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Buch lesen: «Una vita», Seite 5

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VI

Già il giorno appresso il lavoro di Alfonso aumentò. Sanneo, che nulla sapeva dell’aiuto prestatogli da White, trovava che le lettere di Alfonso non lasciavano nulla a desiderare e si credette autorizzato a dargli da fare di più ed un lavoro più serio. Quel giorno ancora White aiutò; il terzo giorno arrivò la liquidazione di Parigi che White doveva rivedere e Alfonso rimase abbandonato a se stesso. A mezzodì ricevette una prima sgridata da Sanneo, alla sera Sanneo andava raccontando per la banca che due giorni di lavoro erano bastati per far incretinire Alfonso. Lo chiamò ordinandogli di rifare metà delle lettere ch’egli aveva corrette e Alfonso dovette confessargli che nei giorni precedenti era stato aiutato da White. Sanneo si calmò, ma da allora lo trattò più bruscamente.

Il suo lavoro divenne così più disaggradevole. Gli era stato proibito di farsi aiutare da White per il quale Sanneo serbava un po’ di rancore e, in luogo di dargli le istruzioni, spesso Sanneo gl’indicava il giorno in cui era stata scritta una lettera identica, gli ordinava di cercarsi il copialettere e di copiarla. Non era cosa facile trovare i copialettere alla banca Maller! Fra tanti impiegati che li usavano, bisognava correre dalla contabilità fino alla cassa, e più volte, perché nessuno aiutava; ognuno badava alle cose sue e bisognava frugare con le proprie mani ogni ripostiglio per accertarsi che non v’era la cosa cercata. Dapprima Alfonso usava gridare in ogni stanza: – Signori, prego il copialettere del tale e tale giorno. – Smise quest’uso perché perdeva anche il fiato. Nessuno rispondeva e qualcuno sorrideva. Correndo di stanza in stanza, Alfonso finiva col trovare il copialettere accanto a un impiegato cui sarebbe costato poco di avvertirnelo, e di risparmiargli delle corse inutili. Trovati i copialettere, c’era ancora la fatica di trovarci la lettera voluta. Se Sanneo gli avesse saputo anche indicare da chi era stata scritta sarebbe stata una grande facilitazione perché non sarebbe occorso sempre di leggerla per riconoscerla. La grossa scrittura di Sanneo anneriva tutto il foglio su cui era stata copiata, quella di Miceni si riproduceva intiera, nitida come nell’originale, i grossi tratti e larghi di White si sviluppavano nella copia a macchie indistinte.

In contabilità Alfonso salutava Miceni e si fermava talvolta a scambiare qualche parola con lui. Vi si costringeva contro voglia perché sentiva che Miceni non gli voleva bene. Il tavolo nuovo di Miceni aveva già assunto l’aspetto del vecchio: calamaio, penna, matita disposte nel medesimo ordine, il grande librone su cui lavorava perpendicolare alla linea marginale del tavolo. Conteggiava su minuti foglietti di carta che riempiva di cifre microscopiche.

Alfonso non sapeva gioire del suo avanzamento. Era realmente avanzato, perché se anche tutti si divertivano a rammentargli ch’era ben lungi dall’avere il posto di Miceni, aveva abbandonato l’offerta, la copiatura, il lavoro imbecille del servo che maneggia la penna invece della scopa. Ma quando alla sera gli venivano restituite metà delle sue lettere con annotazioni di Sanneo, disperava e avrebbe preso volentieri il primo treno per ritornare a casa sua e lasciar quelle lettere da rifare al signor Maller stesso. È ben vero però che se poco dopo Sanneo apponendo il suo segno ad una lettera, faceva col capo un cenno d’approvazione, Alfonso, per quanto grande fosse stata la sua stanchezza, riprendeva di gran lena il suo lavoro.

