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Aus der Reihe: L’Anello Dello Stregone #5
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Wird gelesen Edoardo Camponeschi
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Un gradino alla volta scese i gradini d’avorio, facendoli risuonare sotto i suoi passi. Il silenzio era così fitto che lo si sarebbe potuto tagliare con un coltello.

Attraversò la stanza e raggiunse il mascalzone. Lo guardò con freddezza, a solo un passo da lui, mentre l’uomo si dimenava tra le braccia del comandante, guardando da ogni parte, ma non Gareth.

“I ladri e i bugiardi vengono trattati in un unico modo nel mio regno,” disse Gareth sottovoce.

Estrasse un pugnale dalla cintura e lo conficcò nel cuore dell’uomo.

Questi gridò, strabuzzò gli occhi e poi si afflosciò sul pavimento, morto.

Il comandante lo guardò con occhi cupi.

“Avete appena ucciso un uomo che era testimone contro di voi,” disse. “Non vi rendere conto che questo rafforza i sospetti sulla vostra colpa?”

“Quale testimone?” chiese Gareth sorridendo. “Gli uomini morti non parlano.”

Il comandante arrossì.

“Se non se ne è dimenticato, io sono comandante di metà dell’Esercito del Re. Non mi piace che ci si prenda gioco di me. Da come vi comportate e dalle vostre azioni posso solo presumere che siete colpevole del crimine per cui quest’uomo vi ha accusato. Detto questo, io e il mio esercito non siamo più al vostro servizio. Anzi, vi prendo in custodia, sulla base di sospetto tradimento dell’Anello!”

Il comandante fece un cenno ai suoi uomini, che tutti insieme – decine di soldati – sguainarono le spade e avanzarono verso Gareth per arrestarlo.

Ma Lord Kultin fece lo stesso con il doppio degli uomini, tutti con le spade pronte, disponendosi alle spalle del re.

Rimasero tutti lì, di fronte ai soldati del comandante, Gareth al centro.

Gareth sorrise trionfante. Gli uomini dell’Esercito del Re erano in netta minoranza rispetto alla forza armata privata di Gareth, e lui lo sapeva.

“Non verrò preso in custodia proprio da nessuno,” disse con una smorfia. “E non certo da te. Prendi i tuoi uomini e andatevene dalla mia corte, oppure scontratevi pure con la collera del mio esercito personale.”

Dopo diversi secondi di tensione, il comandante si voltò, fece un cenno ai suoi uomini, e tutti insieme si ritirarono, camminando all’indietro con le spade sguainate, andandosene dalla stanza.

“Da questo giorno in poi,” tuonò il comandante, “sia ben chiaro che non vi serviremo più” affronterete l’esercito dell’Impero da solo. E spero che vi tratteranno bene. Meglio di quanto voi abbiate trattato vostro padre!”

I soldati lasciarono la stanza con grande clangore di armi e armature.

I membri del consiglio e i numerosi presenti rimasero in piedi pietrificati, bisbigliando fra loro.

“Andatevene!” gridò Gareth. “TUTTI!”

Tutti  lasciarono velocemente la sala, anche l’esercito personale di Gareth.

Solo una persona rimase.

Lord Kultin.

Ora lui e Gareth erano soli nella sala. Si avvicinò a Gareth, fermandosi a pochi passi da lui, e lo guardò come se lo stesse studiando. Come sempre il suo volto era privo di espressione. Era un vero mercenario.

“Non mi importa cosa hai fatto o perché,” iniziò, la voce greve e cupa. “Non mi interessa la politica. Io sono un guerriero. Mi interessa solo il denaro con cui pagherai me e i miei uomini.”

Fece una pausa.

“Eppure mi piacerebbe sapere, per pura curiosità personale: hai veramente ordinato a quegli uomini di portare via la spada?”

Gareth lo fissò. C’era qualcosa nei suoi occhi in cui riconosceva se stesso: erano freddi, privi di rimorso, sfrontati.

“E se anche l’avessi fatto?” gli chiese.

Lord Kultin lo guardò a lungo.

“Ma perché?” gli chiese.

Gareth lo guardò in silenzio.

Kultin sgranò gli occhi capendo.

