E Non Vissero Felici E Contenti

Text
Autor:
0
Kritiken
Leseprobe
Als gelesen kennzeichnen
Wie Sie das Buch nach dem Kauf lesen
E Non Vissero Felici E Contenti
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

Federica Cabras

E (non) VISSERO FELICI E CONTENTI

Pubblicato da Tektime

Prologo

«Be’ sei pronta?», disse lui mentre la aspettava.

Il suo tono non tradiva agitazione né rancore né impazienza. Era calmo, pacato come forse non era mai stato. Ingessato in un completo alla moda e con indosso un profumo costoso dall’aroma dolce non vedeva l’ora, finalmente, di godersi quella serata. Pensava ci fosse un che di magico, in una notte senza luna. Tutti a vantare la bellezza delle notti stellate – quelle nelle quali alzi lo sguardo al cielo e pensi che mai potresti contare tutti quei luminosi puntini gialli – ma lui non capiva affatto: amava il buio, l’oscurità.

Era quello che solitamente abbassava tutte le imposte e traeva beneficio dalla quiete di una casa silenziosa. E adesso, guardando fuori dalla finestra, capiva che quella che si apprestavano a trascorrere era proprio la sera perfetta. I capelli ramati erano fissati con il gel, e i gemelli – regalo di laurea di tanti, troppi anni prima – brillavano nell’artificiale energia dell’abat jour. Gli occhi verdi incastonati da lunghe ciglia quasi femminili brillavano d’eccitazione, ma sapeva che lei non era pronta. Quindici anni di matrimonio erano serviti a capire i suoi difetti – e i pregi, malgrado talvolta non fosse semplice ricordarli – e non c’era dubbio: mai e poi mai le 8 avrebbero significato le 8. Eternamente ritardataria, perpetuamente tanto bella quanto dannata. Ma forse se ne rendeva conto davvero solo adesso. Il suo sguardo vagò per il salotto; dalla sua postazione – una poltrona morbida di pelle verde – poteva vedere la parte della casa che più amava, il salotto. I gufi disseminati ovunque – lui amava quel maestoso quanto regale animale – con i loro occhi enormi, e spiritati, e un po’ inquietanti.

«Eddie, dovresti almeno girarli. Guarda! Mi osservano e io non riesco a mangiare.»

«Ma tesoro, guarda che belli, hanno quei colori cangianti e quell’aria nobile, maestosa.»

«Non mi importa. Non riesco a concentrarmi sulla televisione. Gira quei mostri, subito.»

Le foto, tra le quali quelle del matrimonio rimaste sempre in prima fila, nonostante i problemi, nonostante i dubbi e nonostante le cose scoperte ma sepolte in un recondito angolo della mente.

«Cavolo, Sandy, stai ferma. Porca vacca, non provare…»

«Cioè, non ci posso credere! Stai dicendo quelle cose qui, davanti al fotografo, il giorno del nostro matrimonio?»

«Sandi, non farla tragica. Sei sempre la solita melodrammatica! Le sto dicendo nel tuo orecchio…»

«Ragazziiii, sorridete! Cheeseee!»

Le coppe, quelle che prima di rompersi il ginocchio collezionava giocando a pallavolo.

«Sei sempre fuori! A giocare! E a me? Che dici a tua moglie?»

«A te do tutto il mio amore… dopo le partite!»

La cuccia del cane. Quel piccolo, peloso, bastardello che aveva rubato il loro cuore e il loro divano. Per dieci anni era stato testimone di tutto… litigi e riappacificazioni; amori e odi; urla e gemiti. Ma ora anche lui era andato via. Era nel vento, nella terra, in tutto quello che aveva annusato o marcato con la propria urina. Era nel cielo, nel mare. Era nelle nuvole. Ma non era lì con loro, e questo era un dato di fatto. Non avrebbe più rubato loro la copertina, né il cuore. Non avrebbe provocato le loro risate quando, tondo e cicciottello, cadeva ruzzolando nella neve a gennaio o quando, in piena estate, scappava dietro il gatto dei vicini obbligandolo a fuggire lontano e con una media da record di velocità.