Stanchezza? Somigliava meglio a nausea. Lentamente il suo lavoro di giorno in giorno aumentava, ma in qualità di poco o nulla mutava. In un’intiera giornata egli aveva da costruire uno o due periodi; aveva invece da copiare innumerevoli cifre, ripetere innumerevoli volte la medesima frase. Verso sera la mano, l’unica parte del suo corpo veramente stanca, si fermava, l’attenzione non stimolata si distraeva e qualche volta doveva gettare la penna e lasciare il lavoro, per una nausea da persona che ha preso di troppo di un solo cibo. Non era mai a giorno con i suoi lavori e al suo malessere si aggiungeva l’inquietudine.

White gli aveva detto che tutte le lettere di pura scritturazione potevano venir trattenute parecchi giorni, anche settimane, senza risposta, e questa facoltà gli aveva alleggerito di molto il lavoro delle prime giornate: ben presto però, aumentando i sospesi, il lavoro ne venne complicato, perché molte lettere appena arrivate trovavano altre dello stesso cliente che attendevano la risposta e Alfonso con la poca attenzione che sapeva dare al suo lavoro e per una memoria renitente ai nomi, non sapeva che ci fossero. Alla sera gli venivano restituite da Sanneo delle lettere con l’annotazione: «E la lettera arrivata precedentemente? N.B. Signor Nitti». Il povero peccatore se ne andava da Sanneo a udire una grande predica sul disordine, la quale non lo migliorava perché non era la buona volontà che gli mancasse, era la capacità; il suo era un difetto organico.

Quando ancora lo spingeva il primo zelo per il nuovo lavoro, la noia era minore. L’attenzione che doveva avere continua, per finire il maggior numero di lettere nel minor tempo possibile, l’intensità stessa del lavoro lo distraeva, lo stancava come se fosse stato lavoro meno meccanico. Ma questo primo zelo non rinasceva che per circostanze indipendenti dalla sua volontà, e il suo lavoro procedeva tanto lento che una buona parte della giornata la passava tra la lettura delle lettere arrivate per cercarvi quelle che poteva mettere da parte e la disamina delle carte che nei giorni precedenti aveva lasciato sul tavolo.

Sanneo si diceva sorpreso che a un giovane che dimostrava desiderio di lavorare non riuscisse di fare di più; piombava in stanza di Alfonso credendo di sorprenderlo alla lettura di qualche giornale o uscito a chiacchierare con altri impiegati e lo trovava sempre al suo posto con la penna in mano e gli occhi fissi sulla carta. Per indulgenza gli diminuì anche il lavoro, ma le quindici o venti letterine che gli dava da fare, alla sera non erano mai fatte tutte e bastavano a mantenere il deposito di sospesi.

Alfonso si figurava che il malessere generale che provava dipendesse dal bisogno che aveva il suo organismo di stancarsi, di esaurirsi. Si era anche fatto di quest’organismo una concezione plastica che riformava ad ogni novella sensazione. Alla sera, dopo una giornata passata in mezzo alle cifre o correndo per la banca oppure con la penna sulla carta e il pensiero altrove, immaginava che nel suo corpo si movesse una materia abbondante attraverso a vasi molli incapaci di resistere o di regolare. Se poteva, faceva allora delle grandi passeggiate e il malessere scompariva. I polmoni gli si allargavano, sentiva le giunture più flessibili, il corpo gli obbediva più pronto ed egli si figurava che quella materia fosse stata assorbita o regolata e che aiutasse invece d’impedire. Se si metteva a studiare, deposto il libro, si sentiva la mente stanca, una strana sensazione alla fronte come se il volume di dentro avesse voluto ingrossare, allargare il contenente. Si sentiva calmo precisamente come se si fosse stancato correndo; vedeva lucidamente e i sogni o erano voluti o mancavano. Ben presto anche il tempo dedicato alle passeggiate venne assorbito dallo studio; occorreva meno tempo per calmarsi con lo studio che con le corse. Una sola ora passata su qualche difficile opera critica lo quietava per un’intiera giornata. Inoltre, in poco tempo, gli era venuta l’ambizione e lo studio era divenuto il mezzo a soddisfarla. Le cieche obbedienze a Sanneo, le sgridate che giornalmente gli toccava sopportare, lo avvilivano; lo studio era una reazione a quest’avvilimento. Dinanzi ad un libro pensato faceva sogni da megalomane, e non per la natura del suo cervello, ma in seguito alle circostanze; si trovava ad un estremo, si sognava nell’altro.