“Non sei riuscito a sollevarla tu, e così hai evitato che qualcun altro ci riuscisse?” gli chiese. “È per questo?” Prese in considerazione le implicazioni. “Però anche fosse così,” aggiunse, “sapevi di certo che eliminarla avrebbe disattivato lo scudo, rendendoci vulnerabili all’attacco.”

Kultin sgranò gli occhi.

“Tu volevi che ci attaccassero, vero? C’è qualcosa in te che vuole che la Corte del Re venga distrutta,” disse, ora consapevole.

Gareth gli sorrise.

“Non tutti i posti,” disse lentamente, “sono destinati a durare per sempre.”

CAPITOLO CINQUE

Gwendolyn marciava a capo del grande seguito di soldati, consiglieri, servitori, uomini dell’Argento e della Legione e metà della gente della Corte del Re, allontanandosi – come una sorta di enorme città in viaggio – dalla Corte del Re. Gwen era schiacciata dalle emozioni. Da una parte era emozionata per essersi finalmente liberata di suo fratello Gareth, felice di essere lontana dalle sue grinfie, circondata da guerrieri fidati che potevano proteggerla, senza più la costante paura dei suoi complotti o di finire sposata a qualcun altro. Finalmente non avrebbe più dovuto guardarsi costantemente alle spalle per la paura di un qualche assassino.

Si sentiva anche stimolata e allo stesso tempo imbarazzata per essere stata scelta come guida, per dirigere quel vasto contingente di gente. Tutti la seguivano come se fosse una sorta di profeta, diretti lungo l’infinita strada che conduceva a Silesia. La riconoscevano come loro sovrana – lei glielo leggeva negli sguardi – e guardavano a lei con mille aspettative. Lei dal canto suo si sentiva colpevole e avrebbe preferito che quell’onore fosse stato riservato a uno dei suoi fratelli, a chiunque altro ma non a lei. Eppure vedeva quanta speranza il popolo traesse dalla consapevolezza di avere una guida giusta e corretta, e ciò la rendeva felice. Se per loro era in grado di ricoprire quel ruolo, soprattutto in tempi bui come quelli, allora l’avrebbe fatto.

Pensò a Thor, al loro lacrimevole addio presso il Canyon, e il ricordo le spezzò il cuore: lo rivedeva scomparire, attraversare il ponte sul Canyon, venire avvolto dalla nebbia, in un viaggio che lo avrebbe condotto quasi sicuramente alla morte. Era un’impresa nobile e valorosa – un’impresa che non avrebbe mai potuto negargli – un’impresa che lui doveva intraprendere per il bene del regno, e per il bene dell’Anello. Eppure continuava a chiedersi perché doveva essere lui. Avrebbe preferito che si trattasse di qualsiasi altro. Ora più che mai lo avrebbe voluto al suo fianco. In quel periodo di confusione, di grandi cambiamenti, lasciata completamente sola a governare, a portare in grembo suo figlio, lo avrebbe voluto lì con lei. Più di ogni altra cosa era preoccupata per lui. Non poteva immaginare una vita senza di lui: il solo pensiero le faceva venire voglia di piangere.

Ma fece un respiro profondo e rimase forte, consapevole che tutti gli occhi erano puntati su di lei mentre marciavano, una carovana infinita su quella strada polverosa, diretti verso il lontano nord, verso la remota Silesia.

Gwen era ancora scioccata, combattuta riguardo alla propria madre patria. Si rendeva conto a malapena che l’antico Scudo fosse inattivo e che il Canyon fosse stato oltrepassato. Erano giunte voci da lontane spie che Andronico fosse già approdato sulle coste del regno dei McCloud. Non era sicura di potervi credere. Faceva fatica a concepire che tutto fosse accaduto così in fretta. Dopotutto Andronico doveva ancora probabilmente inviare la sua intera flotta attraverso l’oceano. A meno che, in qualche modo, McCloud non fosse stato a caccia della spada e avesse organizzato di disattivare così lo Scudo. Ma come? Come era riuscito a rubarla? Dove la stava portando?

