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Buch lesen: «Impressioni d'America», Seite 9

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Ma noi che ne conosciamo le condizioni domestiche dobbiamo fare di quei nostri connazionali ben altro giudizio. Se il concetto della vita terrena è più elevato, più alto, e più umano in America che in Italia, non è colpa loro. Siamo noi che scriviamo i libri e le riviste, siete voi che li leggete, quelli cui tocca pensarci. È innegabile che parte della loro miseria è frutto di ignoranza. Ma è certo altresì che la maggior parte dei loro patimenti sono un esercizio di virtù ardua e forte. È bello ragionare di etica sociale chi è sicuro dell'oggi e del domani, di sè e dei suoi.

Dal mio piccolo paese canavesano, partirono il Marzo del 93 per l'America, tre ottimi lavoratori, lasciando a casa, mogli, figliuoli e debiti. Laggiù, appena sbarcati, si allogarono nella miniera di Primerose, in Pensilvania. La paga era buona: sfido! Nessuno del luogo osava più scendere in quei pozzi che già una volta una vena d'acqua aveva allagato, affogandovi dentro gli operai. Ora la vena, saldata, non dava che stille e s'erano ripresi i lavori. I direttori sapevano il pericolo ma, business is business, la duri fin che può. E la durò poco. Il 20 di Aprile, si ruppe un'altra volta la vena, e quanti erano sotto ci rimasero. I miei compaesani erano stati sul lavoro otto giorni; vale quanto dire che non lasciarono un quattrino. Io conosco le loro famiglie e vedo ora di che morte vivono. Mentre stavo descrivendo la disgustosa abbiezione di tanti nostri emigranti, non potevo trattenermi dal pensare che se quei tre infelici avessero avuto tempo di dare ad altri il tristo spettacolo che altri diedero a me, a quest'ora i loro figli e le vedove avrebbero assicurato per la vita, un pezzo di pane.

CAPITOLO VIII.
Chicago e la sua colonia italiana

Quando io giunsi in Chicago, la colonia italiana vi era in gran subbuglio. Un giornalucolo ebdomadario, italiano s'intende, aveva da qualche tempo preso ad avversare il Conte Manassero di Costigliole nostro console e non c'è contumelia che non gli vomitasse contro. Il Manassero non se ne dava per inteso e badava anzi a rattenere lo sdegno che quelle ingiurie sollevavano vivissime nella maggiore e miglior parte della nostra colonia a lui devota ed amica. Ma gli ultimi numeri imputavano al console un fatto determinato e grave. Si trattava della bandiera che è costume inalberare alle finestre dei nostri Consolati nella ricorrenza del 20 settembre. Il giornale, sulla fede di una società operaia, affermava non averla il Console inalberata: parecchie altre società e moltissimi cittadini giuravano di averla veduta. In realtà la bandiera era stata issata fino dal mattino, ma essendosi smosso l'anello a muro che regge l'asta, la si era dovuta levare per saldarlo. Affare di due ore, dopo di che i tre colori risventolarono fino a sera. Parlavano onorevoli testimoni e parlava il muro racconciato di fresco, ma il giornale duro, ripicchiava in nota continua: noi passammo e la bandiera non c'era, non c'era, non c'era; e mentre la voce di quelli non giungeva che alla gente del luogo già edotta dei fatti, l'accusa gazzettiera, a stampa, poteva varcare l'Oceano, arrivare a Roma, e a comodo di qualche deputato dell'opposizione, sollevare interpellanze in parlamento. In questi casi torto o ragione, che ne va di mezzo è il magistrato lontano colpevole, se non di altro, di aver dato noia al ministro. Per ciò, gli amici non so se meglio dire del Console o della verità, mettiamo di tutti e due, deliberarono di opporre alla denuncia del giornale una solenne protesta dell'intera colonia ed a tale intento indissero per la veniente domenica un meeting, anzi un massmeeting che vuol dire un solenne e pieno comizio.

