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Buch lesen: «Il Quadriregio», Seite 8

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CAPITOLO IV

Dove trattasi del limbo e del peccato originale.

 
        Uscito er'io della cittá del foco
        dietro a mia scorta, ch'andai seguitando;
        e, poi che insú andato fui un poco,
 
 
        la domandai e dissi: – Dimmi quando
    5 noi perverremo ove Satán dimora,
        che dica questo inferno al suo comando. —
 
 
        Ed ella a me: – Insú andando ancora,
        convien che noi passiam duo altri cerchi,
        'nanzi che d'esto inferno usciamo fòra.
 
 
   10 Il limbo è 'l primo che convien che cerchi;
        un altro poi convien che ne trapassi,
        'nanzi che su nel mondo tu soverchi. —
 
 
        Ben sette miglia insú movemmo i passi,
        e trovammo una porta, ov'era scritto
   15 nell'arco suo, ch'avea di smorti sassi:
 
 
        «In questo limbo, ovvero in questo Egitto,
        è pena privativa e sol di danno,
        e nullo senso in questo loco è afflitto.
 
 
        Dentro è la gran prigion di quel tiranno,
   20 che tenne giá gli amici da Dio eletti
        e vinse Adamo a tradimento e inganno».
 
 
        Per legger questi detti io mi ristetti
        presso alla porta lí, ch'era serrata;
        e, poich'io gli ebbi intesi e tutti letti,
 
 
   25 Minerva con la man chiese l'entrata.
        Non so chi fusse il portinar cortese,
        che ratto aprio e diedene l'andata.
 
 
        Quand'io fui dentro, vidi un bel paese,
        di fiori e d'arboscelli e d'erbe adorno,
   30 sí come Tauro fa nel suo bel mese.
 
 
        Ma qual è luce al cominciar del giorno,
        tal era quivi; e per mezzo la valle
        eran fantini ed anche intorno intorno,
 
 
        che su per le viol vermiglie e gialle
   35 givano a spasso, e alcuni dietro ai grilli,
        dietro agli uccelli e dietro alle farfalle.
 
 
        Ed una schiera, ch'eran piú di milli,
        vedendo noi, insieme si ristâro
        ed ammirârno timidi e tranquilli.
 
 
   40 – O fanciulletti, a cui ritorna amaro
        il peccato d'Adamo, ed a cui costa
        il non aver baptismo tanto caro,
 
 
        al mio domando fatemi risposta:
        perché iustizia per altrui offesa
   45 vostra innocenzia in questo loco ha posta? —
 
 
        Quando questa parola ebbono intesa,
        suspiron tutti con dolor, che viene
        di mezzo il cor, che gran doglia appalesa.
 
 
        Poi un di loro a me: – Se noti bene,
   50 io ti dichiarerò, sí come estimo,
        perché giustizia qui chiusi ne tiene.
 
 
        Quando Dio fece il nostro padre primo,
        gl'impeti rei ovver concupiscenza
        non volle fusse in suo corporal limo.
 
 
   55 E questo grande dono ed eccellenza
        ebbe per grazia e non giá per natura,
        e sol tenendo a Dio obbedienza.
 
 
        E cosí l'alma sua splendente e pura
        Egli creò e di iustizia santa,
   60 formata alla sua immago e sua figura;
 
 
        ma di questa eccellenza e grazia tanta,
        il Creator iustamente privollo,
        quando la vile e testé nata pianta
 
 
        incontra al suo Fattor alzò lo collo,
   65 ed a subgestion del mal serpente
        volle saper quanto sa il primo Apollo.
 
 
        E, perché non fu a Dio obbediente,
        a lui la carne diventò rubella
        contra lo spirto e legge della mente.
 
 
   70 Benché sia l'alma da sé pura e bella,
        niente meno quand'ella il corpo avviva,
        per due cagion diventa brutta e fella.
 
 
        Prima è che nasce di iustizia priva;
        l'altra è che quand'ell'è al corpo unita,
   75 nella bruttezza sua si fa cattiva;
 
 
        ché vorrebbe ire al bene ed è impedita
        dal corpo, collo qual ella sta insieme,
        ed al mal far la tira ed anche invita.
 
 
        Questa bruttura va di seme in seme
   80 in tutti quelli che nascon d'Adamo,
        ch'ogni uman corpo da quel primo geme.
 