«Ted, piantala di rincorrere Jimbo! Eddie, vai a prendere Ted o al gatto dei vicini verrà un colpo apoplettico!»

«Cara, piantala! È così divertente! Mio Dio, guarda come corre!»

«Ed! prendilo!»

Amava i ricordi. Arrivavano implacabili, forti. Talvolta aveva la recondita convinzione che qualcosa in lui non andasse: era capace di estraniarsi dal mondo per ricordare. Stava con lo sguardo perso nel vuoto, triste, come se qualcosa si fosse fermato nella sua testa. Qualche ingranaggio si arrestava e lui precipitava in passati più o meno lontani. Il flusso del tempo non era normale, in quegli attimi. Era come avere una navicella temporale, solo che non era certo lui a impostarne i parametri. Andava avanti e poi tornava indietro per poi tornare avanti. Le voci erano nitide, le sensazioni vive; persino gli odori tornavano come avessero appena solleticato il suo naso.

Poi gli occhi cambiarono bruscamente direzione e la vide. Quella copertina. Rosa e azzurra. Sempre linda come il giorno che era stata, con cura e minuziosa dedizione, confezionata. I sogni, le illusioni. Riguardo questo fatto non riusciva molto spesso a evocare ricordi, discussioni. Sapeva che il solo pensare a questo avrebbe provocato pianti inconsolabili, melodrammatiche tragedie. E lui non aveva più lacrime. Il tempo un po’ lenisce; leviga le rocce che si piantano nel cuore impedendogli di pompare sangue a dovere e libera i polmoni da quel peso che non permette respiri profondi. O forse quell’organo chiamato cuore lui non lo aveva più.

Voltò lo sguardo, posandolo sul tavolo. Se si punta lo sguardo su qualcosa di scuro e indifferente, come un comunissimo tavolo da cucina, le tristezze vengono rigurgitate dai propri occhi; vengono ricacciate dentro l’anima, o almeno così credeva lui. Un’altra cosa che aveva imparato, sempre con il tempo e la pazienza, era che se si hanno delle convinzioni si devono tenere strette. E non importa se si è nel torto, o se sono cose sciocche, surreali, inverosimili: aiutano.

Il rumore sordo dei tacchi sulla scala di legno attirò la sua attenzione. Sandra era a metà e, con fare sexy, poggiando un braccio alla ringhiera in ferro battuto, si girò e gli sorrise mentre a lui si mozzava il fiato.

Lei era bellissima, raggiante. I capelli fatti da fili d’oro erano sistemati in uno chignon elegante dietro la testa, e il vestito – mio Dio, quel vestito, spettacolare quanto costoso, attillato quanto elegante – le fasciava il corpo lasciando intravedere quelle forme che l’avevano incantato anche quella sera di 16 anni prima quando, giovani e inesperti, avevano deciso che valeva la pena di uscire anche una seconda volta.

«Bene, sono pronta.» disse lei, divertita.

Sapeva che lui non si sarebbe arrabbiato, non oggi. D’altronde avevano deciso che sarebbe dovuta essere fantastica, quella sera insieme. Atteggiandosi a bomba sexy scese gli ultimi tre gradini con una sicurezza impareggiabile, se non fosse che nell’ultimo gradino una spettrale forza sovrumana – che lei chiamava amabilmente scoordinazione – le piegò il piede verso destra. Sarebbe certamente rovinata a terra – lei e quell’amabile vestito – quando lui, svelto e agile come una gazzella nella Savana, le cinse i fianchi sussurrandole, serafico: «Non cambierai mai… vuoi un deambulatore, amore?»

«Oh, mi basta la tua presenza per sentirmi vecchia.» lo rintuzzò lei che in quanto ad acidità pareva essere un’esperta.

«Bene, il ristorante ci aspetta…» concluse lui, accompagnando le parole con una sonora pacca sul sedere della moglie che, presa alla sprovvista, spalancò gli occhi, stupita. D’altro canto non era sempre che loro due solevano scherzare. O meglio, solo negli ultimi giorni accadeva e non sovente. Ma non avrebbe certo avuto tempo di abituarsi.

