l’uomo che all’epoca si portava a letto – e del quale si stava peraltro anche innamorando – aveva tagliato la corda non appena lei aveva pronunciato le parole bebè, culla e biberon. Aveva cresciuto quella figlia non voluta all’insegna dell’egoismo e della noncuranza, non mancando mai di sottolineare la sua frustrazione per quel ruolo, di ragazza madre lavoratrice, che così poco, secondo lei, le si confaceva.

La ragazzina, dopo le iniziali delusioni, si arrangiò; si creò una vita e sopravvisse, ma in cuor suo ammirava quella donna così elegante, fine, altera al punto che aveva finito per assomigliarle più di quanto avrebbe mai potuto ammettere. Ma adesso per mesi non si vedevano né si sentivano, e a Sandi stava bene così.

Si mise al PC. Anche quel giorno avrebbe provato a scrivere. Era, in fin dei conti, libera per il resto della giornata. Optò per una protagonista donna: si vantava di conoscere il mondo femminile in ogni sua sfumatura. Sbagliava, ovviamente: conosceva solo il versante cattivo delle donne – quello maligno, malizioso, fatto di inganni e menzogne.

“E Carola soffiò via il fumo della sigaretta, mentre il cielo si schiariva. Sarebbe, finalmente, tornata...”

«Dove? Dove deve tornare Carola?», si domandò ad alta voce, spazientita. Non trovò una risposta.

Che lavoro avrebbe fatto Carola? E perché la sua vita sarebbe stata così particolare? Riuscì a buttare giù, con fatica, 7 pagine e mezzo poi, esausta e svuotata, chiuse il computer. Accadeva sempre questo: trovava un nome, un luogo, una data e una potenziale storia nella sua mente ma poi si stancava; l’entusiasmo cedeva il passo dapprima alla monotonia e poi alla totale indifferenza. A quel punto il file veniva gettato nel cestino e mai più recuperato. Decise di non lanciare, metaforicamente e letteralmente, quel primo contenuto abbozzato in un cestino; magari si sarebbe rivelato utile. Sì, magari.

3

Eddie era completamente bagnato. Aveva corso almeno un’ora e mezza. Qualche mese prima aveva sentito una sua collega dire ad un’altra che aveva il sedere moscio e si era arrabbiato e offeso non poco. Lui aveva sempre vantato un fisico asciutto e una forma invidiabile, ma ora aveva i suoi anni. Invece di arrendersi al fatto che il suo sedere non avrebbe certo potuto sfidare le leggi della gravità aveva deciso di iniziare a fare jogging. Le prime volte era stato uno strazio, un trauma. Si fermava, dopo pochi metri di corsa, con il viso stravolto dal colore pallido-cadavere e con un fiatone che si sarebbe sentito dalla regione vicina. Ora aveva una buona media, si fermava di rado e non ansimava più come un moribondo. Fiero del fatto di avere riottenuto un sedere tonico e sodo, passava davanti a quelle megere delle sue colleghe ostentando una camminata sicura e diritta. Quasi sculettava e i loro sguardi erano scioccati.

Un “don” uscì dalla sua tasca della tuta. Prese il telefono cellulare e lesse il messaggio di Giorgia, la sua collega. Lui era uno dei 16 impiegati di un grosso studio commerciale, e sovente lavorava con lei. Più che altro, lui la guidava. Fresca di studi era stata spedita nel mondo del lavoro; non sapeva nemmeno allacciarsi le scarpe, ma lui la stava istruendo a dovere.

“Senti, Eddie. Dobbiamo riguardare quella faccenda del signor Consi. È necessario, lo sai, che sia pronta entro le dieci di domattina. Considerando che in ufficio arriviamo alle 9, credo che ci dovremmo vedere questa sera. Io sono libera, tu?”