Ogni istante di tempo fuori di ufficio od anche all’ufficio ove in un ripostiglio teneva alcuni libri, lo dedicava alla lettura. Erano in generale letture serie di critica o di filosofia, perché di poesia e di arte stancavano meno. Scriveva, ma poco; il suo stile, poco solido ancora, la parola impropria che diceva di più o di meno e che non colpiva mai il centro, non lo soddisfaceva. Credeva che lo studio lo avrebbe migliorato. Non aveva fretta, e quel poco che faceva era a compimento di un orario che s’era prefisso per il suo lavoro volontario. Dopo di essersi stancato alla banca e alla biblioteca, gettava in carta qualche concettino, qualche espansione romantica con se stesso e che nessun altro riceveva. Di notevole in queste espansioni vi era che il giovinetto sembrava soffrisse di certo male mondiale; alle sue reali sofferenze, alla nostalgia da cui ancora era travagliato, in queste espansioni non era dato luogo. Teneva questi scritti in conto di annotazioni rudimentali di cui voleva servirsi in un lontano avvenire per opere maggiori, drammi, romanzi e peggio.

Non aveva ancora letto interamente un classico italiano e conosceva storie letterarie e studii critici a bizzeffe; più tardi si gettò alla lettura di opere di filosofia tedesca tradotte in francese.

Scoperse la biblioteca civica e quei secoli di cultura messi a sua disposizione, gli permisero di risparmiare il suo magro borsellino. Con le sue ore fisse, la biblioteca lo legava, apportava nei suoi studii la regolarità ch’egli desiderava. La frequentava assiduamente anche perché la sua stanza in casa Lanucci era poco adatta a studiarci. Piccola, a mezzo occupata dal letto, di rado visitata dal sole, era disaggradevole e non era facile pensare su un tavolinetto rotondo di cui le quattro gambe non toccavano mai contemporaneamente il pavimento.

Quando gli era riuscito di vivere la giornata secondo programma, andava alla banca il giorno appresso ancora spossato e lavorava peggio del solito. I sospesi divenivano maggiori e alla sera si trovava dinanzi un fascio enorme di carte giunte da tutte le città d’Italia; a lui sembrava che tutto il mondo congiurasse contro di lui e gl’imponesse quel lavoro.

In biblioteca fece poche conoscenze. Entrava nella lunga sala di lettura tutta occupata da tavoli disposti parallelamente, occupava un posto qualunque e per qualche tempo con la testa fra le mani era tanto assorto nella lettura da non vedere neppure chi accanto a lui sedesse. Dopo un’ora al più, la lettura affaticante gli ripugnava, per qualche tempo ancora vi si costringeva e cessava quando la mente più non afferrava la parola che l’occhio vedeva; usciva non appena deposto il libro e dopo quell’ora passata con gl’idealisti tedeschi, gli sembrava sulla via che le cose lo salutassero.

VII

Alfonso era venuto in città apportandovi un grande disprezzo per i suoi abitatori; per lui essere cittadino equivaleva ad essere fisicamente debole e moralmente rilasciato, e disprezzava quelle ch’egli riteneva fossero le loro abitudini sessuali, l’amore alla donna in genere e la facilità dell’amore. Credeva di non poter somigliare loro e si sentiva ed era per allora molto differente. Non aveva conosciuto la sensualità che nell’esaltazione del sentimento. La donna era per lui la dolce compagna dell’uomo nata piuttosto per essere adorata che abbracciata, e nella solitudine del suo villaggio, ove il suo organismo era giunto a maturità, ebbe l’intenzione di serbarsi puro per porre ai piedi di una dea tutto se stesso. In città quest’ideale perdette ben presto qualunque influenza sulla sua vita per non vivere che nel suo proposito, un proposito vago che non aveva forza che quando non c’era bisogno di lotta.

