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Buch lesen: «Novelle e paesi valdostani», Seite 4

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Ma il mormorìo seguitava.

Apersi la finestra. La brezza gelida della notte mi rincorò; d'altronde il rumore naturale dell'acqua corrente, tornò a parermi per un momento la sola causa delle mie paure. Ma quando il freddo m'ebbe fatto rinchiudere i vetri, ecco di nuovo salire, rasente i muri la nota bassa, grave, la nota umana che mi atterriva. Allora mi vestii alla meglio ed uscii nel corritoio. Le tavole avvezze ai passi muti delle scarpe di panno, scricchiolavano e gemevano come nuove nel morto silenzio della casa. Infilai la scala. Le porte delle stanze al primo piano erano tutte spalancate e per la bocca rischiarata sugli orli mostravano profondità oscure piene d'insidie. Passando, la mia candela gettava sprazzi di luce sui mobili e improvvisava forme fantastiche. Di quando in quando sostavo per avvertire il mormorìo, a volte lo perdevo, ma fatti pochi passi tornava a colpirmi insistente, monotono come prima.

Giunsi al piano terreno. Nella cucina biancheggiava un chiarore, smorto, diffuso, meno intenso che il riflesso delle nevi nelle notti serene d'inverno, immobile come le luci il cui centro è lontano. Il mormorìo invece era vicinissimo ma la sua causa durava misteriosa, anzi era accresciuta di mistero.

Risoluto a scoprirla, spensi il lume a fine di guidarmi col chiarore che avevo offuscato. Esso proveniva da un immenso camino dalla larga cappa sporgente che teneva tutta la parete di fronte all'entrata. Sotto la cappa, nel muro di fianco si apriva un usciolo basso e stretto che metteva ad una di quelle camerette che in Piemonte chiamano Peilo.

Là rischiarate da una lucerna ad olio appesa alla parete, stavano due persone: la padrona dell'osteria ed un vecchio di forme atletiche, questi abbandonato su di un inginocchiatoio in atto di grande sfinimento, quella ritta in piedi daccanto a lui, con un libro in mano che teneva levato all'altezza della lucerna per vederci. Tutti e due mi voltavano la schiena. La donna terminava allora di leggere l'ultimo mistero doloroso al quale seguiva la fila delle Ave Marie e dei Pater che essa recitava con voce chiara e con misurata lentezza, mentre il vecchio li masticava confusi, come avesse la lingua tarda e spessa e la bocca bavosa. Alla filza delle Ave Marie, seguirono il requiem e le litanie della Madonna che apparivano dedicate a qualche determinata persona, poichè il ritornello ribatteva sempre: ora [pg!70] pro eo, ora pro eo. – A volte, la voce del vecchio raggomitolato nell'inginocchiatoio accennando a spegnersi, la donna levava la sua, dandole non so quale accento autoritario, così imperioso che tosto l'altra si studiava di farle eco con docilità.

Dopo l'ultimo Oremus, la vecchia senza rifiatare intonò il Miserere, ma l'uomo si levò in piedi barcollando e disse:

– Ho sete.

La donna gli pose una mano sulla spalla premendovi finchè non l'ebbe rimesso ginocchioni; ma oramai era sola a pregare; l'altro, briaco fradicio, pareva dovesse abbisciarsi e ruzzolare in terra ad ogni momento.

La vecchia lo scoteva, lo sollevava, lo reggeva, lo stimolava con pugni e tornava sui versetti già recitati per farglieli ripetere parola per parola: – Voglio salvarti, voglio salvarti tuo malgrado, contro di te.

E lo chiamava con parole di vituperio, lo guardava coll'occhio fosco, ardente, saettante uno sprezzo mortale ed una inesorabile fermezza. E il vecchio, dominato, quasi snebbiato da quegli sguardi, balbettava finchè questi lo tenevano soggiogato, balbettava parole latine informi e slabbrate, ed appena essa metteva gli occhi sul libro, si accasciava e taceva un'altra volta. A un punto parve volersi rivoltare, urlò un Cristo battendo un gran pugno sull'inginocchiatoio ma non si resse e ricadde. Un'altra volta allungò la mano verso una bottiglia (certo una bottiglia d'acquavite) posata lì presso su di un tavolino a mezza luna, ma la vecchia fu più lesta a ghermirla e gli disse:

– Prega prima, dopo berrai.