 
        Per questo infetti in questo loco stiamo
        dannati pel peccato originale,
        ché 'l mal della radice è in ogni ramo.
 
 
   85 Oh lassi noi, ché l'acqua baptismale,
        per la qual l'uomo a Dio figliol rinasce,
        sanati arebbe noi da questo male!
 
 
        Se non che noi dal ventre e dalle fasce
        di nostre mamme la morte ne tolse
   90 e menonne quaggiú tra queste ambasce. —
 
 
        Ciascun di loro al ciel la faccia volse,
        al suon d'este parol, con sí gran pianti,
        che facean pianger me: sí me ne dolse.
 
 
        Addomandato arei di loro alquanti
   95 di quai parenti stati eran figlioli,
        se non che ratto mi sparîr dinanti.
 
 
        Parecchie miglia poi andammo soli,
        sinché trovammo grandissima rupe,
        alta vieppiú che nullo uccello voli,
 
 
  100 ch'avea le sue caverne oscure e cupe,
        sí come quando è sí buia la notte,
        che par che gli occhi riguardando occúpe.
 
 
        Trovammo lí sette gran porte rotte,
        tutte di rame, e di ferro il verchione,
  105 le qua' serravan giá quelle gran grotte.
 
 
        Palla mi disse: – Qui 'n questa pregione
        il drago Satanasso giá ritenne
        l'anime circumcise, elette e buone,
 
 
        sinché 'l Figliol di Dio su dal ciel venne
  110 e per la colpa delli suoi amici
        pagò il bando e la morte sostenne.
 
 
        Allor ardito e con splendor felici
        venne quaggiú vittorioso e forte
        contra Satán e gli altri suoi nemici,
 
 
  115 e disse a lor: – Levate via le porte:
        traete fuor la mia turba fedele,
        che menar voglio alla celeste corte. —
 
 
        Allor Satán, omicida crudele,
        a lui s'oppose e cominciò la guerra,
  120 come giá fece contra san Michele.
 
 
        Puse le rene lá dove se serra;
        ma Cristo lui e 'l catarcion d'acciaio
        e queste porte allor gettò a terra.
 
 
        Quando in la grotta entrò 'l lucido raio,
  125 Adamo disse: – Questo è lo splendore,
        che mi spirò in faccia da primaio.
 
 
        Venuto se', aspettato Signore:
        dal petto, dalle mani e dalle piante
        il sangue hai dato in prezzo del mio errore. —
 
 
  130 L'anime a lui amiche tutte quante
        trasse del limbo l'alto Emanuél,
        vittorioso lieto e triunfante.
 
 
        Adamo ed Eva e 'l lor figliolo Abél,
        Seth e Noè, che fece la santa arca,
  135 Abraám, Isac e ancora Israél
 
 
        e Moisés e ciascun patriarca
        e David re e tutti li profeti
        menò al cielo, ov'è 'l primo Monarca. —
 
 
        Ed io a lei: – Li saggi e li poeti
  140 sonno egli qui? e gli antichi romani?
        o sonno in lochi piú felici e lieti? —
 
 
        Ella rispose: – In questi prati vani
        non son cotesti, che lor alti ingegni,
        come giá dissi, han lochi piú soprani.
 
 
  145 Virtú e fama loro ha fatti degni
        a star con Marte ed a star con le muse
        e con Apollo in piú splendenti regni. —
 
 
        Poscia la man deritta alla mia puse,
        trassemi per la porta, onde mi mise;
  150 e, ratto ch'io fui fuora, ella si chiuse.
 
 
Cosí dal tristo limbo mi divise.
 

CAPITOLO V

Come l'autore trova certe anime, che stavano penando presso al limbo.

 
        Appresso al limbo, intorno e in ogni canto
        son gran montagne selvagge e spinose
        ed aspre sí, che mai le vidi tanto.
 
 
        Ed anime stan lí, che van penose
    5 intorno errando per quel loco incolto
        tra rovi e spin, che mai producon rose.
 
 
        E, perch'è quivi l'aer grosso e folto,
        io non scorgea alcun, bench'io mirasse,
        tanto che 'l conoscesse ben nel volto.
 
 
   10 Però Minerva assentí ch'io andasse
        ivi tra lor e, se trovava alcuno
        conosciuto da me, ch'io gli parlasse.
 