Ma come teoria ci teneva anche dopo di essersi accorto che appariva ridicola agli occhi di coloro cui la esplicava. Non sapeva come supplirvi; abbandonandola avrebbe creato un vuoto nella sua vita. Non la enunciò più, così che Miceni a torto si vantava di aver operato una conversione.

A ventidue anni i suoi sensi avevano la delicatezza e la debolezza dell’adolescenza. Aveva dei desideri ch’egli sapeva reprimere soltanto con grandi sofferenze. A provocare questi desideri, dura irrisione al suo sogno, bastava una gonnella o anche il pensarci, ed erano forti abbastanza per toglierlo improvvisamente alla lettura quando vi si era messo e farlo correre per le vie, spinto da un’agitazione vaga, indefinita, s’egli non ne avesse conosciuta l’origine. In tale stato non poteva dedicarsi che ad una sola occupazione, quella di seguire per lunghi tratti di via qualche gentile figura di donna ammirandola timido e vergognoso. Tardi gli venne il pensiero di spingere oltre le cose. Fino ad allora aveva atteso che il suo ideale venisse a lui.

Una sera, correndo, si trovò dietro ad una donna che passando lo aveva guardato. Vestita di nero, teneva molto alta la sottana e lasciava vedere un piedino calzato in eleganti scarpette lucide, una calza nera, l’attaccatura del piede gentilissima per un corpo agile ma non misero. Alfonso vide ancora il collo, dalla pelle bianchissima; nulla della faccia.

Risolutamente la seguì, la sorpassò, poi l’attese come un cagnolino. La signora a lui pareva ridesse guardandolo alla sfuggita e, incoraggiato, egli si propose di avvicinarla. Era la prima volta ch’egli si trovasse in tale imbarazzo. Ebbe delle esitazioni che lo costrinsero poi ad accelerare il passo. Ella attraversò il Corso e imboccò via Cavana; doveva passare dinanzi alla biblioteca. – Alla peggio andrò in biblioteca, – pensò Alfonso per dare alla sua passeggiata una meta sicura.

La precedette e si fermò alla porta della biblioteca. Ella passò mentre la luce di un fanale faceva risaltare la bianchezza del collo e brillare la lacca della scarpetta, ma non lo guardò, ciò che ad Alfonso levò per qualche tempo la voglia di seguirla. Lentamente ella salì l’erta della via dei SS. Martiri lungo il Tribunale mentre appoggiato ad un paracarro egli si contentava di seguirla con l’occhio. Poi, quando ella aveva quasi terminata l’erta, egli si avanzò sino al Tribunale. Vide la figurina prospettarsi sul cielo, le curve precise come se le avesse viste più da vicino. Ancora un istante di esitazione e l’avrebbe perduta di vista; non v’era tempo a riflettere e il suo desiderio parlò chiaro ed imperioso spingendolo ad una corsa sfrenata in modo che la raggiunse prima ch’ella si trovasse sul piano. Era agitato, ma tanto stanco ch’era là là per lasciare la risoluzione presa da poco. In mente la stessa idea che lo aveva fatto correre dal Tribunale in su, le si avvicinò: – Signora… – le disse e levò il cappello, ma la respirazione divenuta più affannosa dacché s’era fermato, gl’impedì di continuare. Un occhio azzurro lo guardò con freddezza glaciale e trovandosi poco preparato per parlare avendo pensato solo a correre, semplicemente si fece in parte per lasciarla passare, e pigliò fiato, lieto come se avesse temuto di venirne impedito. I desideri che lo coglievano con tanta rapidità altrettanto rapidamente lo abbandonavano; per dimenticarli gli bastava di venir scosso da un timore o da una fatica.

Per certo tempo ogni sera correva dietro a qualche donna, ma soltanto a quelle ben vestite, perché l’oggetto dei suoi sogni era tutt’altro che pezzente e ad ogni corsa poteva illudersi di trovarlo. Questi conati all’amore avevano sempre il medesimo risultato. La sua timidezza vinceva i propositi fatti con la maggior risolutezza e bastava un gesto di ripulsa dell’aggredita od anche meno, lo sguardo indiscreto di qualche passante, per farlo desistere.