Egli le si rivolse supplichevole, giungendo a stento le mani colle mosse esagerate e violenti degli ubriachi ed essa senza badargli ripigliò l'inno, grave, immobile, lasciando piombare ogni parola come una minaccia e contentandosi oramai dell'assentire che l'altro faceva col capo e del grugnito che mandava frettoloso alla fine di ogni versetto, per non essere colto a tacere.

Terminato il Miserere la donna gli versò mezzo bicchiere d'acquavite e glie lo porse:

– A domani, ricordati, ce ne sarà dell'altra.

Egli tracannò d'un getto tutto il liquore e disse beato:

– Buono! Buono! Com'è buono!

Poi la donna lo prese per un braccio, staccò la lucerna dalla muraglia e tutti e due mossero per uscire. Io mi gettai nell'angolo oscuro del focolare, li vidi traversare la cucina, sentii tirare il chiavistello della porta di fuori e una canzonaccia rauca e trascinata mi annunziò che il briaco era all'aperto nel gran silenzio notturno della via.

La vecchia tornò indietro mi ripassò davanti una seconda volta senza vedermi, riappese la lucerna alla parete e si abbandonò sull'inginocchiatoio in atto di dolore mortale senza lacrime.

Quando risalii nella mia stanza il mormorio era cessato, ma non potei chiudere palpebre in tutta la notte. Io mi sono fitto in mente che la padrona dell'osteria vada espiando così coll'antico amante e complice, l'antico dolce peccato e il delitto d'infanticidio di che il tribunale l'aveva assolta per difetto di prove; che essa attiri l'indurito briacone alla preghiera, colla promessa di abbondanti libazioni, che gli affretti la morte in questo mondo per assicurargli il perdono e la salvezza nell'altro. – Ma io sono un romantico impenitente e forse calunnio quella disgraziata.

LA MINIERA DI COGNE

In val di Cogne presso il Gran Paradiso, che è il maggior gruppo di montagne interamente italiano, c'è una delle più ricche miniere di ferro di tutta Italia. Delle più ricche, non delle più produttive, perchè mentre il minerale vi si trova quasi allo stato nativo, il suo giacimento è in posizione così elevata e così discosto dalle strade carreggiabili da renderne disagevole e costosissimo l'esercizio. Perciò, deluse più volte le speranze e stancata la costanza dei suoi cultori, abbandonata e ripresa secondo fioriscono o stagnano le altre industrie paesane, la miniera di Cogne, che sarà un giorno la prima ricchezza di quei luoghi, è ora il segno a cui riconoscerne gli alterni gradi di miseria, l'ultima disperata risorsa nelle annate cattive.

Collocata pressochè in cima di una montagna chiamata la Creia, gli alpigiani vi salgono per un interminabile sentiero fra boschi e prati, e ne scendono, anzi ne precipitano i carri del minerale per una stradaccia spaventosa, simile ai canaloni che i grossi massi incidono rovinando per l'erta e squarciando il terreno.

Il luogo ha l'austera bellezza dei bei luoghi alpini. Ai piedi, nella valle quieta e verde, la chiesa e gli sparsi casolari di Cogne: dirimpetto, la mole del Gran Paradiso e le ghiacciaie della Tribolazione, a sinistra la scogliera color di rame della Nouva, a destra la Grivola curva e tagliente come una scimitarra, e dove la valle di Cogne scende in quella d'Aosta, laggiù nel fondo lontano, irradiante splendori, la vetta sovrana del Monte Bianco.