Gwen percepiva come tutti attorno a lei fossero abbattuti, e non poteva certo biasimarli. Tra quella gente aleggiava un’aria di scoraggiamento, e per una buona ragione: senza lo scudo erano tutti indifesi. Era solo questione di tempo: se non oggi, allora domani o il giorno seguente Andronico avrebbe invaso. E quando l’avesse fatto, non c’era modo per loro di poter tenere a bada i suoi uomini. Presto quel luogo – ogni cosa che aveva sempre amato e apprezzato – sarebbe stato conquistato e tutti quelli che amava sarebbero stati uccisi.

Mentre marciavano, era come se procedessero contro la morte. Andronico non era ancora lì, ma era come se loro fossero già stati catturati. Le tornò alla mente una cosa che una volta le aveva detto suo padre: conquista il cuore di un esercito e la battaglia è vinta.

Gwen sapeva che era suo compito stimolarli, farli sentire al sicuro e, in qualche modo, renderli ottimisti. Era determinata a riuscirci. Non poteva permettere alle proprie paure personali o a un certo senso di pessimismo di avere la meglio su di lei in un momento come quello. E si rifiutava di concedersi di crogiolarsi nell’autocommiserazione. Non si trattava più solo di lei. Si trattava di quel popolo, delle loro vite, delle loro famiglie. Avevano bisogno di lei. Guardavano tutti a lei perché li aiutasse.

Pensò a suo padre e si chiese cosa avrebbe fatto lui. Il pensiero la fece sorridere. Lui avrebbe assunto la sua espressione più coraggiosa in qualsiasi situazione. Le aveva sempre detto di nascondere la paura dietro la spacconeria, e ripensando alla sua vita, ricordò che in effetti non era mai apparso spaventato. Neanche una volta. Forse era solo apparenza, ma era una buona apparenza. In quanto guida, sapeva di essere in ogni momento davanti agli occhi di tutti, sapeva che era l’aspetto ciò di cui le persone avevano bisogno, forse ancor più del fare da guida. Lui era stato troppo altruista per concedersi di tentennare tra le sue paure. E lei avrebbe seguito il suo esempio. Anche lei non si sarebbe lasciata sopraffare dal timore.

Si guardò attorno e vide Godfrey che camminava accanto a lei, con Illepra – la guaritrice –  al suo fianco. Erano impegnati in una fitta conversazione ed entrambi, aveva notato, sembravano piacersi sempre di più, fin da quando Illepra aveva salvato la vita di Godfrey. Gwen avrebbe voluto che anche gli altri fratelli fossero lì. Ma Reece era andato con Thor, Gareth ovviamente si era allontanato da lei per sempre, e Kendrick si trovava ancora nella sua postazione, da qualche parte a est, impegnato nei lavori di ricostruzione di qualche remota cittadina. Gli aveva inviato un messaggero – era stata la prima cosa che aveva fatto – e sperava lo raggiungesse in tempo per recuperarlo, portarlo a Silesia con lei, per aiutarla a difendere la nuova corte. Almeno allora due dei suoi fratelli – Kendrick e Godfrey – si sarebbero rifugiati a Silesia con lei, il che valeva a dire con tutti loro. Mancava solamente la sua sorella maggiore Luanda.

 

Per la prima volta dopo tanto tempo i pensieri di Gwen tornarono a Luanda. C’era sempre stata un’aspra rivalità fra lei e sua sorella. Gwen non si era sorpresa che Luanda avesse colto la prima occasione buona per andarsene dalla Corte del Re e sposare quel McCloud. Luanda era sempre stata ambiziosa e aveva sempre voluto essere la prima. Gwendolyn l’aveva amata, e l’aveva guardata come un esempio quando era più giovane. Ma Luanda, sempre competitiva, non aveva ricambiato il suo affetto. E dopo un po’ Gwen aveva smesso di tentare.

Eppure ora si sentiva in pena per lei: si chiedeva cosa ne fosse stato di lei, con i McCloud invasi da Andronico. Sarebbe stata uccisa? Rabbrividì al pensiero. Erano rivali, ma alla fine erano pur sempre sorelle, e Gwen non voleva vederla morta anzi tempo.