Le prese la mano e si avventurarono nel gelo della notte, in quella città che albergava anche nel loro cuore. C’è magia nella notte illuminata di una città, e loro, ipnotizzati dai colori, non si sarebbero mai stancati di passeggiarvi. Mille strade, di quelle che avevano percorso centinaia di migliaia di volte. Gli edifici – quelli grandi, infiniti, imponenti – e le piccole case – graziose con portici stipati di fiori e di rampicanti. L’odore di vita – quell’odore di smog misto a cibo – che si sente in quelle strade trafficate, vissute, amate. I negozi, illuminati a giorno e pieni di gente sorridente o musona, chiacchierona o riservata, bella o brutta. Miliardi di vite che ogni giorno si incontrano e si scontrano, si amano e si odiano. Ma loro amavano quel posto da cui tutti i loro amici volevano scappare. «Troppo frenetico.», sostenevano. O: «Vivere qui toglie dieci anni di vita… qualche anno e mi trasferisco nei Caraibi. Prendo una vacanza e torno arzillo come un ragazzino ventenne.»

Per loro sarebbe stato impossibile trasferirsi, e lasciare quei posti tanto amati. Per gli altri erano indiavolati, per loro ameni; per gli altri erano sporchi, per loro lindi; per gli altri erano fastidiosi per loro vitali. Di continuo la gente parlava di quanto fosse bello poter vivere su una barca nell’oceano – l’amica di Sandi, Olivia, sosteneva che era davvero “un sogno migliore di quelli che si tengono nel cassetto” – o nel deserto, meditando e camminando – Eddie stava male solo a pensarci: ripugnava sia il caldo che la sabbia, condizioni necessarie per quel tipo di vita.

Anche ora, in quel giorno così speciale, con meraviglia e stupore, si guardavano attorno. Mano nella mano, ogni tanto un sorriso li rendeva ancor più complici di prima. Quindici anni di matrimonio e doveva accadere questo perché uno dei due si accorgesse del bene che voleva all’altro.

«Sei felice, Sandi?» chiese, quasi timoroso, lui.

«Be’, se con felici intendi appagata, soddisfatta, finalmente equilibrata… sì. Se intendi felice felice non credo. Tutto finisce, niente è per sempre. E chi, più di noi, lo sa?»

«Non intendo dire che va tutto bene, sia chiaro. Ma va meglio. Alle volte l’unica cosa che si può fare per combattere il male di vivere è fare le cose a mille. Meglio un giorno da pecora…»

 

«Non starai nuovamente iniziando con quella tiritera di...»

«Non ci posso credere! Anche oggi! Fanculo, Sandi. Ti ho dato tutto e sono pronto; pronto per te, pronto per tutto. Ma non trattarmi con quel tono!»

«Quale tono? Sei un fottuto psicopatico!»

«Stronza maledetta, quel tono condiscendente che indica commiserazione.»

«Hai ragione, ti prego, scusami. Godiamocela, oggi. Minimo. Mea culpa. Meriterei una fustigazione pubblica…» aggiunse, mentre le labbra, increspate in un sorriso innocente e malizioso insieme, luccicavano nella luce di un lampione.

«Potrei persino farlo, ma ti amo.» disse mentre, con cura e lentezza, si avvicinava per poggiare le sue labbra su quelle di lei. La baciò come fosse la prima volta. Sentì un sapore fruttato – ciliegia, fragola? – e un tepore tanto familiare quanto soddisfacente.

«Può baciare la sposa.»

La folla esultò, e lui le scoprì il viso dal velo candido come la neve. Nello sguardo di lei c’era un tripudio di emozioni – amore, sì, ma anche emozione, voglia, appagamento, leggerezza e liberazione – e le sue mani tremavano, scosse da quell’attimo. Si asciugò con la manica dello smoking gli occhi bagnati dalla commozione, e la baciò. Un brivido corse freddo lungo la schiena.

«Perché tremi?» disse lei, preoccupata e confusa insieme.

«Ricordi, Sandi. Solo ricordi.»

«Ricordi? Ogni tanto vengono a trovarmi, ma li caccio la maggior parte delle volte. Prova anche tu.»

«Non ne sono capace, lo sai. La mia testa si perde. Avanti e indietro.»