La miniera di Cogne non spinge gallerie nel monte e non vi affonda pozzi; non è oscura nè afosa. La vena essendo a fior di roccia questa è scavata a grotta colla bocca smisurata aperta al sole. Dal prato si vedono gli atteggiamenti e i movimenti dei minatori. Nella grotta spaziosa e chiara, ogni operaio attacca la roccia a capriccio dove le asperità e le screpolature prodotte dagli scoppi del giorno innanzi, danno più facile presa al piccone o agevolano l'azione dello scalpello, dove non batte il sole o cala il vento o sporgono scaglioni o non stagnano acque. A misura che la caverna va internandosi, allarga la bocca e inghiotte più aria e più raggi. La montagna assalita in poco spazio in varî punti, mostra tutte insieme le sue immani ferite, le pareti scabre gettano ombre e spezzano raggi, hanno faccie lucentissime di diamante e fenditure sottili come tagli di lama affilata. Gli assalitori, tutti in vista, danno per il numero l'idea di un accanimento rabbioso, di una smania di farla presto finita; mentre altrove la disciplina li assimila a macchine, qui la libera elezione del punto dove percotere fa apparire l'opera di ognuno quale essa è veramente, volente e cosciente: essi sanno dove la gran vittima inerte ha la fibra meno tenace, dove un sol colpo più squarcia e più ne morde le viscere e quivi infuriano a mazzate che li fanno gemere, che fendono l'aria sibilando, e ad ogni colpo, lo scalpello respinto dalla durezza del fondo erompe crocchiando dall'unta petrosa guaina.

La mattina il sole vi giunge tardi. – La caverna puzza ancora di polvere per le mine scoppiate la sera innanzi: i guazzi stagnanti nel fondo hanno una crosta di ghiaccio anche nei giorni della canicola. I minatori smarriti nella penombra invernale si confondono colla roccia, sembrano macchie grigie sul fondo grigio; l'uniformità del colore attenua la violenza dei movimenti e li fa parere pigri come di persona intirizzita. A quell'ora il lavoro sa di pena, una pena lunga ed oscura che sconti qualche grave colpa tenebrosa. Martellano in silenzio: questi solitari a colpi di piccone, quelli appaiati reggendo uno colle due mani il ferro da mina e l'altro affondandolo a mazzate. A vederli dalla bocca della grotta, i loro movimenti hanno una rigidità automatica. A ogni colpo di mazza, quegli che regge il ferro, abbassa le palpebre e gira di fianco la testa come fanno i malinconici magot chinesi, e l'atto è così normale, e combina con tanta precisione col piombare della mazzata che par di sentire scricchiolare il congegno che lo produce.

L'alba li raccoglie e l'aurora li trova al lavoro. E via per dell'ore, muti, instancabili, senza un minuto di posa, perchè il gelo non incolli loro alla pelle la camicia inzuppata di sudore. Intorno, la montagna è deserta. Le mandrie del vicino casolare cercarono i pascoli soleggiati e da quelli mandano ai reclusi lo scampanellare dell'accordo e i muggiti dati al cielo aperto e ai rinascenti tepori. Come tarda il sole! Sulla montagna di rimpetto, le cime le roccie, i nevati, le ghiacciaie, le foreste, ne ridono tutte e si scaldano e fumano di vapori mentre là nell'antro impigrisce il crepuscolo mattinale e i colpi delle mazze d'acciaio battono i minuti delle ore eterne. Gran cammino e grandi faccende deve fare il sole prima di giungere alla miniera! Deve scendere passo passo la costa orientale della montagna dirimpetto, calarsi per le ghiacciaie, filtrare nel fitto delle pinete, incidere le forre, inargentare i neri dirupi. Poi, come la valle lo attira, deve cercarne il fondo, accendere come un faro la punta del campanile, increspare i raggi sul tetto della chiesa tutto ondato di muschi, nelle case che gli protendono la facciata petrosa rigare di strisce dorate il buio afoso delle stanze e fare incandescente l'acqua del fiume che la notte lasciò grigio ed opaco e suscitare faville e colorire iridi nelle cascate. E poi ancora, inerpicarsi su per l'erta occidentale della Creia e toccarne la cima quando già da per tutto è vinta la mattutina temperanza di vapori. Allora, quando il primo filo luminoso orla il margine dell'altipiano dove giace la miniera e sembra una biscia lunghissima che lo fasci, i minatori smettono l'opera dopo cinque ore di fatica e lasciano la grotta per sdraiarsi sfiniti nella piena luce del sole.