Gwen ripensò anche a sua madre, l’unico altro membro della famiglia rimasto alla Corte del Re, con Gareth, ancora in quello stato in cui riversava dalla morte di re MacGil. Raggelò al pensiero. Nonostante tutta la rabbia che provava per sua madre, Gwen non voleva che finisse a quel modo. Cosa le sarebbe successo se la Corte del Re fosse stata invasa? Sua madre sarebbe stata uccisa?

Gwen non poteva fare a meno di sentirsi come se la sua vita prima così sicura e solida si stesse ora sgretolando attorno a lei. Era come se solo ieri fosse ancora il cuore dell’estate: il matrimonio di Luanda, una festa meravigliosa, la Corte del Re traboccante di abbondanza, lei e la sua famiglia tutti insieme a festeggiare, e l’Anello inespugnabile. Era sembrato come se tutto fosse potuto durare per sempre.

Ora tutto si era spezzato. Niente era più come era stato.

Si levò una fredda brezza e Gwen si strinse la maglia di lana blu attorno alle spalle. L’autunno era stato troppo breve quell’anno e stava già sopraggiungendo l’inverno. Lo sentiva dai venti gelidi, pregni di umidità, mentre procedevano verso nord lungo il Canyon. Il cielo si stava facendo scuro e l’aria si era riempita di un nuovo suono: il pianto degli Uccelli d’Inverno, gli avvoltoi rossi e neri che volavano in basso quando scendevano le temperature. Gracchiavano incessantemente e talvolta il loro verso infastidiva Gwen. Sembrava il suono della morte che si avvicinava.

Da quando avevano salutato Thor avevano sempre camminato lungo il Canyon, andando verso nord e sapendo che in quel modo sarebbero arrivati alla città posta all’estremità occidentale dell’Anello: Silesia. Mentre procedevano la nebbia inquietante del Canyon si levava a folate attanagliando le caviglie di Gwen.

“Non siamo tanto distanti ormai, mia signora,” disse una voce.

Gwen si voltò e vide Srog vicino a lei, vestito con l’armatura rossa caratteristica di Silesia e affiancato da parecchi guerrieri, tutti in maglia di ferro e stivali rossi. Gwen era commossa per la gentilezza che Srog le riservava, per la sua lealtà nei confronti di suo padre, per aver offerto Silesia come rifugio. Non aveva idea di cosa avrebbero fatto altrimenti lei e tutta quella gente. Forse sarebbero stati ancora, anche il quel momento, incastrati alla Corte del Re, succubi della slealtà di Gareth.

Srog era uno dei signori più onorevoli che lei avesse mai incontrato. Con migliaia di soldati a sua disposizione, con il controllo della famigerata fortezza occidentale, Srog non aveva certo bisogno di rendere omaggio a nessuno. Ma aveva deciso di rendere omaggio a suo padre. Era sempre stato un delicate equilibrio di potere. Ai tempi del padre di suo padre Silesia aveva avuto bisogno della Corte de Re, ai tempi di suo padre un po’ meno, e ora proprio per niente. In effetti, con la caduta dello Scudo e la confusione presente alla Corte del Re, erano loro ad aver bisogno di Silesia.

Ovviamente l’Argento e la Legione comprendevano i migliori guerrieri che ci fossero, e c’erano migliaia di uomini al seguito di Gwen, compresa una buona metà dell’Esercito del Re. Eppure Srog, come la maggior parte degli altri signori, avrebbe potuto semplicemente chiudere i cancelli e badare a se stesso.

Invece aveva cercato Gwen, aveva stretto alleanza con lei, e aveva insistito per ospitarli tutti. Era stata una gentilezza che Gwen era determinata a ripagare in qualche modo prima o poi. Ovviamente, se fossero tutti sopravvissuti.

“Non c’è bisogno di preoccuparsi,” gli rispose con calma, posando delicatamente una mano sul suo polso. “Marceremmo anche fino ai confini della terra per entrare nella vostra città. Siamo estremamente fortunati per la vostra gentilezza in questo momento difficile.”

Srog sorrise. Era un guerriero di mezz’età, con un po’ troppe rughe a segnargli il volto dopo innumerevoli battaglie, i capelli castani, una mascella dai contorni decisi e priva di barba. Srog era un vero uomo, non solo un signore, ma un vero guerriero.