«Sei matto.»

«Forse no o forse sì; comunque dubito fortemente sia dato da sapere a noi, oggi. E poi sto peggio del solito, sai? Mi è sempre accaduto di non poter controllare il flusso della mia mente ma tutto si è acutizzato, oggi. Non fanno altro che prendermi come fossi una bambola di pezza, e trascinarmi in un vortice di eventi, di date, di frasi e di odori.»

Il suo monologo pareva una confessione. Si tenne la testa fra le mani, poi si massaggiò brevemente le tempie, come se questo meccanismo potesse lenire la sofferenza di non sapere come le leggi del mondo possano rendere ogni uomo schiavo del proprio destino.

«Senti, io penso sia un dono. Cioè, tu ancora hai il modo di ricordare tutto… cioè, tutto tutto… mentre i miei ricordi spariscono, inghiottiti da un enorme buco nero. Nonostante voglia che certe cose siano fissate nella mia mente loro fuggono, si perdono.»

Lui sapeva di cosa parlava, ma non rispose. Non parlavano mai di quella sera, anche perché faceva male. Condividere un dolore fa sì che si mostri la fragilità, e tutto diviene meno facile quanto si mostra la propria debolezza, è risaputo.

Quegli occhioni spalancati, chiari, grigi. E quella pelle pallida e morbida. Nemmeno un dentino, ma la smorfia tradiva un sorriso.

«Che sogna, secondo te?» chiese, fremente di impazienza, lui.

«Ma, non so Eddie. Magari le mie tette.» sentenziò, con fare pensieroso.

«Proprio come suo padre, allora.» aggiunse lui.

«Il tuo sarcasmo è proprio di cattivo gusto…», lo rimproverò senza livore. Erano giovani, e da un mese, assaggiato il dolce sapore di essere genitori, toccavano il cielo con un dito. Si abbracciarono, felici. Poi guardarono la culla, verso quella nuova, preziosa vita e con un solo sguardo fu subito chiaro che la perfezione era stata giunta.

Un attacco d’ansia stava facendo capolino, ma non l’avrebbe fatta vincere. Provò, velocemente e in mezzo alla strada, una tecnica che aveva letto qualche giorno prima in un giornale. Tenendosi il ventre con la mano destra – o era la sinistra che avrebbe dovuto adoperare? Non ricordava affatto – con l’altra si tappò prima una narice e poi l’altra attendendo che i battiti del cuore tornassero normali.

«Che diamine stai facendo?» chiese lei, un sopracciglio alzato in segno di disorientamento.

«Cerco di calmarmi, cara.»

«E perché lo devi fare? Sei nervoso? Perché ne abbiamo parlato, e a lungo persino. Sei liberissimo di…»

«Sciocca!» urlò, poi si ricompose. «Dai, non fare così; è stato un momento di smarrimento. Nulla di che. Non devi essere sempre così insistente, e curiosa. Sono sicuro, anzi sicurissimo.»

«Bene, allora.»

Era soddisfatta. D’altronde aveva calmato le acque più lei con il suo modo fastidioso di sbottare che lui con quell’assurda e inutile tecnica. Lui, d’altro canto, si era dovuto calmare: lei era incredibilmente aggressiva, quando si arrabbiava. Lungi dal voler provocare un inferno aveva dovuto desistere dalla sua idea, volente o nolente. E forse era meglio così.

Erano oramai arrivati. Appena dentro un cameriere adolescente con i capelli sistemati alla bell’e meglio li condusse al tavolo che avevano prenotato.

«Un tavolo per due giusto? I signori Bellavista?» disse, in tono veloce e agitato. Era nuovo: aveva quell’atteggiamento di affettazione mista a insicurezza di quando si vorrebbe far colpo ma si è sicuri di non avere la sicurezza o le qualità necessarie. Comunque loro sorrisero, e lui rispose mettendo in bella vista i denti ricoperti di un brutto apparecchio metallico.