D'allora in poi la giornata è gaia e l'opera lieve. Col sole entrano nella caverna i canti, le risa, le chiacchiere che ingannano la fatica e la lena che la sostiene. E come un quotidiano rifiorire di primavera, e un quotidiano rinnovarsi di giovinezza. Gli operai ne hanno stenebrata la mente e rinvigoriti i muscoli. Allora il lavoro diventa verboso; l'aria intepidita concede le soste riposatrici; la luce, rilevando le asprezze della roccia, mostra quanta sia l'opera compiuta, scrive quasi sulle pareti il còmpito della giornata. E via a picconate sulle creste sporgenti; le scaglie volano per l'aria e vanno fuori ad uccidere qualche erba fiorita, i massi rotolano nelle pozze squagliate del fondo e spruzzano intorno i vicini. Tra un colpo e l'altro, vanno e vengono da un capo all'altro della grotta, come spola attraverso il telaio, le arguzie ed i motti salati; ogni atto, ogni gesto, la durezza della roccia, gli strumenti del lavoro diventano argomento di osservazioni grottesche ed oscene, termini di paragone che mettono capo agli erotici misteri della cronaca paesana. Trilla per l'aria qualche brandello di canzone riportata da lungi dal reggimento: cadenze di tarantelle napoletane che vanno a morire nelle gravi nenie di una complaintevaldostana.

La mandria è tornata al pascolo vicino. Di quando in quando una mucca domestica viene a piantarsi sulla bocca dell'antro e guarda cogli occhioni giudiziosi la dura opera dei minatori. Guarda scodinzolando e medita seco stessa quale possa essere la ragione di quel grande affannarsi che vede e quando l'ha trovata, protende il muso e lancia ai barbari che struggono la montagna un muggito di rimprovero, come a dire: vergogna! vergogna! – Poi torna nella sua saviezza al pasto odoroso che non le costa fatica. Così passano le bianchezze meridiane, finchè il sole ripaga la grotta del suo tardo apparire.

Adesso tocca alla montagna dirimpetto, il cruccio dell'ombra e l'invidiosa vista dell'altrui splendore. Sulla sua costa orientale le ghiacciaie allividirono; le navate della foresta videro acciecarsi i grandi occhi lucenti che le rischiaravano; le forre, colme di tenebre, si livellarono ai fianchi; i dirupi argentati ripresero la tinta nera e giù nella valle si spense il faro del campanile, e la chiesa, le case, il fiume rimpiccioliti si immersero nella notte. La Creia intanto dà la sua faccia gloriosa al sole e la grotta rosseggia di una luce infernale. Dal corpo dei minatori s'allungano sulle pareti e salgono fino a mezza la vôlta, grandi ombre mobili che hanno atteggiamenti e movimenti di gigante. Questa volta la montagna è alle prese coi ciclopi e la battaglia infierisce furibonda. Le ciarle tacquero di nuovo, e le risa e le canzoni; nessuno più guarda l'opera dei compagni nè medita la propria. Martellano accaniti, sicuri di ogni colpo, i muscoli tesi, raccogliendo nel braccio tutta la forza vitale, le guancie e gli occhi accesi di una collera cieca. Il lavoro non sa più di pena, la lotta inferocita è premio a se stessa. L'inerte nemica deve cadere stritolata; si spianerà il suo dorso, ostacolo al sole mattutino, verserà dalle piaghe le ferree viscere, darà alle officine della valle e da queste ai campi ed al mare i tesori che trafugò, avara, sulla vetta aspra e lontana.

A un punto tutti fuggono a precipizio, come sbaragliati e riparano sbandandosi dietro i grossi massi sparsi per la costa. Segue un silenzio ansioso, grave di imminente rovina. Poi la caverna manda un ruggito spaventevole e vomita, come un cratere, vortici di fumo. – Gli operai accorrono contenti a considerare le squarciature della mina, e dal nuovo aspetto della grotta ricavano l'oroscopo di un agevole od ingrato còmpito per l'indomani.