“Per vostro padre io passerei attraverso il fuoco,” le rispose. “I ringraziamenti non sono nell’ordine del giorno. È un grande onore per me poter ripagare il mio debito nei suoi confronti mettendomi al servizio di sua figlia. Dopotutto il suo desiderio era che foste voi a regnare. Quindi, quando servo voi, è come se rispondessi a lui.”

Accanto a Gwen marciavano anche Kolk e Brom, e dietro di loro si udiva l’incessante clangore di migliaia di speroni, di spade che tintinnavano nei loro foderi, di scudi che sfregavano contro le armature. Era una grandiosa cacofonia di rumore che si dispiegava sempre più lontano lungo il bordo del Canyon.

“Mia signora,” disse Kolk, “sono oppresso dal senso di colpa. Non avremmo dovuto lasciare che Thor, Reece e gli altri se ne andassero da soli verso l’Impero. Più uomini avrebbero dovuto offrirsi volontari. Sarà una mia responsabilità se succederà loro qualcosa.”

“È l’impresa che hanno scelto,” rispose Gwen. “È una questione di onore. Chi era destinato ad andare è andato. Il senso di colpa non fa bene a nessuno.”

E cosa potrebbe succedere se non tornassero in tempo con la Spada?” chiese Srog. “Non ci vorrà molto perché l’esercito di Andronico appaia alle nostre porte.”

“Allora opporremo resistenza,” disse Gwen con sicurezza, mostrando quanto più coraggio poteva nella propria voce, sperando di mettere gli altri a proprio agio. Notò che gli altri generali si voltavano a guardarla.

“Ci difenderemo fino all’ultimo colpo,” aggiunse. “Non ci sarà nessuna ritirata, nessuna resa.”

Percepì che i generali erano colpiti. Lei stessa era colpita dalla sua voce: la forza cresceva dentro di lei, sorprendendola. Era la forza di suo padre, di sette generazioni di re MacGil.

Mentre continuavano a marciare, la strada svoltò bruscamente verso sinistra e Gwen girò e, una volta terminata la curva, rimase pietrificata e senza fiato alla vista di ciò che aveva di fronte.

Silesia.

Ricordava che suo padre l’aveva portata in viaggio lì, da bambina. Era un luogo che da allora era stato presente nei suoi sogni, un luogo che allora aveva sentito come magico. Ora, guardando la città con l’occhio di una donna adulta, le toglieva ancora il fiato.

Silesia era la cittadina più insolita che Gwen avesse mai visto. Tutti gli edifici, tutte le fortificazioni, tutta la pietra: ogni cosa era costruita con pietra antica, rossa e scintillante. La metà più elevata di Silesia, a picco, verticale, ben fortificata con parapetti e decorata da guglie, si ergeva sulla terraferma, mentre la parte bassa era incastonata nel fianco del Canyon. La vorticante nebbia del Canyon soffiava qua e là, avvolgendola e facendo scintillare e brillare alla luce il rosso delle costruzioni, facendola apparire come se fosse costruita tra le nuvole.

Le fortificazioni si ergevano di oltre trenta metri, coronate da parapetti e sostenute da un’interminabile linea di mura. Quel luogo era una fortezza. Anche se in qualche modo un esercito avesse valicato le sue mura, avrebbe poi dovuto scendere nella parte bassa della città, direttamente giù lungo il dirupo, e combattere sul bordo del Canyon. Era di sicuro una guerra che nessun esercito invasore avrebbe voluto intraprendere. Ed era per questo che la città non era mai stata toccata in migliaia di anni.

I suoi uomini si fermarono e guardarono a bocca aperta. Gwen sentiva che anche loro erano tutti in contemplazione reverenziale.

Per la prima volta dopo un po’ di tempo, Gwen si sentì ottimista. Quello era un posto nel quale sarebbero potuti rimanere, lontano dalle grinfie di Gareth, un posto che potevano difendere. Un posto dove lei avrebbe potuto governare. E forse – solo forse – il regno di MacGil sarebbe potuto rinascere.