In attesa del grande evento io impiegai i primi giorni della mia dimora in Chicago a veder gente e paese, colla scorta di alcuni cortesissimi nostri connazionali. Della gente del luogo, non conoscevo nessuno. Avevo bensì una lettera per un certo M.r Gustavo Fucks fervente melomane, amantissimo degli italiani, ma l'ottimo uomo stava allora in una sua villa, lontano assai dalla città e dovetti contentarmi di mandargliela per posta. Lo conobbi più tardi in Nuova York, dove, esempio di costumi americani, egli venne apposta da Chicago per assistere alla prima rappresentazione del mio dramma. Tra venire e andare sono tre mila chilometri di viaggio. Arrivato il giorno della recita, ripartì l'indomani poichè mi ebbe fatto una breve visita nella mattinata.

Egli assente, l'altro milione e mezzo di abitanti, mi parvero tutti così affacendati, che stimai bene di non far perdere tempo a nessuno di essi, in conoscenze nuove. La mattina uscivo di buon'ora, curioso di visitare la enorme città che è oggi la seconda e sarà, dicono, fra dieci anni la prima degli Stati Uniti. Ne avevo inteso raccontare e ne avevo letto cose da strabiliare: sapevo che d'anno in anno la popolazione vi cresce di un decimo. Nuova York nel suo complesso non è gran fatto dissimile dalle grandi metropoli d'Europa. In Chicago sapevo fiorire più sincera la vita americana: fabbriche smisurate e vie interminabili, botteghe sbalorditive, assordanti stamburamenti ad uso di richiamo. E poi c'era l'Esposizione della quale già doveva apparire la colossale carcassa fra parchi e giardini incantevoli, bagnati da quel famoso lago Michigan che vantano più vasto dell'Adriatico, più navigato del Mediterraneo e così dolce alla vista e ridente da vincere al paragone quelli dell'Alta Italia e della Svizzera.

Ahimè! Della Esposizione erano appena avviati i lavori di sterro ed il vantato parco ed i giardini mi parvero una bassa e umile cosa. Ma i piani che mi fu dato vedere, tracciavano su quelle bassure un vario ondeggiamento di colli, vi incidevano valloni, gettavano promontori nel lago rompendone le monotone spiagge, insenavano il lago fra le terre, segnavano i limiti di estemporanee foreste, predestinavano insomma quelle plaghe pacificamente mediocri, ad un vero cataclisma tellurico prodotto da forze misurate ed infallibili. Bello sulla carta, io pensavo, ma lavoro di dieci anni. Mi avvidi ben presto come in Chicago dal detto al fatto e dal progetto all'opera poco ci corre e come una fantasiosa strapotenza meccanica vi abbia ridotto l'inattuabile ai soli assurdi matematici.

Ebbi di Chicago due impressioni diverse, una sensuale ed immediata, uscita dalla vista delle cose e delle genti. L'altra intellettuale o graduale, nata di cognizioni, di induzioni e di raffronti. A occhio la città mi parve abbominevole; riflettendoci la riconobbi ammirevole oltre ogni dire. Non ci vorrei dimorare per nulla al mondo; credo che chi la ignora, non conosce interamente il nostro secolo, del quale essa è l'ultima espressione.

Durante il soggiorno di una settimana, io non vidi in Chicago altro che tenebre più o meno fitte, fumo, nebbia, sporcizia, ed una sterminata moltitudine di gente affannata ed accigliata. Fanno eccezione certi remoti quartieri nei quali spira dalle piccole casette e dai minuscoli giardini un'aria tranquilla di soggiorno semi agreste e dove fa non sgradevole mostra una curiosa architettura a sghiribizzi divertente e puerile onde le case sembrano balocchi ad usi di gente ilare e posata che ci vive in assoluto riposo mangiando confetti, dondolandosi sugli immancabili seggioloni a bilico e contemplando oleografie.