A sole caduto, la Creia è muta come un deserto.

***

L'opera più grave e veramente terribile è quella di calare il minerale fino al basso della valle. Ne colmano certi cassoni quadrati che posano sulle sbarre di una slitta. Un peso enorme, ma la strada si avvalla così scoscesa, che a mettere la slitta al sommo del pendio, la gola aperta ne farebbe una boccata. Perciò altro non occorre che guidarla perchè non piombi e disperda il carico. Se la miniera fosse in continuo esercizio, correrebbero giù per la china i grossi tubi capaci d'inghiottire in un'ora il prodotto di ogni giornata; ma chi arrischia spese durevoli nell'alterna vicenda degli abbandoni e delle riprese?

La strada non è che un gran solco lungo la costa. Seguendo il principio che la linea retta è la più breve che possa correre fra due punti, essa sdegna gli addolcimenti dei rigiri e si avventa a valle diritta come una frecciata. Se non che di quando in quando la costa rompe in precipizi smisurati e allora la strada che piombò a perpendicolo fino sul margine dell'abisso, fa una svoltata improvvisa ad angolo retto, orla il sommo del dirupo e risvolta verso il basso appena trova una pendenza che basti a starci ritto un uomo avvezzo alla montagna. Messo per quella china e spinto dalla slitta carica, un mulo ne avrebbe, al primo viaggio, rotte le gambe e fiaccato il filo delle reni; perciò vi attaccano uomini che per bestie da soma sono meno costosi. A ogni mulo morto, corrono marenghi, ad ogni uomo morto, basta una croce di legno e un De-profundis.

Io non credo si possa immaginare, non dico un lavoro, chè la parola è troppo mite ed onesta, ma un supplizio peggiore di quello che sopportano quei disgraziati. I grossi pesi macinarono il suolo sassoso, cosicchè vi si affonda fino al ginocchio in una polvere nera, finissima che soffoca, accieca e morde la pelle.

I portatori si attaccano alla slitta appoggiando la schiena al cassone colmo di minerale: abbrancano solidamente le due sbarre, irrigidiscono le gambe e si slanciano nella voragine. Il loro corpo fa, precipitando, una linea quasi orizzontale, quasi parallela al terreno, tanto che, la palma del piede non tocca mai la terra; vi affondano invece il calcagno e menano le gambe rigide come stantufi. – A mano a mano che scendono, la corsa invelocisce; il peso gravissimo, che al piano non smoverebbero in quattro, li schiaccia e li travolge, l'abisso li attira: sentono nelle orecchie l'uragano delle corse sfrenate e ai polsi il martello del sangue sbattuto; hanno negli occhi la visione lampeggiante della vertigine e nelle fauci il picchiettare della polvere filtrata attraverso le labbra e i denti serrati. Vanno colla brutale inerzia della gravità, angosciosamente intenti alle croci di legno che segnano le svoltate. Ma quelle croci, non sorgono per indicare il cammino, bensì per consacrare il punto donde altri prima di loro piombò nell'abisso smisurato, donde essi piomberanno un giorno, forse oggi stesso, forse fra pochi istanti.

Così la massa informe rovina a valle, e quando vi giunge, l'uomo par moribondo. Scaricato il minerale e ripreso fiato, eccolo un'altra volta su per l'erta, tirandosi dietro la slitta. – Fanno per lo più due corse al giorno, ma non durano un pezzo al mestiere.

***

Io feci una volta con parecchi amici l'esperimento di quei veicoli. La salita fino alla miniera era durata quattro ore di buon cammino: ne scendemmo in venti minuti. Ma non ci tornerei, nè consiglio ad altri la prova. Pericolo vero non c'è (la slitta carica di quattro uomini, pareva un fuscello a quell'Ercole avvezzo a reggerla carica di ferro), ma c'è l'esagerata apparenza del pericolo, locchè, lì per lì, è la stessa cosa. Non mi riesce di ricordare nè l'aspetto delle montagne intorno, nè quello dei punti più paurosi, nè l'impressione ricevuta dalla velocità, nè di darmi giusto conto di questa. Rammento invece, per quanto fu lungo il tragitto, lo stato disgustoso dell'animo mio e l'immobilità e il silenzio di tutti.