Dovette però fare l’esperienza che non era soltanto la sua timidezza che gl’impediva l’amore, ma i suoi dubbi, le sue esitazioni, e persino quel suo ideale portato dal villaggio e cacciato in un canto ma non scomparso. Esso capitava fuori tutt’ad un tratto quando Alfonso lo aveva del tutto dimenticato e gli faceva disprezzare col suo splendore quella miserabile realtà che gli era concessa.

Ebbe qualche avventura d’amore, ma non appena iniziata la soffocava con abbandoni bruschi per un risveglio della sua coscienza morale od anche semplicemente per non aver da sacrificare all’amore le ore di studio.

Rammentò per parecchi anni con rimpianto Maria, una giovinetta dai capelli esattamente biondi, il colore puro dell’oro, una figurina diritta che non pareva accorgersi del peso del tanto metallo che portava in testa. L’affrontò una sera e audacissimo come sono tutti i timidi quando si costringono al coraggio, le fece subito una dichiarazione d’amore. Maria ch’era, a quanto essa gli disse, dama di compagnia presso una vecchia signora, doveva trovarsi in uno stato d’animo simile al suo, perché, con sua grande sorpresa, ella accolse la sua dichiarazione ch’era sincera e parolaia, uno sfogo di sentimento accumulato, con serietà e con qualche commozione. Doveva partire pochi giorni appresso, ma prima, in seguito alle sue preghiere insistenti, gli accordò un abboccamento a cui egli non andò. Le ore di studio serali erano divenute nel frattempo la cosa più importante della sua giornata. L’abboccamento era stato fissato per quelle ore e all’ultimo momento egli aveva deciso di non andarci. Ebbe poi un cocente rimorso della sua azione, ma non poté ripararvi perché non la rivide mai più.

Non perciò rinunciò a quelle sue corse dietro alle gonnelle. Così correndo sognava meglio. Si vergognava di tale abitudine e sofferse molto un giorno che la vide indovinata da Gustavo.

Fino ad allora era stato lui il maestro di costui. Volendo essere utile alla famiglia Lanucci, egli aveva cercato di ricondurre il giovinetto sulla buona via. L’altro stava ad ascoltare seriamente gl’insegnamenti di Alfonso ma vi opponeva le sue massime semplici e sicure: – Il lavoro in genere era duro e mai retribuito abbastanza; preferiva perciò di vivere povero e libero che di poco più ricco e schiavo.

Tutt’ad un tratto Alfonso si trovò ad essere divenuto scolaro e l’altro maestro:

– Che gusto ci trovi? – chiese Gustavo molto sorpreso facendogli interrompere una corsa dietro ad una donna.

Era volgo lui, ma parlava con calma delle cose che profondamente commovevano e turbavano Alfonso, e questi lo invidiò. Egli più adulto e più intelligente, sotto questo rapporto importantissimo gli era inferiore. La sua forza disordinata era malattia e debolezza, mentre nella faccia anemica e magra di Gustavo brillava la salute, la pace.

Eppure non si sentiva infelice! Trovava la sua felicità da una parte nello studio accanito stesso, dall’altra nella sua ambizione cresciuta gigante, la fame di gloria. Sentiva di essere superiore agli altri e se ancora non sapeva come si sarebbe guadagnata questa gloria, lo afforzava nelle sue speranze il suo amore allo studio ch’era divenuto passione. Completava le ore di studio alla biblioteca con altrettante in casa e non gli bastava ancora. Lo studio invadeva le ore di ufficio, del pranzo e della cena e andava rubandogli ogni giorno parecchie ore di sonno.

In un’epoca di maggiore attività propose a Lucia di darle delle lezioni di lingua italiana. Non doveva essere disaggradevole d’imparare insegnando.

La proposta fece andare in visibilio i vecchi Lanucci e il padre volle che anche Gustavo partecipasse a quelle lezioni. Persino costui s’infiammò. Volle dimostrare una grande diligenza. Si fece dettare da Alfonso le definizioni delle parti del discorso e intendeva di studiarle a mente perché per mancanza di preparazione e non d’intelligenza non giungeva a comprenderle. Poi non si fece più vedere e soltanto le due prime volte si rammentò di scusarsi, quelle però con tutta buona grazia e sempre asserendo che la prima lezione lo aveva grandemente divertito.