Ma da queste inverosimili oasi in fuori, la grassa metropoli mi diede un senso di oppressione così grave che io dubito ancora se oltre le sue fabbriche esistano gli spazi celesti. Era nuvolo? Non lo so dire, perchè il cielo coperto spande una luce eguale e diffusa che non fa ombre, mentre là a seconda delle ore si allineavano lungo le case più fitti tenebrori. E non so nemmeno dire se splendesse una larva di sole perchè la visione delle cose vicine mi giungeva sempre incerta e confusa. Inclino a credere che quello spazio piano color caffè e latte che si stendeva lungo le basse falde della città per la larghezza a occhio di un trecento passi e che andava poi dissolvendosi in un grigione caotico, fosse il lago, ma non potrei attestarlo con sicurezza. Di certo i bastimenti, solcavano piuttosto una densa atmosfera che un piano acquoso.

Ricordo una mattina che capitai sull'alto viadotto di una stazione ferroviaria. Di lassù, la città sembrava covare un suo ultimo inesorabile incendio, tanto era avvolta di fumo. Anche in Nuova York, dal sommo del ponte Brooklyn si vedono salire al cielo a migliaia a migliaia, colonne di fumo: ma l'aria viva del mare e la nitidezza asciutta dell'atmosfera fanno sì che ogni getto fumoso si distingua per molta altezza da tutti gli altri onde tutti prendono un aspetto di vigorìa disciplinata che allontana ogni idea paurosa, mostrandoli effetto di volontà ordinate e sapienti. Là vedevo invece un nebbione grave e rassegato stagnare, nascondendo le proprie scaturigini, sull'immenso ammasso delle fabbriche nere. Pareva uscito da tutte le vie, dai tetti e dalle finestre ricadere in ogni dove come se l'aria intorno lo respingesse. E pareva fumo di incendio covante senza fiamma, anzi peggio che fumo una sorta di filiggine unta. Non deponeva infatti quel polverino secco che si leva poi di sui panni alla prima spazzolata, ma una patina viscosa e penetrante. Forse mi toccò in Chicago una settimana climaterica, motivo per cui non affermo che le cose siano, ma che io le vidi tali e di qui forse nasceva l'aria crucciosa ed ammusonata che leggevo su quasi tutte le faccie. Mi fece senso il notare come, frammezzo a tanta folla, pochissimi mostrassero di conoscersi a vicenda e scambiassero, non pretendo scappellate, ma cenni ed occhiate di saluto. Correvano tutti alla disperata. In Nuova York c'è più gente che in Chicago e non oziosa, eppure avvertivo per le vie la stessa nostra speditiva socievolezza. Là mi pareva che tutti fossero come me perduti, senza compagnia nel formidabile tumulto. O se due persone discorrevano fra di loro, era un parlare in tono di rammarico, con voce bassa e nasale senza la menoma varietà di accenti. Un russare fermo. Dicono che tutti gli americani hanno la voce nasale. Quelli di Nuova York non mi pare od è ben poca cosa, ma dei Chicaini o Chicaesi che sia, si direbbe che la voce esca loro dalle narici e che l'articolazione si faccia nel faringe. È un fatto positivo che moltissimi nasi in Chicago, sono in continua condizione patologica. Ho veduto in molte vetrine certi apparecchi destinati a copertura del naso, sorta di cappucci nasali o nasi finti, ma senza intenzione d'inganno. In opera non ne vidi nessuno. Ottobre a quanto pare consente ancora, anche ai più delicati, l'uso del naso naturale, ma il regno degli artificiali doveva essere prossimo e non mi so perdonare di averne perduto lo spettacolo.