E rammento pure che giunti al fondo, avevamo tutti le mani, il viso, il collo, neri come carbone e grigio di polvere, malgrado le vestimenta, il resto del corpo, e che per tornarci al pristino colore, ci vollero tre giorni di frequenti ed abbondanti lavature.

STORIA DI GUGLIELMO RHEDY

Guglielmo Rhedy era nativo di Gressoney-la-Trinité, dove abitava una casa sulla sinistra del torrente Lys, poco più in basso del punto donde si dipartono le due strade del Col d'Ollen verso Alagna, e della Betta Forca verso la valle di Ajaz. Quella casa, come è l'uso del paese, era composta di due piccole casette in forma di padiglione, unite insieme sulla stessa fronte da un corpo di edifizio basso, nel quale di solito s'apre la porta di entrata, si sviluppa la scala di legno e corre ad ogni piano l'andito che mette alle diverse stanze. Per lo più delle due casette una è destinata al servizio, l'altra all'abitare. Da una parte la stalla, la cucina, il fienile, un'officina da falegname e le camere dei domestici; dall'altra le camere da letto ed un salone a terreno, dove il padrone l'estate riceve i conoscenti intorno ad una delle due tavole bislunghe che vi stanno disposte parallele come nelle osterie.

La famiglia vive a terreno nella stalla o nel salone, secondo le stagioni, e diffatti questi due membri mostrano lo studio minutissimo che presiedette al loro ordinamento. Delle stalle quali noi le conosciamo alla piana, quelle di lassù non hanno che il dolce penetrante calore e la morbida atmosfera. Non vi si vede un palmo di muro; tutte le pareti e la strombatura della porta e delle finestre sono rivestite di tavole commesse in modo che i nodi e le venature delle assi combinino simmetricamente. Dei regolini sagomati a cornice scompartiscono le pareti ed il soffitto in larghi quadri eguali all'uso svizzero e danno alla stanza un'aria di agiatezza accurata. Tutto vi è pulito ed ordinato. Un assito, che non giunge al soffitto, taglia la stanza per il suo lungo, impedisce la vista delle vacche e permette che il calore del loro fiato s'allarghi attraverso il vano lasciato in alto. Bisogna vedere che mondezza di stalla; la più nervosa e schifiltosa signora delle città accetterebbe di dormirvi senza arricciare il naso. Nemmeno il sospetto di puzzo o di tanfo, anzi un buon odore di fieno e di latte caldo che fa allargare le narici per aspirarlo voluttuosamente. Un ruscello d'acqua limpidissimo spazza continuamente ogni lordura e la mena all'aperto in una larga fossa donde filtra concime nei prati che attorniano la casa.

Quella gente industriosa e calma nella lunga stagione d'inverno lavora sempre a migliorarsi il nido con minutezza infantile. Ogni nuovo bisogno, ogni nuovo capriccio suggerisce nuovi artifizi sottilissimi che accusano un ingegno stretto, un amore sviscerato della casa, un bisogno continuo di operosità ed una grande ricchezza di tempo. Ogni inverno scava nelle pareti qualche nuovo ripostiglio, vi nasconde qualche tavola o piano che s'abbassa a volontà e si richiude senza più apparire, qualche braccio di legno che si allunga per sostenere matasse di filo, pezzuole, panni, lucerne, e si ripiega in se stesso e rientra nell'assito lasciandolo liscio come prima; ordisce qualche congegno misterioso ed intricato per aprir le finestre o per dar fieno alle vacche senza muoversi da sedere: aggiunte e migliorie che hanno l'aria di trastulli, e lo sono veramente, e formano l'orgoglio dei padroni e fanno sorridere i visitatori.