Li condusse a un tavolino di legno pregiato, dal design moderno. Linee morbide per un capolavoro color ciliegio; le gambe decorate a mano rendevano il clima antico ma non in modo obsoleto. Una tovaglia di raso bianco decorato con pizzi e fili dorati aggraziava ulteriormente l’atmosfera. Due candele rosse accese creavano l’atmosfera di cui avevano bisogno e per la quale, peraltro, Sandi si era tanto alterata al telefono durante l’ordinazione.

«Le ho detto che è un giorno importante, per me e per mio marito. Vogliamo qualcosa di unico, di speciale. Non so, qualcosa che faccia dire agli altri clienti, vedendoci: “Oh, che belli… chissà quali sogni d’amore si stanno raccontando!”. Capito?»

«Mi faccia capire, signora. Vuole avere un tavolo bellissimo, elegante, rivestito con stile e allestito a regola d’arte, per due, che faccia meravigliare gli altri clienti proprio stasera e che non sia nemmeno troppo dispendioso? Vuole anche qualcos’altro?» aggiunse, poi, esausto. Era abituato ai clienti e alle loro strambe, impossibili richieste. Dieci anni prima avrebbe senz’altro riagganciato il telefono, ora i tempi erano duri e si limitò solo a una lieve, impercettibile ironia. Sandi, dal canto suo, aveva capito il suo tono sarcastico, ma non le interessava: se lui avesse accettato, bene, nel caso contrario aveva altri dieci ristoranti da chiamare con le stesse surreali richieste.

«No, davvero. Nient’altro. Solo questo.»

«Ah menomale. Sarà fatto. Per stasera, giusto?»

«Sì, bene! A nome Bellavista.»

«Arrivederci!»

«Arrivederci a lei.»

Tom – era questo il nome del capo-cameriere che aveva preso l’ordine – si disperò solo un po’. Il suo turno era finito, e dopo aver annotato le parole “elegante” e “creare meraviglia” accanto all’ordine del tavolo di Sandi ed Eddie, entrò in auto certo che anche quella notte avrebbe preso una bella, rovinosa sbronza. Sperava solo di non addormentarsi nella vasca da bagno: l’ultima volta aveva sofferto per un mese di mal di schiena. «Dio benedica le Aulin.» annunciò, a se stesso. E a chi altro poteva dirlo? Solo come un cane randagio e altrettanto avvicinabile, si apprestò ad arrivare a casa sua prima possibile.

«Sei soddisfatta, Sandi?» domandò ironico Eddie. Aveva assistito alla telefonata della mattina, e sapeva che le richieste erano un po’ troppo esagerate. Comunque era tutto perfetto; anche il prezzo non era stato troppo alto. Certo, proprio oggi non si sarebbe lamentato. Gli venne un sorriso, poi gli passò. Non sapeva ancora come prendere quella situazione surreale. Scosse la testa e attese la risposta.

«Be’, sì alla fine va bene. Non vedo la meraviglia negli occhi degli altri clienti, però.»

«Ah, ci credo. Siamo gli unici nella stanza!»

«Appunto.» lo rimbeccò lei, seccamente.

La verità era che, quando ci si metteva, aveva un modo di fare totalmente egoista. Fosse stato per lei il mondo non sarebbe girato attorno al Sole, ma attorno al suo ego.

«In ufficio oggi si parlava di quello che è accaduto, me l’ha detto Sergio al telefono poco fa.» cambiò discorso Eddie.

«Cosa hai fatto?»

«Ho dovuto fare la voce meravigliata; è stato straziante.» si prese il viso tra le mani. Quando meno se lo aspettava qualcosa lo faceva precipitare nello sconforto più totale.

«Va be’. Alla fine è andata. Brindiamo. A noi, al nostro amore, alle disgrazie che ci hanno unito.»

«E a oggi, che ci libererà da tutti i problemi e ci renderà uniti davvero e senza intoppi.»

Alzarono ambedue il calice che tenevano in mano e diedero vita a una di quelle scene da film che tutti, almeno una volta ella vita, sognano di mettere in piedi. Volti raggianti, sorrisi soddisfatti, espressione pacata e finalmente distesa.