Srog rimase lì, le mani ai fianchi, esaminando la sua stessa città come se la vedesse per la prima volta, e i suoi occhi brillarono di orgoglio.

“Benvenuti a Silesia.”

CAPITOLO SEI

Thor aprì gli occhi alle prime luci dell’alba e vide le quiete onde dell’oceano che salivano e scendevano schiumando, ammantate dalla tenue luce del primo sole. L’acqua giallo chiaro del Tartuvio luccicava nella nebbia mattutina. La barca galleggiava silenziosamente nell’acqua e l’unico rumore era quello delle onde che sciabordavano contro lo scafo.

Thor si mise a sedere e si guardò in giro. Aveva gli occhi pesanti per la stanchezza: effettivamente non si era mai sentito così stanco in vita sua. Stavano navigando da giorni e ogni cosa in quel luogo, da quella parte del mondo, sembrava diverso. L’aria era così densa di umidità, la temperatura così calda: era come respirare in un continuo flusso d’acqua. Lo infiacchiva e gli rendeva gli arti pesanti. Era come se fosse scoppiata l’estate.

Guardandosi in giro vide che tutti i suoi amici, normalmente svegli prima dell’alba, erano accasciati sopraccoperta, ancora addormentati. Addirittura Krohn, di solito sempre sveglio, dormiva accanto a lui. Quel tempo particolarmente tropicale aveva i suoi effetti su tutti loro. Nessuno di loro si preoccupava neanche più di mettere mano al timone: avevano desistito giorni prima. Non aveva senso: le vele erano sempre gonfie di vento che spingeva verso ovest, e le magiche correnti dell’oceano trascinavano incessantemente la barca nella medesima direzione. Era come essere trasportati verso una direzione fissa. Avevano tentato più di una volta di virare e cambiare rotta, ma era stato inutile. Si erano tutti rassegnati a lasciare che il Tartuvio li portasse dove doveva.

In ogni caso non è che avessero idea di dove andare nell’Impero, pensò Thor. Fintanto che le maree li avessero portati alla terraferma, andava bene così.

Krohn si svegliò, gemendo, poi si sollevò e andò a leccare la faccia di Thor. Thor infilò una mano nel sacco, ormai quasi vuoto, e ne prese l’ultimo pezzo di carne secca per dargliela. Con sua grande sorpresa Krohn non gliela strappò dalle mani come di suo solito. Si limitò invece a guardarla, volgendo poi lo sguardo al sacco vuoto e di nuovo a Thor. Esitò a prendere il cibo e Thor si rese conto che il leopardo non voleva privarlo dell’ultimo pezzo.

Fu colpito dal gesto, ma tentò di insistere, spingendogli la carne in bocca. Thor sapeva che presto sarebbero stati a corto di cibo e pregò di raggiungere presto la terraferma. Non aveva idea di quanto ancora il viaggio potesse durare: e se ci fossero voluti mesi? Come avrebbero fatto a nutrirsi?

Il sole sorgeva velocemente, diventando brillante e intenso troppo presto. Thor si alzò mentre la nebbia iniziava a svanire dall’acqua e andò a prua, da dove scrutò l’orizzonte. La barca dondolava sotto i suoi piedi e la nebbia si stava dissipando tutt’attorno. Sbatté le palpebre, chiedendosi se stesse avendo una visione, dato che vide apparire in lontananza il contorno di una costa. Il cuore accelerò. Era terraferma. Vera terraferma!

La costa aveva una forma insolita: due lunghe e strette penisole incastonate tra le onde, come due punte di un forcone. Mentre la nebbia si sollevava Thor guardò alla sua sinistra e poi alla sua destra e si stupì di vedere due strisce di terra da entrambi i lati della barca, ciascuna lunga una cinquantina di metri. Erano risucchiati proprio nel mezzo di una profonda baia.

Thor fischiò e i compagni della Legione si svegliarono. Balzarono in piedi e lo raggiunsero di corsa, portandosi a prua e guardando verso il mare aperto.