La signora Lanucci formalmente consegnò Lucia ad Alfonso. Le prime lezioni vennero date in tinello, le altre in stanza di Alfonso, perché in tinello a certe ore non vi era quiete bastante.

Alfonso prese il suo compito sul serio e l’entusiasmo della signora Lanucci finì col far credere anche a lui di usare un benefizio a Lucia dandole i suoi insegnamenti.

Avevano principiato col Puoti, ma ben presto mutarono programma, ambedue mortalmente annoiati. Lucia non aveva capito niente e Alfonso lo sapeva.

Da parecchio tempo Alfonso usava di leggere i sinonimi del Tommaseo. Risolse di far studiare a Lucia quelli in luogo della grammatica.

– Almeno non si ha da fare con un sistema – le disse. – Per quanto lo si sia, non ci si accorge mai di essere troppo indietro perché non c’è addentellato, ogni pagina e ogni articolo essendo parti che stanno da sé. Si studiano queste parti e un bel giorno si scopre con sorpresa di aver edificato un edifizio, conquistata la lingua italiana.

Quello che maggiormente amava in queste lezioni si era di tener discorsi d’introduzione. Poi non solo l’ignoranza di Lucia, ma i dettagli dell’insegnamento lo annoiavano e lo stancavano. Lucia per le due prime lezioni si fece credere capace e intelligente perché comprese le non poche sottili differenze fra abbandonare e lasciare. Portò seco il librone e imparò a mente quell’articolo. Alla terza lezione, vedendo che la fanciulla lo aveva seguito con tanta facilità sino a quel punto, Alfonso dichiarò che si poteva procedere più rapidamente; una quarta parte circa dell’opera gli era nota e desiderava di giungere presto ove ci sarebbe stato da imparare anche per lui. Ella non desiderava di meglio volendo giungere rapidamente lontano. Lo amava o almeno credeva di esserne amata, ciò che sommamente la commoveva. Dal canto suo, Alfonso in quell’epoca si trovava molto bene con Lucia; non aveva trovato nessuno che supplisse a Maria e Lucia gli serviva di surrogato. A costei non raccontava dei suoi affanni, ma semplicemente le insegnava, e i dogmi e le teorie ch’egli cacciava fra sinonimo e sinonimo, bastavano a levarlo dal suo avvilimento. Il visino di Lucia non intelligente ma attento in modo che sembrava lo fosse più in atto di omaggio che per interessamento alla cosa, gli faceva dimenticare gli occhi inquieti e la parola brusca di Sanneo.

Talvolta l’ignoranza di Lucia lo inquietava e diveniva violento quando doveva accorgersi che le sue spiegazioni non venivano capite e le precedenti dimenticate. Anche sottili distinzioni penetravano qua e là in quel cervello, ma non era abitazione per esse e ne uscivano dopo brevissimo soggiorno. Se una seconda volta si presentava la medesima idea, bisognava fare un’altra volta la presentazione in tutte le regole, e non bastava, perché alla seconda volta l’ira che trapelava da tutti i pori del maestro toglieva alla scolara la calma necessaria per pensare. Quando egli le chiedeva di ripetere le sue spiegazioni, ella alzava il nasino; sorridente ma molto pallida diceva il contrario di quanto aveva detto Alfonso o connetteva in fretta delle frasi che le erano rimaste nell’orecchio, senza molto preoccuparsi del loro significato. Per non perdere la pazienza, Alfonso andava ripetendosi delle massime di bontà e si proponeva di non offendere l’essere meno intelligente.

– Meno intelligente merita compassione – gridava Alfonso una settimana dopo – ma poco diligente, no!