Eddie sbuffò. Era una cosa che poteva fare anche una persona da sola. Le aveva già spiegato che l’avrebbe potuto fare da solo, ma lei aveva insistito. E ora si ritrovavano a doversi vedere di domenica sera. Non ci sarebbe stato niente di male se questa domanda gliela avesse fatta Stefano, o Sergio. Ma lei. Lei era bella, giovane, profumata. Lo vedeva come un mentore, un uomo affascinante dall’aria sicura, decisa, forte. Ne era affascinata. Si vedeva lontano un miglio. Quando poteva si avvicinava eccessivamente a lui, le posava una mano sulla spalla con sensualità, malizia. E per lui sarebbe stato fin troppo facile abbandonarsi a lei, totalmente e irrazionalmente. Era un uomo, non un santo, ed era fatto di carne, ossa e cuore – un cuore che non batteva più da tempo ma che non era ancora morto.

«Eddie, ascolta. Io so che stai attraversando un momento difficile, con tua moglie. Ne parlano tutti, qui in ufficio. Voglio farti sapere che» disse con sensualità «io per te ci sono. Ci sono sempre.» Era il giorno dell’Immacolata, e lei si era recata in studio per finire una pratica con lui. Erano solo loro, in un edificio enorme. E lui l’aveva desiderata così ardentemente che fu un tormento alzarsi e scappare da lei con una scusa. Prima però aveva appoggiato le labbra sulla pelle candida del suo collo, ringraziandola.

Eccoli, i dannati vuoti spazio-temporali dove lui perdeva capacità di giudizio e percezione della realtà. Tornò in sé e digitò un messaggio.

“Sì, dai. A stasera. In ufficio. Porto la cena io.”

“A stasera, bye mon amour. Pensami.”

E nemmeno sapeva quanto lui l’avrebbe ascoltata. Mise le cuffie nelle orecchie e riprese una marcia veloce.

4

Sandi uscì all’ora di pranzo. Sarebbe andata a mangiare da una sua amica; avrebbe potuto persino trattenersi fino a cena: suo marito era fuori per lavoro, e sarebbe stato carino passare una serata tra amiche.

Passò dal negozio e comprò un paio di regali. Olivia aveva quattro figli, due femmine e due maschi, e i soldi non erano troppi, in quella casa. Sapeva, quindi, che i bambini sarebbero stati entusiasti di ricevere un pensierino. Per lei e l’amica invece prese una bottiglia di liquore alla mandorla; sperava aiutasse a lenire le sofferenze di due vite infelici. Quando bussò al portone malconcio, vecchio e con le vernice verde parzialmente scrostata era quasi l’una. Olivia aprì alla porta con un paio di occhiali grossi e scuri. Era una bella giornata di sole, sì, ma dentro casa le tapparelle lievemente spostate verso il basso creavano un’atmosfera cupa.

«Che diavolo accade, Olivia?» chiese con il cuore a mille Sandi.

«Oh, cara mia. Nulla di grave. L’ho sbattuto fuori di casa, tranquilla.»

«Ma… io… Io non capisco.» asserì confusamente Sandi, con un tono che andava dal rammarico alla desolazione.

«Oh, piccola, entra, ti spiegherò.»

Sandi varcò l’entrata, si tolse il cappotto e la guardò. Aspettava, cauta, che l’amica si sbilanciasse. I bambini giocavano in un’altra stanza.

«Oh, Sandi. So che con Eddie vanno male le cose. Ma non metterti con un uomo come Dario.»

«Ti ha picchiata?»

«Tra le altre cose…» mormorò, sconfortata Olivia. Era una combattente, una a cui non la si fa sotto il naso. Ma quella volta era triste, abbattuta.

«Ieri, dopo aver chiamato te, abbiamo fatto una cenetta romantica. Volevo dirgli una cosa. Una cosa importante, sì.»

«Sei incinta, vero?»

«Assolutamente sì. Credimi che non so come sia potuto accadere. Sono stata attenta come non mai. Ma è accaduto. Per tutto il mese ho avuto nausee, dolori allo stomaco, fiacchezza. Ho attribuito il tutto al ferro, non sto mangiando abbastanza carne. Poi ho fatto il test. E ho scoperto che, no, non era proprio la carne il problema. O meglio, era un pezzo di carne sì…» aggiunse, maliziosa. Riusciva a scherzare anche ora, in un momento drammatico, e triste, e disperato.