Lei lo guardò, forse per la prima volta con attenzione da quando erano usciti da casa. A 47 anni era ancora piacente, con le spalle larghe e i capelli color miele. Gli occhi erano dolci – era un dettaglio non trascurabile, visto quanto le avevano fatto paura quando, arrabbiato, si stringevano a fessura – e dalla forma femminile. Si era sempre domandata come sarebbero sembrati belli con un po’ di mascara. Gli sorrise e lui ricambiò.

“L’amore è questo…” pensò. “Perdersi ma ritrovarsi per amarsi ancor più di prima. Rispettarsi ed essere capaci di fare di tutto pur di difendere quella scintilla che si accende quando due metà si uniscono. Io e Eddie siamo due metà, e ci siamo ritrovati. Dopo una tempesta, rovinosa e potente, e dopo piogge più o meno forti. Io e lui abbiamo scalato i monti, con la sola forza dell’amore. Non ho mai avuto scelta, ho avuto lui che era il mio solo ed unico destino. Il mio scopo. La mia missione. Mi è andata bene così. Di lusso.”

«A che pensi? Un soldo per i tuoi pensieri.» propose lui. Non gli piaceva vedere il suo sguardo perso nel vuoto. Trovava che lei riflettesse sempre troppo.

«A noi, Eddie. A quanto ci ha uniti una cosa che generalmente separa. A quanto siamo coraggiosi e forti. L’audacia non ci manca, non credi?»

«Sì, non ci manca no!»

Sandi era in lacrime, Eddie girava qua e là o passo veloce e nervoso. Un gufo cadde e si ruppe l’ala: si era ritrovato nella sua traiettoria. Sandi si spaventò: i gufi di suo marito erano sacri, preziosi affettivamente. Corse e lo rimise in piedi, ma per l’ala non si poteva più fare nulla. La disperazione nella stanza era palpabile.

«Sai cosa dobbiamo fare!» blaterò lei, mentre le lacrime le rigavano il viso stanco e smorto.

«Ma non so se voglio!»

«Non abbiamo scelta, Eddie. Ne abbiamo già parlato. Cosa ci capiterà? Che dovremmo affrontare, se non facessimo quello che ci siamo prefissati di fare?»

«Lo so, lo so.» concluse lui, rassegnato. Sapeva che l’unica soluzione era quella. Per quanto fosse triste, non avevano scelta. Era così amareggiato che avrebbe potuto rompere tutti i soprammobili della casa. Poi si sarebbe accanito contro i mobili e magari avrebbe danneggiato i muri. Si sarebbe sentito meglio? Forse sì e forse no. Ma non lo fece. Sarà che la decisione era stata presa ancor prima che venisse detto “sì” da ambedue; sarà che l’unica cosa che, nascosta dalla sopraffazione e dalla rabbia, produceva sollievo era quella; e sarà che sapevano che prima o poi si giunge al capolinea e quel giorno erano davanti al traguardo. Avevano vissuto a mille e provato a usare tutta l’astuzia di cui disponevano, ma non era stato utile. Avevano fallito, e non potevano vivere con quel senso di rovina nel cuore.

«Eddie! Eddie! Mi senti? Terra chiama Eddie!»

«Oh, scusa, Sandi. Ero sovrappensiero.»

Un lungo sorso di champagne avrebbe lenito quel senso di frustrazione, o almeno lo sperava.

Mangiarono lentamente: si godevano le portate e l’atmosfera.

«Secondo te sono già arrivati a noi?» chiese lui, con tono sbrigativo. L’ultima cosa che voleva era suscitare un caos. Sapeva che con lei non si era mai fuori pericolo da tuoni e lampi.

«Non lo so, e nemmeno m’interessa.» rispose, lei, addentando una focaccina. «Che, poi, alla fine, abbiamo già capito che il mondo ci ringrazierà.»

Eddie era stranito: non credeva che il mondo avrebbe necessariamente inneggiato a loro due, comunque non era nemmeno del tutto certo che le colpe sarebbero confluite sulle loro azioni. Non sapeva che pensare. A volte le cose vanno a fortuna: lanci una moneta e ti tocca o testa o croce. La loro moneta era ancora in aria.

 

«Testa, fai testa…» sussurrò, senza farsi sentire.