Il carattere principale della vita cittadina a Chicago è la violenza. Tutto vi è condotto alle estreme espressioni: le dimensioni, il movimento, i clamori, i rumori, le mostre delle botteghe, gli spettacoli, lo sfarzo, la miseria, l'attività, la degradazione alcoolica. Certi manifesti teatrali raffigurano a colorì ed a grandezza naturale tutti quanti gli attori di una compagnia, ed in eguali proporzioni le scene principali di un dramma. Passa per le vie una musica militare seguita da un drappello di generali in gran divisa, la bandiera che li accompagna, vi annunzia una nuova macina per il grano. Quel carrozzone, imperiale e reale, tutto bianco lucente a raggi d'oro che rumoreggia al trotto di quattro giganteschi cavalli bianchi, piumati ed infiorati, trasporta le carni sanguinolenti uscite dagli squartatoii: Armour and Comp. – Vedo ancora nel bel mezzo di un marciapiede, posata su di una colonna mozza, una boccia di cristallo, che le mie braccia non potrebbero cingere, piena fino all'orlo di denti anglo-sassoni. Il corredo, a farla misera, di ventimila mandibole. Tutti strappati dal dottor tale, diceva la scritta, il quale dimora qui contro. Già fu narrata la bella trovata di quel tappezziere di Chicago, il quale promise di regalare il fastosissimo mobilio di una camera nuziale a quei due fidanzati che avessero consentito di sposarsi nelle sue vetrine. Li trovò, fu allestita la scena, intervenne un pastore autentico, et fuerunt coniuges.

In una bottega di parrucchiere ho contato cinquanta seggioloni fissi dirimpetto ad altrettante specchiere, e serviti da altrettanti Figari. Il giorno del mio arrivo mi furono mostrati i ruderi ancora fumanti di una casa bruciata la notte innanzi. Il giorno della partenza (e dimorai in Chicago una sola settimana), vidi, in quello stesso luogo l'ossatura ferrea di un nuovo edificio, già levata all'altezza di un terzo piano e già compiuti i palchi d'ogni piano. Lo sgombero dei materiali inservibili, e la fornitura dei nuovi, seguono senza riguardi per il vicinato. Purchè restino libere le doppie rotaie dei tram, il suolo pubblico appartiene al primo occupante. L'urgenza della vita non consente delicatezze edilizie. Nel crocicchio delle vie, sui canti delle case, s'incontrano montagne di pietre tagliate, di mattoni, di travi e di regoli di ferro, rovesciati là nella furia dello scarico, e lasciativi finchè il graduale consumo della fabbrica vicina lo richieda. Al disagio dei passanti non pensa nessuno; si capisce che senza far teorie e per mero intuìto, ognuno sacrifica le piccole comodità individuali, al libero esercizio delle grandi forze meccaniche. Chicago non sarebbe la Città fungo (Mushroom City) come la vantano gli abitanti, se, come avviene presso di noi, le tutele minute dell'individuo, distogliessero dalla produzione e dallo accrescimento della ricchezza, una gran parte della attività collettiva. Se le stazioni ferroviarie dovessero, oltre il nucleo dell'edificio centrale, cingere con muri palizzate estesissimi terreni, intralciando le comunicazioni fra i diversi quartieri, non vi sarebbero così frequenti come il bisogno lo richiede. Se il correre di un treno fra l'abitato, vi inducesse il nostro preventivo apparecchio di sbarre e di catene e la vigilanza di mille guardiani, quel gran corpo non sarebbe così continuamente rissanguato. Nei passaggi a livello fra le case e fra il movimento urbano, una gran scritta colla parola Pericolo (Danger) ammonisce la gente di guardarsi attorno. Pensi ognuno a sè stesso. Il treno irrompe, scampanando come una chiesa nei giorni festivi, nulla frenando la sua corsa. La vita e la salute sono per chi ha occhi e mente.

Oh lo scampanare di quei treni! Le finestre della mia camera all'Hotel Richelieu davano, a quanto mi fu detto, sul lago, ma fra l'albergo ed il lago, correvano non so se venti o trenta binari di ferrovia. Ho voluto contare quanti treni passassero in un'ora. Ne ho contati 38, e tutte le ore si somigliano e la notte somiglia il giorno ed è un martellare a doppio dove il suono che va perdendosi, dall'un lato, preludia a quello che ingrossa dall'altro, ed ogni campana ha il suo timbro, ed ogni battocchio il suo ritmo, onde vi lascio pensare, la notte, i miei rendimenti di grazie.