 

Rimasero tutti senza fiato: le coste erano le più esotice che avessero mai visto, ricoperte di una sorta di giungla: fitti e altissimi alberi abbarbicati lungo la riva, una foresta così fitta che era impossibile vedere cosa ci fosse dietro. Thor scorse delle grandi felci, alte una decina di metri, protese verso l’acqua, alberi gialli e viola che sembravano toccare il cielo, ovunque il verso continuo e sconosciuto  di bestie, insetti e chissà cos’altro tra ringhi, guaiti e canti.

Thor deglutì a fatica. Si sentiva come se stessero entrando in un impenetrabile regno animale. Ogni cosa sembrava diversa qui, l’aria aveva un odore differente, sconosciuto. Niente ricordava neanche lontanamente l’Anello. Gli altri membri della Legione si voltarono tutti guardandosi l’un l’altro e Thor scorse l’incertezza nei loro occhi. Tutti si stavano chiedendo quali creature ci fossero ad attenderli in quella giungla.

Non sembrava che comunque avessero altra scelta. La corrente li portava in un’unica direzione e chiaramente era lì che dovevano sbarcare per accedere alle terre dell’Impero.

“Quaggiù!” gridò O’Connor.

Corsero al suo fianco, accanto al parapetto e lui si sporse indicando in basso, verso l’acqua. Lì c’era un enorme insetto che nuotava lungo il bordo della nave: era di color viola brillante, lungo almeno tre metri e aveva centinaia di zampe. Luccicava sott’acqua, poi affiorò in superficie. In quel momento le sue ali – ne aveva migliaia – iniziarono a ronzare e l’insetto si sollevò al di sopra delle onde. Poi tornò a galleggiare sul pelo dell’acqua, infine si immerse di nuovo. Continuò a ripetere queste operazioni diverse volte.

Mentre lo guardavano, l’animale improvvisamente si sollevò in aria al livello dei volti dei ragazzi, volteggiando e fissandoli con i suoi grandi occhi verdi. Sibilò e tutti involontariamente fecero un salto all’indietro, mettendo mano alle spade.

Elden si fece avanti e cercò di colpirlo. Ma quando la sua spada fu in aria, l’insetto era già di nuovo in acqua.

Thor e gli altri volarono di colpo e caddero sul pontile quando la barca improvvisamente si fermò, incagliandosi contro la terra con uno scossone.

Il cuore di Thor batteva forte mentre guardava oltre il bordo: sotto di loro c’era una stretta fascia di spiaggia composta di migliaia di sassi appuntiti, tutti viola chiaro.

Terra. Ce l’avevano fatta.

Elden fece strada verso l’ancora, tutti insieme la sollevarono e la lasciarono cadere al di fuori dell’imbarcazione. Scesero uno alla volta lungo la catena e si trovarono quindi sulla costa. Thor passò Krohn a Elden perché lo portasse giù.

Thor sospirò quando i suoi piedi toccarono il terreno. Era una bella sensazione avere della terra – terra asciutta e stabile – sotto i piedi. Si sarebbe sentito bene all’idea di non doversi più imbarcare su una nave.

Afferrarono le funi e trascinarono la barca più a riva che poterono.

“Pensi che le correnti la porteranno via?” chiese Reece osservando la nave.

Thor la guardò: sembrava sicura sulla sabbia.

“Non con quell’ancora,” disse Elden.

“Non sarà la corrente a portarla via,” aggiunse O’Connor. “La questione è se qualcun altro lo farà.”

Thor diede un’ultima lunga occhiata alla barca e si rese conto che l’amico aveva ragione. Anche se avessero trovato la spada, poteva capitare che tornassero a riva e non trovassero più l’imbarcazione.

“E allora come faremo a tornare?” chiese Conval.

Thor non poteva fare a meno di sentirsi come se, a ogni passo che facevano, stessero recidendo i ponti dietro di loro.

“Troveremo un modo,” disse. “Dopotutto ci saranno pure altre navi nell’Impero, no?”

Cercò di avere un tono autoritario, in modo da rassicurare i suoi amici. Ma dentro di sé non ne era così certo lui stesso. Tutto quel viaggio gli stava apparendo sempre più infausto.