Di fuori, le case povere sono costrutte in muratura fino al primo piano donde giungono al tetto per via di tronchi d'abete sovrapposti, mentre delle più agiate il muro tiene tutta l'altezza. Così le une come le altre non hanno mai più di due piani oltre il terreno, ogni piano apre sulla facciata quattro o sei finestre e nel mezzo una porta che mette ad un ballatoio di legno lungo quanto la casa.

La casa di Guglielmo Rhedy era tutta in muratura. L'aveva fabbricata un tale Lysbak, birraio arricchitosi in Baviera, al quale, mentre attendeva a compirla internamente, erano capitati dei rovesci di fortuna che lo avevano fermato a mezz'opera. La casetta a destra verso il torrente ed il corpo di mezzo, cioè la scala, essendo ultimate, il Lysbak era venuto a dimorarvi colla moglie e la figliuola, lasciando l'altra casetta così com'era, le muraglie ritte, le finestre senza telai, sbarrate soltanto quelle a terreno. Cresciute le strettezze, il Lysbak aveva dopo due anni venduta quella parte di casa ed i prati in giro al padre di Guglielmo, il quale, raffazzonatala alla meglio, ci aveva installate le sue venticinque vacche, la sua grassa persona ed una gigantessa di domestica, vero serventone da fatica. Guglielmo era allora caporale di artiglieria a Pisa.

Fra il Lysbak ed il padre Rhedy non si era però, malgrado la vicinanza, stretta nessuna sorta di amicizia. Tutt'altro. Il primo, sempre col pensiero alle speculazioni tentate per rifarsi e fallite, respingeva col silenzio le vanterie del secondo e non rideva mai delle sue grosse facezie; questi aveva finito per aversene a male e aveva smesso di parlargli tenendolo per superbo. Di più in paese chiamavano: madama e madamigella la moglie e la figlia del Lysbak, locchè urtava i nervi al Rhedy, che le sapeva senza risorse. La grossa fantesca da principio, per un senso di bontà, si era profferta di aiutare le due signore al disbrigo delle maggiori fatiche domestiche; ma queste, che non avrebbero potuto ricompensarla, ne avevano rifiutato i servigi. Ne era seguìto uno stato di ostilità muto e rabbioso, che si risolveva in mille piccole trafitture da una parte, in una paziente ed altera indifferenza dall'altra. Quel po' di spazio piano davanti alla casa era stato diviso da uno steccato che segnava i confini delle due proprietà e ciascuno viveva dalla sua.

Quando Guglielmo veniva in licenza, il padre e la domestica gli empivano la testa con sfoghi di vanità offesa, e Guglielmo, che non ne sapeva altro, dava retta e faceva muso anche lui.

Il padre Lysbak ed il padre Rhedy morirono lo stesso mese. Guglielmo, ricco di un ventimila lire, finito il servizio militare aveva vendute le vacche, congedata la domestica, e si era dato al mestiere di falegname l'inverno, a quello di guida l'estate.

Teresa, la figlia del Lysbak, aveva allora 22 anni. Alta, robusta, coi colori della salute sul viso, grave nei movimenti come tutte le montanare, aveva quell'aria di freschezza e saldezza selvatica che promette onesti costumi e buoni figlioli. Col suo vestito di panno rosso, pieno sui fianchi, col suo giubbettino di panno nero, pieno nel petto, passava lenta fra la gente che si apriva a guardarla. In casa attendeva a cucire, a spazzare, a lustrare i vetri, al poco orto ed al pollame, e trovava ancora tempo per leggere. Perchè Teresa era stata allevata in un educandato di Biella e sapeva parlare e scrivere quattro lingue: il tedesco che è la lingua di Gressoney, l'italiano, il francese e l'inglese. Malgrado questo grosso fardello di scienza, nessuno del piano l'avrebbe tolta per una signora. A Gressoney se ne incontrano molte: ragazze con cento mila lire di dote, istrutte come tante maestre, che menano in pastura le vacche, e sembrano villane ripulite. L'ingegno si piega ad imparare, ma il corpo è troppo solido per dirozzarsi dalla pesantezza nativa; d'altronde anche l'ingegno non raggiunge mai quella mobilità irrequieta che abbarbaglia. Quelle genti hanno durato troppi inverni, hanno veduto cadere troppa neve stando chiusi nelle stalle basse ed oscure, e rigirandosi in un cerchio ristrettissimo di pensieri, d'impressioni e d'immagini, perchè la loro mente possa farsi d'un tratto capace degli elastici rimbalzi che scotono gl'ingegni cittadini. Sanno, ma non rivolgono in se stessi il loro sapere, non s'interrogano, non deducono, non anelano a maggiori conoscenze. Lasciano le cognizioni faticosamente acquisite giacere inerti nella memoria immobile.