Ed i tram? Ve n'ha d'ogni sorta e sugli stessi percorsi. A cavalli, a vapore, a trazione funicolare, a forza elettrica attinta ai fili aerei. Il loro movimento giornaliero è calcolato a due milioni di viaggiatori. Chi attraversa le vie principali, anche nei rari momenti che non ne passa nessuno, sente stridere sotto i piedi, per certe scanellature ferrate del selciato, le chilometriche catene d'acciaio che li trascinano da lungi. Dove la via scavalca su ponti giranti i canali navigabili che immettono il lago nella città, il tram elettrico s'interra come una talpa in tunnel profondissimi. La discesa comincia di lontano; il mezzo della via va sprofondandosi fra muraglioni sempre più alti, che a grado a grado le scemano la luce del giorno. Quel crescente crepuscolo vi mette in pensiero; la carrozza non ha apparecchi d'illuminazione e ci siete pigiati fra gente ignota e varia. Dal finestrino anteriore vi appare giù in fondo, la bocca nera del tunnel. Sarà dunque la tenebra chiusa? Ma, all'ultimo barlume di cielo ed al primo echeggiare della volta imminente, raggia intorno un fulgore che vi accieca. Il braccio aereo del tram, quello stesso che deriva moto dal filo sospeso, ne induce la corrente che va ad accendere i globetti fissi nelle pareti e a mano a mano che procede accende d'intorno e spegne dietro; onde un retrogrado potrebbe dire che porta bensì luce, ma lascia tenebre, se non che la luce è buona dove occorre e la tenebra che non nuoce si chiama risparmio di forza. Ad ogni modo, ed a quando io ne vidi in Chicago, quel tram fa più chiaro che madre natura, perchè quando sbuca all'aperto allora lo direste entrato nel chiuso.

La straordinaria abbondanza e la comodità dei tram e degli omnibus ed un poco anche i pessimi selciati, sono cagione che s'incontrino poche vetture di piazza e pochissime padronali. I piccoli veicoli non si confanno a quella enormezza di vita irruente. La frequenza degli ostacoli irremovibili li costringe al passo e la rete delle rotaie e le profonde affossature del suolo li sconquassano.

Poichè si discorre di veicoli non so tacere di un carro a mano, che mi occorse di vedere più volte, destinato a propaganda igienico-religiosa. Dico a mano perchè gli mancava il timone ed era spinto a forza d'uomo, ma un cavallo ci avrebbe fatto la schiuma. Era una specie di palco senza sponda, posato su quattro ruote piccole e nascoste, che portava un armonium assai voluminoso, uno sgabelletto, e cinque leggii massicci di ferro, reggenti, quello di mezzo un missale e gli altri musica. Andava intorno sull'imbrunire e procedeva rasente il rialzo dei marciapiedi. Sulle prime credetti una mascherata. Innanzi al carro, camminava un branco di gente, in gran parte negri, vestiti con panni luridi, color bruno, i pantaloni corti, ed il cappello a staio. I due primi reggevano teso fra due aste un logoro stendardo dov'erano scritti versetti biblici; degli altri chi batteva tamburelli, e chi salmodiava. Sul carro in moto, non c'era anima viva: gli attori di quella scena girovaga, ne erano ad un tempo i motori.

Come il corteo giungeva dirimpetto uno spaccio di liquori, ad un ristorante non astemio, i porta stendardo piantavano l'asta, i moretti facevano cerchio ed i sei che stavano al tiro ed alla spinta, tre davanti e tre di dietro, saltavano sul palco. Questi erano tutti di razza bianca, faccie sospette ed arie compunte, lunghi soprabiti quondam neri, cappello a staio dal pelo arruffato. Uno sedeva all'armonium, un secondo sfogliava il missale, gli altri intonavano il canto fermo. Prima veniva la lettura di un passo morale, poi una ondata d'accordi e poi la lettura, i suoni ed il canto congiuravano insieme ad una dissonanza stridente. Il tutto in tono basso dimesso. Finita la salmodia, il corteo s'avviava verso altri luoghi di perdizione alcoolica. Predicano ben inteso al deserto; la gente passa, non guarda, non approva e non ride, i bevitori non se n'hanno per male, e gli apostoli peripatetici, non sembrano avvertire nè l'indifferenza della folla, nè la folla istessa. A che mirano? Che sperano? Gli uni li fanno santi e gli altri pazzi; ma questo avviene di tutte le imprese insolite e volte ad intenti remoti. A vederli tanto incuranti di non far colpo, li sospettai salariati; mi fu assicurato che non sono. Ad ogni modo la trovata e la sua attuazione hanno pure quel carattere estremo che ho notato dianzi. E lo stesso carattere estremo ha il vizio che vorrebbero e non poterono fin'ora nè correggere nè attenuare.