Bevvero e risero poi bevvero di nuovo. Nessuno avrebbe potuto biasimarli… non quel giorno e non con tutto l’arsenale di ricordi che stavano cercando di seppellire in un angolo recondito della propria testa.

«Ma alla fine tu me le hai mai fatte le corna?» domandò lei, un po’ brilla.

«Nossignora. Mai. Una tipa mi ha quasi strappato di dosso le mutande, sembrava una mangiatrice di uomini…»

«Carino.» commentò lei, un sopracciglio sollevato.

«Ma io non glielo ho lasciato fare.» aggiunse, con orgoglio. Ricordava ancora quel bel sedere – con, annessa e connessa la sensazione di averlo tra le mani – e quel completino in pizzo, ma questo non l’avrebbe mai ammesso con sua moglie. «L’ho respinta.»

«Che uomo…» mormorò lei. «Era una bella donna?»

«Che c’entra?» sospirò lui, capendo al volo la trappola. «No, era una donna normale, un po’ grassoccia. Forse anche lievemente strabica. Capelli crespi e sedere grosso. Non il mio tipo, comunque.»

Il corpo di Giorgia era tutt’altro che normale – era una gran figa, di quelle che si vedono nelle riviste mezze svestite – e i suoi capelli sembravano fatti di seta, ma ora era il caso di aggiungere benzina sul fuoco.

«Piuttosto, tu? Mia dolce donna del mistero.»

«Io, no. Assolutamente.»

Sandi era calma e sicura di sé. Mai e poi mai si sarebbe rovinata.

«E il tuo libro? L’hai lasciato a Olivia? Il titolo?»

«Sì, è nelle sue mani, o, meglio, è quasi nella sue mani. Lo troverà domattina. Il titolo non lo so… lo deciderà chi per me.»

Poco prima di dolce e caffè lei disse al cameriere, all’orecchio, di aspettare un quarto d’ora prima di portare un tiramisù per entrambi.

«Sai cosa dobbiamo fare?» disse lei, gli occhi spalancati e accesi. «Vieni con me!»

Si alzò e lo prese per mano. Lui non capiva. Lei si guardò attorno, guardinga, e lo spinse dentro il bagno delle signore. Una volta dentro lo baciò con foga e gli ricordò – per l’ultima volta – chi fosse Sandra Alti e perché facesse perdere così tanto la testa a tutti, malgrado lui questa capacità non l’avesse mai veramente dimenticata.

Uscirono poi dal locale, tirandosi per le mani, eccitati e felici come due adolescenti.

Mangiarono un gelato, poi corsero tra la folla cercandosi, trovandosi, rincorrendosi. Tutti ridevano, alla vista di quella coppia adulta che si faceva gli agguati, che urlava e si nascondeva. Nessuno capiva. Ma loro sapevano. A mano a mano che giungeva l’ora divenivano sempre più nervosi, inquieti. Era come se non vedessero l’ora che tutto avvenisse ma nel contempo che volessero prolungare quell’ora di libertà, di pace, di leggerezza.

Poi si guardarono. Un ultimo bacio fu scandito dalle campane che annunciavano la mezzanotte, e fu allora che camminarono mestamente verso la strada che avevano scelto con cura.

Stapparono un’altra bottiglia di champagne – che Sandi aveva comprato in un’enoteca proprio per quell’occasione – e bevvero alla grande. Poi si presero per mano, presero un respiro e saltarono dall’alto cavalcavia.

Qualcuno ha detto che tra il decidere di uccidersi e il farlo ci sia un momento – un solo, impercettibile e svelto momento – nel quale tutto si mette nuovamente in dubbio. Ecco perché spesso all’ultimo momento si chiede aiuto, o si fugge. È un ultimo barlume di speranza, di voglia di vivere e spesso è di vitale importanza. È la linea che divide l’essere vivi dall’essere morti. Sandi e Eddie avrebbero potuto pensare che a tutto c’è una soluzione, che ogni cosa si può risolvere. Invece le loro menti non ebbero quel momento di riflessione. Poco prima di saltare Sandi pensava a quanto avrebbe desiderato sapere la sorte del libro e all’eventuale titolo che avrebbe voluto dargli, mentre Eddie al fatto che quel cielo di mezzanotte venato di un rosso fuoco fosse fantastico.