Ho parlato dell'ingegno, non del sentimento. Questo è ingenuo e vivissimo. Si commovono facilmente, contemplano assai, hanno desiderî moderati e vicini, ma ardenti e tenacissimi, sono lenti a sperare, ma sperano intensamente, si chiudono in pochi affetti, ma in questi spiegano tenerezze infinite, si abbandonano a malinconie, a tristezze ombrose e senza ragione. Tutti, uomini e donne, sono romantici incorreggibili.

***

Dunque Guglielmo si innamorò di Teresa. Morti i due padri, le ostilità erano cessate, e traverso lo steccato Guglielmo aveva cominciato a scambiare con Teresa e sua madre dei discorsi pratici e piani da buon vicino. Il Lysbak presso a morte aveva intavolate con un ricchissimo signore di Gressoney St-Jean delle trattative per vendergli quello che gli rimaneva della casa, a fine di lasciare alle due donne un gruzzolo che le facesse vivere meno a disagio. La vedova aveva chiuso il contratto e la casa era stata venduta con la clausola del riscatto a due anni di scadenza e con facoltà alle donne di rimanervi fino allo spirare della clausola.

Un fratello del Lysbak, essendo in giro pel mondo, le poverette volevano così lasciare uno spiraglio aperto alla fortuna, caso mai egli tornasse in paese milionario.

Il nuovo padrone sapeva benissimo che passati i due anni la casa gli sarebbe rimasta, e perchè era solida e posta in un luogo sicuro dalle valanche e deliziosissimo, faceva all'amore anche alla parte del Rhedy, della quale aveva già offerto a Guglielmo somme favolose. Guglielmo non aveva detto nè sì nè no, ma via, non pareva alieno dall'accettare.

Lo steccato che spartiva l'aia era caduto; le due donne, non più padrone, pensavano non toccasse loro rialzarlo; il vero padrone trovava inutile levarne uno nuovo per poi riatterrarlo appena avveratasi la sua speranza ed a Guglielmo non pareva vero che rimanesse a terra, anzi, perchè era brutto a vedersi, una notte lo raccolse, lo fece in pezzi e portò i pezzi nel legnaio delle Lysbak.

Così l'aia era spazzata e Guglielmo poteva, senza perdere tempo ad offrirli, prestare mille piccoli servigi alle vicine; servigi che offerti avrebbero forse incontrata una timorosa ripulsa, ma che, una volta prestati, ne autorizzavano, anzi ne chiamavano degli altri. E poi, superbe quelle due povere donne non lo erano più, se pure lo erano state mai.

Guglielmo era un bel giovane aperto e gioviale, faceva ridere Teresa e raccontava maraviglie alla madre. L'estate quando andava a far la guida su pel Monte Rosa, affidava loro la chiave di casa, e tornando a pigliarla, bisognava bene dire dove era andato, ed i pericoli superati e descrivere le nuove pazzie degli alpinisti. Qualche volta Teresa faceva da interprete agli Inglesi, e passava presso di loro per moglie o sorella di Guglielmo. Finalmente questi s'era avveduto che a stare senza vacche non si poteva durare, e avendone comprate due, aveva pregato Teresa che ne assumesse la cura per spartirne il profitto.

Il nuovo padrone, di quando in quando, tornava all'assalto di Rhedy per comprargli il suo pezzo di casa, e tenendolo questi a bada, aveva finito per ideare un piano d'assedio di infallibile riuscita.