Ho già descritto l'abbrutimento alcoolico dei troppi americani, ma notai in Chicago e pochi giorni appresso in Cincinnati, un fatto che mi pare significativo in sommo grado. All'uscita dei teatri, la folla mascolina si riversa volontieri nei Baar, a bere il Whisky od il Cocktail ed a rosicchiare a stimolo della sete, certe croste di pane o bocconi di cacio fresco, serviti gratis agli avventori. Tra lo sgretolare quei cibi duri e le reiterate bevute, vien fatto di doversi forbire le labbra. Orbene, molti Baar e non degli infimi in Chicago ed in Cincinnati, in luogo di dare ad ogni avventore che ne faccia richiesta quel tovagliolo frangiato, che usa presso di noi, dispongono un servizio collettivo di forbitura il quale svoglierebbe della nettezza, il gatto più leccato che sia al mondo. Lungo tutto il banco di servizio corre dalla parte del pubblico, a mezza altezza, un bastoncino tornito retto ai capi e nel mezzo da ganci metallici di squisita fattura, e pendono, per anelli scorrenti, dal bastoncino, più tovaglioli da tavola, i quali sono rinnovati ogni giorno, e chissà forse due volte il giorno, ma non più. A questi, come capita, i bevitori si asciugano i baffi e forbiscono la bocca. Bocca baciata rinnova come fa la luna, dice il Boccaccio, ma tovaglia così baciata, non rinnova e serba il segno. Fatto sta che la sera, tra il colore, l'odore ed il madore, quelle tovaglie sono parlanti e a chi le adopera pareggiano le partite del dare e dell'avere, anzi credo che rendano più che non ricevono. Ebbene, ho veduto dei signori in tuba, col pastrano color nocciuola, i pantaloni debitamente rimboccati all'inglese ed i solini irreprensibili, recarsele alle labbra, come se fossero pur ora uscite di bucato.

Alla stregua dunque delle sensazioni immediate, Chicago non è piacevole, e chi ci arriva diritto d'Europa, se gli capita addosso il nebbione fumoso che è toccato a me, la trova abbominevole addirittura. Ma la misura che ne trae delle energie volitive, intellettuali e fisiche di cui l'uomo è capace, la nozione di un assetto sociale semplice e progressivo, la vista di tante vie aperte alla operosità umana, lo spettacolo di tanta ricchezza naturale e del suo moltiplicarsi nel lavoro, lo conducono insieme ad un concetto così chiaro, così largo e così poderoso della vita attuale, e ad un così sicuro presentimento di quella avvenire che gli fanno ben presto scordare il disgusto sofferto, se non arrossirne.

Dal momento che ne sono partito, Chicago è venuta sempre più ingrandendosi e nobilitandosi, nella visione ideale che ne serbo. Ricordo i particolari disagi e tutti i minuti fatti intorno ai quali si esercitava la mia critica vanitosa di raffinato, ma nella impressione generale che mi resta della grande città questi non trovano modo di intervenire. Il nome di Chicago non me li richiama alla mente e per scriverne ho dovuto cercarli di proposito nei ripostigli della memoria.