E con i pensieri: “Diario di una passione mortale” e “L’avrei voluto nella nostra stanza da letto” finirono due vite, complesse e malate, in un certo senso, ma senza ombra di dubbio interessanti.

*

Ester e Miguel erano fatti, come al solito. Lei urlava per cambiare stazione alla radio e lui urlava perché non voleva che lei urlasse. Avevano un concetto di vita che oscillava dall’illegale al dannoso. Tutte le cose pericolose o schifose o moralmente inaccettabili li affascinavano. Non ricordavano l’ultima volta che avevano fatto l’amore da sobri e senza aver assunto droghe. Non l’avevano comunque mai fatto in un letto. Quando finivano la grana per bucarsi di eroina si inventavano qualcosa; era più difficile se finivi a rota – tutti potevano fare di te ciò che volevano, ed eri alla mercé di ogni idiota che passava – ma erano sempre riusciti a tirare su qualche soldo. Lei aveva già venduto da tempo tutto il suo oro; lo aveva unito a quello rubato a sua madre ed era uscito un gran gruzzolo. Lui non aveva né oro né madre che avesse oro, quindi non aveva avuto nemmeno l’opportunità di farlo. Insieme avevano messo su ebay gli elettrodomestici e i mobili. Ora vivevano in una catapecchia con un tavolo, un materasso maleodorante e scosciato e una televisione datata e polverosa. Da qualche mese lei doveva adescare gli uomini ricchi nelle stazioni di servizio; le faceva schifo e talvolta le veniva voglia di smettere di farsi solo per non vedere quelle facce eccitate, e sudate, e grasse. Ma poi si tornava al principio. Lui diceva di amarla, ma accettava di buon grado che vecchi pervertiti posassero le mani su di lei. «È per una buona causa.» si ripeteva. E non ci pensava. Se l’avesse fatto sarebbe precipitato nella tristezza della sua miserabile esistenza e non ne sarebbe uscito vivo.

Non erano altro che due poveri miserabili che, per un fortuito caso del destino, si erano incontrati. Non avevano idee, né prospettive. Nemmeno i loro nomi erano quelli reali.

Lei veniva da una famiglia perbene; padre avvocato, madre professoressa di italiano e sorella biologa, ricercatrice alla Sapienza di Roma. Un futuro angelico era stato scritto anche per lei, o almeno finché, a quindici anni, fu chiaro a tutti che una pecora nera ci vuole in ogni nucleo familiare. Iniziò con roba leggera, poi entrò in brutti giri: solita storia. I suoi, troppo perfetti per tutta quell’anormalità, con gli estranei non la nominavano neppure ma fra loro ne parlavano di continuo. Non sapevano quale fosse l’errore, cosa avessero fatto di male. Per fortuna l’altra figlia, con i suoi scintillanti risultati, oscurava l’insuccesso di avere una disgraziata in famiglia. Ogni tanto, tra un buffet di Natale e un Capodanno sempre con gli stessi facoltosi amici con la puzza sotto il naso, quando il senso di colpa si impadroniva del loro cuore di pietra la cercavano e le davano un paio di biglietti da cento euro; magra consolazione, dato che venivano usati solo per un ulteriore passetto verso la morte.

Lui era, invece, un bambino nato disagiato. Aveva assaggiato, fin da piccolo, il sapore del sangue nella bocca: non sempre i compagni della sua mamma erano capaci di amarlo. Era stata lei – la sua mamma, la figura che dovrebbe, in genere, adempiere al faticoso compito di rendere l’esistenza dei propri figli un incanto – a iniziarlo alla droga. D’altronde lei stessa era stata indirizzata da suo padre, trafficante di droga noto in tutto il circondario. Nemmeno se si fosse impegnata avrebbe potuto fare di meglio. Aveva messo al mondo cinque figli tutti di padri differenti, e aveva fatto in modo che ognuno di loro fosse abbastanza capace di mettersi nei guai prima di schiaffarli alla porta. L’unica sorellastra con la quale avesse stretto legami e alla quale voleva un gran bene era sparita anni prima; questo di certo non l’aveva aiutato.