«E quindi?»

«Si è incazzato! Come una iena, oserei dire. Si è alzato dal tavolo e mi ha detto: “Non hai intenzione di smetterla di sfornare marmocchi come fanno le coniglie?”. Allora gli ho detto che non mi ero certo montata sopra da sola, per rimanere incinta. Ho visto un lampo d’odio nei suoi occhi ed è corso verso Matthias. L’ha preso e ha gridato: “Credi che io non sappia che questo non è figlio mio? Pensi che non abbia scoperto che te la fai con un altro?” Ovviamente era una scusa. Proprio Matthias, che è la sua copia sputata. Il bimbo ha urlato, lui l’ha schiaffeggiato… poi ha preso Linda. Anche per lei ha detto la stessa cosa; detto fra noi, Linda davvero non sembra figlia sua. Che Dio mi benedica, io nemmeno ci penso ad altri uomini. È già tanto se penso a lui mentre, con le gambe aperte, attendo che abbia finito per potermi dedicare alle mie faccende. Lei ha urlato, ha pianto e si è divincolata. Lui l’ha lanciata – lanciata nel vero senso della parola, che l’Inferno lo inghiotta – per terra. Io mi sono fiondata, l’ho colpito. Ma lui me le ha ridate. Poi ha detto: “Cresci i tuoi stronzetti da sola, me ne vado!” e io l’ho lasciato andare. Guarda…»

Indicò con un indice mangiucchiato la finestra che dava sul retro. Un falò bruciava, scintillante.

«Cosa bruci, Olivia?»

«I suoi fottutissimi impestati vestiti.» disse, soddisfatta. «Gli ho detto al telefono, a quel bastardo figlio di puttana, che lo sto aspettando a braccia aperte. E gli ho detto anche che se torna gli sfondo la testa con una mazza di baseball e lo seppellisco in giardino, per concimare i miei fiori. Che il suo corpo putrefatto alimenterà le mie rose. Ecco cosa gli ho detto. E che se tocca i bambini se ne pentirà amaramente.»

«Lui che ti ha detto?» si informò Sandi.

«Nulla, che credi? Mi ha presa alla lettera. Sa che non mento e che non ho paura. Io quel cervello bacato glielo tiro fuori dal cranio davvero, se torna. Ah, mi ha detto che anche lui ha un occhio nero. Gli ho fatto un occhio nero, capito? E cosa vuole? Un rimborso? Un mazzo di rose? Un paio di frasi di scuse? Bastardo stronzo.»

«Ah, be’. Sono felice che tu sia così.»

«Così come?»

«Così forte, Olivia. Così decisa.»

«Oh, io non sono né forte né decisa in questo momento. Io sono triste e amareggiata: non sono stata capace di difendere i miei figli, Sandi. Linda ha un livido nella gamba sinistra, e Matthias è nervoso, agitato. Gli altri due hanno solo guardato. Samuele se l’è vista brutta: è un guerriero, stava partendo per difendere la sorella; Dana non si è mossa, e dalla paura si è fatta la pipì nei pantaloni. Sono riuscita tardi a calmarla. Mi hanno chiesto se devono chiamarlo papà, ma ero troppo arrabbiata. Non sgridarmi. Gli ho detto che non devono chiamarlo proprio.»

«Oddio, e ora il bambino che aspetti… Come farai?»

«Oh, farò dolcezza. Ne ho sfornati altri quattro. Un quinto non sarà certo un problema. Che poi, detto fra noi, io ho chiuso con gli uomini.»

«Ah, ben fatto. Stasera non puoi berne, allora.» domandò Sandi, indicando la bottiglia di liquore.