Se le reminiscenze classiche si potessero applicare ad un popolo sciolto dagli impacci tradizionali, vorrei dire che Chicago mi diede l'idea di una romanità meno formale della nostra antica, e di tanto più larga di quanto la terra è cresciuta da Roma in poi. Già i suoi abitanti hanno un acutissimo orgoglio cittadino e volentieri daterebbero l'era presente dalle prime origini della città che ancora qualche testimonio vivente può ricordare. Come gli americani in generale si tengono da più degli europei, così gli abitanti di Chicago si tengono da più di ogni altro americano; orgoglio che attirò su di essi l'antipatia delle città ormai storiche degli Stati Uniti. New-York maschera con un ostentato disprezzo l'inquietudine che le cagiona la sua rivale dell'Ovest alla quale contese per alcun tempo e dovette alla fine cedere la sede della Esposizione Colombiana. Chicago avverte queste gelosie inquiete e s'industria di meritarle sempre più. Essa ricava dalla fede imperterrita nel proprio destino, un sentimento di dignità civica che si direbbe uscito da fasti secolari.

Ne citerò un esempio d'indole quasi letteraria.

Tutti ricordano una sommossa di anarchici seguita in Chicago parecchi anni or sono. Il governo dell'Illinois al cui stato appartiene Chicago, non ci andò con mano leggiera: per quattro policeman uccisi, quattro anarchici salirono le forche. Ma non bastò la punizione dei colpevoli e si volle onorare con un monumento le vittime del dovere. Noi facciamo sempre le statue «ad personam» ed abbiamo inoltre fissata una specie di gerarchia statuaria che non consente bronzi nè marmi ai gradi minori. Là, nel Lincoln park dove sorge il monumento al generale Grant, fu eretta, poco discosto da quello una statua raffigurante l'infimo fra gli ufficiali della legge: il policeman.

Il piedestallo reca la data della sommossa e questa iscrizione veramente romana:

IN THE NAME OF THE PEOPLE OF ILLINOIS
I COMMAND PEACE
NEL NOME DEL POPOLO DELL'ILLINOIS
IO COMANDO PACE
* * *

Da quando sono venuto dicendo parrebbe uscirne che a Chicago non torni proprio il conto di andarci, perchè le impressioni sensuali ed immediate ne sono sgradevoli ed alla sua nozione intellettiva devono bastare i molti libri che ne trattano in disteso. A me non preme di mandarci nessuno, ma ognuno vede meglio coi suoi occhi che con quelli degli altri. Certo i libri che ci si mettono di proposito, raccolgono più notizie che non possa raccogliere il comune dei viaggiatori, ma dalla vista delle cose reali ognuno di noi, per un processo inconsapevole, trae per l'appunto quelle notizie, che meglio quadrano al nostro ingegno e lo mettono in moto. Il libro deve di necessità esporre i fatti in ordine successivo e li espone poi sempre in quella mostra che meglio torna ai ragionamenti dell'autore. La realtà li colloca nel loro ordine simultaneo e voi ci ragionate di vostro.

I libri mi avevano raccontato di Chicago assai più cose che io non ci abbia veduto e molte maraviglie che non ebbi nè modo nè voglia di accertare. Imparerete dal libro che la popolazione salì in sessanta anni da cento abitanti ad un milione e mezzo, che nell'incendio del 1871 andarono distrutte 17,500 case, che i capi di bestiame uccisi nell'annata, ammontano a dieci milioni, e ad un miliardo le scatole di carne conservata, senza contare quella spedita in barili; che vi arrivano in media ogni giorno cento e settantacinquemila forestieri. Ma quando leggete che un livello di un intero quartiere della città, fu portato per risanarlo, cinque, sei, otto, metri, più alto che non fosse, la nozione ideale non è, e di gran lunga, comparabile a quella che esce dalla misura dei luoghi, dalla vista delle fabbriche. Le quali furono sollevate di peso, e tenute in bilico, fino a che il suolo salisse a ricaricarsele. E scommetto che chi legge si rappresenta qui delle casette a due piani e chissà non di legno. La mente per darsi pace, se la lasciate fare, ricorre al più facile. Bisogna vedere quali moli fossero e di qual peso, e come intrecciate, ed in quante ressero alla prova, o meglio ci furono messe, perchè non ne andò sfasciata, nè guasta neppur una.