Infatti la ragazza non studiava più. Con uno sforzo immenso, il suo cervello aveva camminato fino a certo punto e si fermava perché stanco, quasi saturo. Quando erano principiate le lezioni, la madre, abituata ai sistemi della scuola, per far trovare alla figliuola il tempo necessario alla nuova occupazione, le aveva fatto un orario nel quale un’ora al giorno era stata destinata alla preparazione. Regolarmente la ragazza passava quest’ora, anziché in stanza sua allo studio, assieme agli altri in tavola a udire i racconti del padre. Vi rimaneva inquieta, seccata dalla madre che la richiamava allo zelo, seccata dal proprio desiderio di figurare con Alfonso, in fine veramente tormentata dal timore di venire sgridata da lui, ma vi rimaneva! Vi rimaneva vinta dall’inerzia, rassegnata anche di subire le osservazioni taglienti di Alfonso alle quali avrebbe preferito delle legnate, piuttosto di mettersi da sola in lotta con quei concetti esposti alla breve. Poteva anche studiarli a memoria che con Alfonso non bastava; perché se il caso voleva ch’ella dimenticasse una parola, era proprio quella, secondo Alfonso, l’essenziale.

Quello che ad Alfonso mancava per essere un buon insegnante era la capacità di apprezzare come meritavano i piccoli sforzi della sua scolara. Lodava di rado e soltanto quando, pentitosi di una parola brutale, voleva risparmiarsi le lagrime che la fanciulla a stento ratteneva, ma mai per una risposta quasi giusta. S’era fatto illusioni sulla sua vocazione all’insegnamento e se gli piaceva d’insegnare non era per affetto allo scolare. I progressi di Lucia poco o nulla gl’importavano. Si sentiva offeso che ella non imparasse di più coi suoi insegnamenti e diveniva violento a sfogo di giornate uggiose nelle quali aveva avuto da subire lui le ire altrui.

Era sorprendente che Lucia non perdesse definitivamente la pazienza e non facesse sospendere quelle lezioni che le apportavano tanti dispiaceri e un utile così piccolo. Non voleva questo! Anzi, alla fine di ogni singola lezione, quando Alfonso, nel congedarla, si faceva più mite e la trattava da amico coi soliti suoi riguardi, ella si proponeva di essere diligente, di studiare, per meritarsi quel trattamento anche durante la lezione. Sarebbe stato pur bello di passare insieme da buoni amici anche quell’oretta, ammirandosi vicendevolmente, ciò che a lei riusciva facilmente! Dopo quell’ora di studio forzato, lo studio le sembrava più facile e più aggradevole che non prima della lezione la quale in parte toglieva al cervello la ruggine che vi si faceva durante la giornata passata a lavorare d’ago. Si proponeva anche per la mattina seguente di levarsi più di buon’ora per rimettersi allo studio, ma bastava la notte a ripiombarla nella solita inerzia.

Sospenderle no, ma che le lezioni le dispiacessero lo si vedeva dalla premura con la quale approfittava di ogni pretesto per risparmiarsene una o l’altra. Una sera aveva da andare da una sua amica, molte altre, in mancanza di meglio, si sentiva poco bene. Gustavo una sera, vedendo che fingeva di essere triste e svogliata dacché era venuto Alfonso, non messo a parte dello scopo della malattia, le chiese:

– Così improvvisamente ti ammali?

Non occorreva di questo avvertimento ad Alfonso per fargli sapere quale amore allo studio egli avesse saputo infondere nella sua scolara, ma non gli dispiaceva di venir temuto.

Una volta Lucia ebbe il coraggio di rifiutarsi di prendere lezione e ciò senz’addurre alcun pretesto. Andò dessa ad aprire la porta ad Alfonso e con una risata clamorosa ch’ella aveva copiata da un’amica, lo avvertì semplicemente che per quella sera non avrebbe preso lezione.

– Perché? – chiese Alfonso corrugando le sopracciglia. Non rideva lui; era sorpreso poco aggradevolmente.

– Vogliamo stare insieme e ridere e non studiare, – rispose Lucia coraggiosamente.

– Non sarebbe meglio cessare del tutto queste lezioni che non troppo sembrano piacerle?