«Oh no scordatelo. Io berrò succo d’ananas, ma tu puoi bere. Quando arrivi qui con una bottiglia vuoi ubriacarti per forza, non ti toglierò questo diritto. Mi piaci da morire, quando sei ubriaca. Non sei fredda e distaccata come al solito. Sei sveglia, attiva, espansiva. Sarà divertente.» sentenziò, infine.

Poi chiamò a raccolta i suoi bambini e insieme mangiarono pasta al forno, fettine di tacchino e tiramisù.

Sandi notò una tristezza nei loro occhi giovani che non aveva mai visto. La piccola Dana aveva gli occhi gonfi e rossi. E tremava, mentre con la manina chiara prendeva il cucchiaino con una piccola porzione di dolce. Lei la guardò e le sorrise, poco convinta. La bambina non rispose.

«Vi sono piaciuti i giochini, bimbi?» domandò per svegliarli da quel torpore e dalla delusione che sanno mostrare solo i bambini quando le certezze crollano come una casa malconcia sotto un uragano.

«Sì, ci sono piaciuti, zia.» affermò Samuele.

Con il camion – quel bellissimo camion verde e rosso – avrebbe certamente giocato di lì a poco anche se quella storia era ancora così vivida, e dolorosa, e pungente nella sua mente.

«Oh, forza bambini! Dite qualcosa alla zia. Raccontatele di quel cartone, come diavolo si chiama…» si perse Olivia.

Niente, proprio non lo ricordava. Un pomeriggio intero a sbattersi per quei protagonisti, e lei non rammentava come si chiamasse.

«Sto proprio uscendo di testa, ragazzi.» concluse, non senza una punta di amarezza. «Proprio ora!»

«Perché proprio ora, mammina?» domandò Linda.

«Niente tesorina, niente.»

Nessuno di loro sapeva del fratellino/sorellina che cresceva nel grembo della mamma; si sarebbero senza ombra di dubbio straniti: quella mamma forte e buona non faceva altro che dire che quattro figli erano molti. Sì, lo diceva mentre sorrideva, ma loro la vedevano la stanchezza nei suoi occhi, la voglia di dormire – anche solo cinque minuti – e il desiderio di fare un bagno caldo e lento.

«Frozen, mamma?» azzardò Dana. D’altronde ne avevano visti un paio, quella settimana.

«Ecco, quello. Raccontatele come è stato!»

«Bello.» chiuse, velocemente, Matthias.

«Come sei originale, figlio mio.» lo rintuzzò la madre, con sguardo severo. «Proprio un bel racconto.»

«Vogliamo andare di là, mamma, a giocare.»

«Anche io!» si unirono gli altri tre.

«Andate, andate a giocare, figli miei.»

«Ciao bimbi…»

«Ciao zia Sandi…»

Quando la porta della camera dei bimbi si chiuse Olivia si girò a guardare Sandi e le domandò, con voce roca: «Ma secondo te come stanno? Sono scioccati?»

«No, scioccati non direi, Olivia. Secondo me semplicemente si riprenderanno, ma hanno bisogno di tempo.»

«Tempo, e chi ne ha? Dammi un sorso di liquore…»

«Non puoi, Olivia.»

«Solo un sorso, che Dio mi perdoni. Mi serve. Mi aiuterà a dormire stanotte.»

E sorseggiò, calma, cercando di distogliere la propria mente dai pensieri. Forse era vero: serviva tempo… sia ai suoi figli che a lei. Ma serviva soprattutto che Dario non si avvicinasse a quella casa mai più. Lei non lo avrebbe permesso. Poi sorrise, pensando all’enorme mucchio di vestiti carbonizzati nel giardino. Il sorriso divenne riso.

«Che hai da ridere?» le domandò Sandi, divertita.

«Quello stronzo non ha nemmeno un vestito con sé! È uscito con una tuta e un giubbotto… probabilmente tornerà a prendersi la roba!» urlò, ridendo sguaiatamente. «E sai cosa troverà?»

«Un mucchietto di cenere?» azzardò lei.

«Esatto. Un cazzo di fottutissimo mucchietto di cenere!»

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