Così quando il Reclus registra i 471 chilometri quadrati di terreno attribuiti per legge dello Stato al territorio municipale di Chicago, ed aggiunge che tale immensa distesa non è però ancora interamente fabbricata, al pensiero del lettore si affacciano i famosi piani d'ingrandimento delle nostre città, destinati a giacere anni ed anni lettera morta negli archivi municipali. Ma chi percorra quelle plaghe scoperte, vi trova segnata la misura di ogni singolo edificio, e visibilmente tracciate le vie di là da venire, con stecconati e marciapiedi, e scritto su tavole affisse il nome ed il numero di ogni via, onde la città promessa gli si rappresenta imminente, sì che egli può imaginarne le forme e l'ordinamento e trarre dalla visione di un'opera appena concepita e già simultaneamente in mille punti diversi avviata a compimento, la nozione di una attività senza esempio.

Per finirla, noi impariamo dai libri, che Chicago è ad un tempo, il maggiore emporio che sia al mondo di ricchezze naturali ed uno dei maggiori centri di produzione industriale, ma chi non ne vide in movimento le genti e le cose, non può comprendere come quei due elementi della prosperità sociale, vi si compenetrino di continuo in modo indissolubile. Nelle altre città, vi sono quartieri diversamente improntati dalle diverse funzioni della vita. Qua i depositi di mercanzie ed il loro movimento, là il lavoro industriale, altrove il traffico del denaro, o i minuti spacci, e ristretti in certi quartieri, il lusso, l'eleganza, e quanto riflette le diverse maniere di godimento. Il forestiere che non muovono speciali curiosità, dimora e s'aggira per lo più in questi ultimi rioni privilegiati e cosmopoliti, ai quali soli è applicabile la sentenza: tutto il mondo è paese. E perchè le cose non vanno a lui, egli le ignora, o se le cerca, ne riceve altrettante conoscenze separate, che la ragione potrà in seguito coordinare, ma che male combinano insieme in un concetto complessivo.

Ben altro segue in Chicago, dove tutta la vita e tutti i modi e le ragioni della vita, sono ad ogni momento ed in ogni luogo, e quasi nella stessa misura, presenti ai sensi del visitatore. Non occorre cercare, e non è possibile non vedere. Non vi sono quartieri privilegiati, se non i più eccentrici cui ho accennato di sopra, dati alle dimore riposate ed agli ozii domenicali. Fuori di questi, dovunque andiate, i carri mastodontici, che fanno tremare le case, il fumo che vi accieca, i fetori che vi tolgono il respiro, gli ingombri di mercanzie che vi sbarrano il passo, le montagne di sacchi ammucchiati nei piccoli cortili, il trambusto degli scarichi, la violenza dei facchini, i fischi e lo scampanare di cento convogli interminabili, la furia della gente, vi comandano insieme di avvertire l'azione contemporanea e la complessità formidabile di tutte le forze terrestri ed umane. E mentre concepite così quale posto tenga, nella vita del mondo, questa città nata ieri, sentite sorgere in voi un sentimento che non è di sola stupefazione alla vista di tanto lavoro e di tanta ricchezza, ma anche di rispetto per le loro legittime applicazioni e derivazioni. I quartieri bancari di Parigi, Londra, New-York, ci richiamano in mente la definizione che il Dumas figlio diede degli affari «Les affaires c'est l'argent des autres» dove è inclusa l'idea delle finzioni e delle trappolerie onde nascono le fortune estemporanee.

In Chicago, anche un uomo ignaro affatto, come io sono, della scienza economica, avverte la probità di una ricchezza fondata sulla presenza corporea delle cose utili all'uomo. Si capisce che l'attività umana, vi è tutta intesa ad accrescere il valore reale delle cose e che le ricchezze individuali procedono da veri contributi dati alla prosperità universale.