Lucia impallidì subito spaventata. La madre le venne in aiuto e spiegò ad Alfonso che la fanciulla non avendo trovato il tempo necessario per studiare, non prendeva quella sera lezione proprio allo scopo di non dover procedere oltre prima di essersi resa padrona di quanto già avevano passato insieme. Poi anch’egli si divertì quella sera più che se fosse rimasto a studiare con Lucia. Ciarlò molto e venne ascoltato religiosamente.

La lezione seguente fu più brutale del solito e giunse fino a darle dell’ignorante. Aveva lasciato alla giovinetta mezz’ora di tempo per dare una risposta che non voleva venire e faceva come se gli sembrasse un delitto che in tale intervallo ella non sapesse raccapezzarsi; dimenticava che donde non c’era non si poteva levar sangue. Egli dichiarò, non trovando altre frasi pungenti, ch’era ora di sospendere quelle lezioni che non portavano alcun risultato e si alzò in piedi per sospendere intanto quella. La ragazza fino ad allora non s’era arrischiata di dichiarare nettamente che quello che non sapeva non poteva dire. Guardava il soffitto a cercarvi la risposta, emetteva dei suoni d’impazienza per diminuire quella d’Alfonso e aveva un sorriso affettato ma forzato tanto che chiedeva compassione. Alla dichiarazione esplicita di Alfonso, ella scoppiò in pianto dirotto, si alzò, uscì chiudendo con violenza la porta e si gettò fra le braccia della madre ch’era sola in tinello. Alfonso fu spaventato dell’effetto che aveva prodotto e volentieri l’avrebbe fermata per chiederle scusa.

La seguì e venne colpito da uno sguardo d’ira intensa lanciato verso la sua stanza dalla signora Lanucci che teneva stretta al seno la fanciulla tanto oppressa dai singhiozzi che ancora nulla aveva potuto spiegarle. Vedendolo, ella lo guardò molto seria:

– Che cosa le ha fatto questa poveretta?

Molto imbarazzato, Alfonso rispose:

– L’ho sgridata perché non aveva studiato nulla!

– Ma se ha studiato! L’ho vista io a studiare.

Come in tutte le persone deboli, l’ira di Lucia perché lungamente repressa, scoppiò con grande violenza. Ad onta dei singhiozzi inviò ad Alfonso con voce intelligibilissima tre insolenze:

– Imbecille, sciocco, asino!

Le belle maniere apprese con fatica negli ultimi anni non l’accompagnavano nella commozione e ne veniva ridotta alle parole, al suono di voce ed al gesto di Gustavo. Alfonso era offeso ma senza parole e irresoluto se dovesse difendersi o salvarsi da quell’ira rifugiandosi nella sua stanza.

La signora Lanucci, dolente di vedere rotta la buona armonia ch’ella aveva voluto regnasse fra i due giovani, si adirò con Lucia:

– Sei tu la sciocca, l’imbecille; vuoi star zitta? – e la respinse da sé.

Lucia andò a cadere su una sedia, ma non le pareva d’essersi sfogata abbastanza:

– Crede di essere un dotto…

– Vuoi stare zitta? – la interruppe la Lanucci minacciosamente.

Ancora per una mezz’ora Lucia continuò a singhiozzare.

La signora Lanucci non voleva apparire di dare importanza all’avvenuto e ne rise con Alfonso che davvero non seppe imitarla.

– Però voglio che in casa regni l’armonia e capisco che l’unico mezzo d’averla è di lasciare queste lezioni; peccato!

Poteva parlare del suo dispiacere senza dover temere di destare sospetti in Alfonso, perché al cominciare delle lezioni gli aveva spiegato quanto dalla sua istruzione sperasse per Lucia. Gli uomini, specialmente coloro i quali hanno il vero entusiasmo per lo studio, diceva la signora Lanucci con un inchino lusinghiero ad Alfonso, sono più idonei ad insegnare che non le donne le quali amano le cose piccole e si perdono in particolari inutili e perciò dannosi alla comprensione del tutto. Gli uomini però, ora se ne accorgeva, avevano altri difetti ed altrettanto dannosi. Ad onta di questi difetti ella rimase tanto gentile con Alfonso da sorprenderlo.