Tutti insieme si voltarono a guardare la giungla. Era un muro di vegetazione, dietro il quale si vedeva solo buio. I versi animali crebbero in una totale cacofonia tutt’attorno a loro, così forti che Thor faceva fatica a sentire anche i propri pensieri. Sembrava che ogni bestia dell’Impero li stesse salutando.

O forse mettendo in guardia.

*

Thor e gli altri camminavano fianco a fianco, cautamente, tutti in guardia, attraverso la fitta giungla tropicale. Era difficile per Thor concentrarsi, tanto erano insistenti le grida e le urla dell’orchestra di insetti e animali attorno a loro. Eppure, guardando nell’oscurità della vegetazione, non riusciva a vedere nessuna creatura.

Krohn camminava dietri di lui, ringhiando, con il pelo ritto sulla schiena. Thor non lo aveva mai visto così all’erta. Guardò i suoi compagni e vide che tutti, come lui, avevano una mano posata sull’elsa della spada, tesi come corde di violino pure loro.

Erano ormai ore che camminavano, inoltrandosi sempre più nella giungla, l’aria sempre più calda e densa, più umida, più pesante da respirare. Avevano seguito le tracce di quello che pareva essere un sentiero: qualche ramo rotto indicava il passaggio che il gruppo di uomini arrivati lì aveva probabilmente preso. Thor sperava solo che fosse il tracciato segnato dal gruppo che aveva preso la spada.

Sollevò lo sguardo contemplando quella natura selvaggia: tutto era cresciuto oltremisura, raggiungendo proporzioni epiche, anche una sola foglia era grande come lui stesso. Si sentiva come un insetto in una terra di giganti. Scorse qualcosa che si muoveva dietro alcune foglie, ma non riuscì a vedere effettivamente di cosa si trattasse. Aveva l’infausta sensazione che qualcuno li stesse spiando.

Il sentiero davanti a loro improvvisamente terminò contro un fitto muro di vegetazione. Si fermarono e si guardarono confusi.

“Ma non è possibile che il sentiero finisca così!” disse O’Connor perdendo le speranze.

“Non è finito,” disse Reece esaminando le foglie. “Solo che la giungla è ricresciuta.”

“Quindi da che parte andiamo adesso?” chiese Conval.

Thor si guardò in giro, chiedendosi la stessa cosa. In ogni direzione non c’era nient’altro che fitto fogliame e sembrava non esserci via d’uscita. Iniziava ad avere un terribile presentimento e a sentirsi perduto.

Poi gli venne un’idea.

“Krohn,” disse inginocchiandosi e sussurrando nell’orecchio del leopardo. “Arrampicati su quell’albero. Guarda tu e dicci da che parte andare.”

Krohn lo guardò con occhi pieni di amore per lui e Thor capì che aveva compreso.

Infatti il leopardo corse verso un enorme albero, il tronco  largo come dieci uomini, e senza la minima esitazione vi balzò sopra risalendolo con i suoi artigli. Salì e balzò sopra uno dei rami più alti. Camminò fino all’estremità e guardò, le orecchie ritte per l’attenzione. Thor aveva sempre avuto la sensazione che Krohn lo capisse, e ora ne aveva la certezza.

Krohn rialzò la testa ed emise uno strano verso simile a delle fusa, poi si voltò, ridiscese velocemente il tronco e partì verso una precisa direzione. I ragazzi si scambiarono occhiate incuriosite, poi si voltarono tutti a seguirlo, diretti verso quella parte di giungla, spingendo indietro le spesse foglie in modo da poter camminare.

Dopo pochi minuti Thor fu sollevato dal vedere che il sentiero riprendeva, con i segni ben evidenti dei rami rotti e della vegetazione schiacciata o tagliata che facevano capire dove fosse passato il gruppo. Thor accarezzò Krohn e gli diede un bacio sulla testa.

“Non so cosa avremmo fatto senza di lui,” disse Reece.

“Neanche io,” confermò Thor.

Krohn fece le fusa, soddisfatto e orgoglioso.

Inoltrandosi sempre di più nella giungla, svoltando e girando, giunsero a un'altra distesa di vegetazione, con fiori tutt’attorno a loro. Erano enormi, grandi quanto Thor, e di ogni colore. Altri alberi avevano frutti grandi quanto macigni che pendevano dai rami.