 
        Allor me misi tra quell'aer bruno
        e tra gli sterpi, ed acuto mirai,
   15 tanto che l'occhio mio ne conobbe uno.
 
 
        – O anima gentil, che tanto amai,
        'nanzi che 'l corpo ti lassasse sola,
        perché tra questi lochi asperi stai?
 
 
        Son qui i compagni della prima scola?
   20 è qui Arnoldo ed Agnolo da Riete?
        Potrei parlar ed udir lor parola? —
 
 
        Rispose a me con sembianze non liete:
        – Accorso e gli altri due, che tu m'hai detti,
        son fuor d'inferno in piú alta quiete.
 
 
   25 Tra questi asperi luochi siam ristretti
        quei che tu vedi, e tra montagna oscura,
        ché su del mondo non uscimmo netti;
 
 
        ché l'etá pueril, ch'è da sé pura,
        ora è dal mondo rio cosí corrotta,
   30 ch'è piena di malizia e di bruttura,
 
 
        ed in tutti que' vizi è mastra e dotta,
        che la natura a quell'etá occulta,
        e senza possa col desío n'è ghiotta.
 
 
        'Nanzi che alcun di noi all'etá adulta
   35 venuto fusse, ordinò l'alto Dio
        che nostra carne su fusse sepulta.
 
 
        Se tratti non ne avesse il Signor pio
        di quella vita breve e che sta in forsi,
        tanto ne arebbe infetti il mondo rio;
 
 
   40 ché noi saremmo in maggior colpe corsi,
        e poi puniti in piú acerbo loco
        e da piú pena in questo inferno morsi.
 
 
        Per la montagna ingiú scendendo un poco,
        i figli stan di quelle ree contrade,
   45 sovra li qual Dio piovve solfo e foco.
 
 
        Se fussono venuti a piena etade,
        sarebbon in piú colpa ed in piú duolo:
        adunque dar lor morte fu pietade.
 
 
        E lí con loro sta 'l picciol figliolo,
   50 che Gregor dice che nel sen paterno,
        Dio biastimando, lasciò 'l corpo solo.
 
 
        In piú penoso loco sta in inferno
        chiunque a far male alcuno induce o tira
        o non corrige, quando egli ha 'l governo.
 
 
   55 Quel loco è lí e quel padre martíra,
        a cu' il figliol co' denti troncò il naso,
        ascondendo nel bascio la iusta ira. —
 
 
        Io credo che sarei con lui rimaso,
        se non che Palla: – Assai – disse – hai veduto:
   60 vedi che 'l sole omai giunge all'occaso.
 
 
        Sotto i piè nostri è giá Schiron venuto:
        vedi che 'l tempo corre e non si folce
        e non s'acquista mai, quand'è perduto. —
 
 
        Quanto con lui lo star mi parve dolce,
   65 tanto da lui partir mi fu amaro;
        quand'ella disse: – Al venir ti soffolce. —
 
 
        Quivi lassai il mio amico caro,
        figliol di Senso, il perugin Batista,
        che 'l mondo il fece infetto, ch'era chiaro.
 
 
   70 Di gran piatá avea carca la vista,
        quando Palla mi disse: – Perché 'l viso
        porti tu basso? Or che dolor t'attrista? —
 
 
        Ed io a lei: – Perciò che m'hai diviso
        da colui con ch'i' stava, o sacra dea,
   75 e 'l suo dolce parlar anche hai reciso.
 
 
        In chiaro e bel latino a me dicea
        che Dio la morte acerba altrui permette,
        perché innocenza non diventi rea. —
 
 
        Ella rispose: – E perché sian subiette
   80 a lei tutte l'etadi e da' mortali
        in ogni loco ed ogni ora s'aspette;
 
 
        e perché son cresciuti tanto i mali,
        che al vizioso sol peccar non basta,
        se nel suo vizio molti non fa eguali.
 
 
   85 Come il fermento corrompe la pasta,
        e l'altre poma un sol fracido melo,
        cosí la prima etá l'altra poi guasta.
 
 
        Questa è l'iniquitá e 'l grande scelo
        far rio altrui e sé tanto peggiore,
   90 quanto s'appressa piú al canuto pelo.
 
 
        Però provvede Dio che alcun si more
        in quell'etá, che non è d'anni piena,
        perché malizia non gl'imbrutti il core.
 
 
        E forsi che il morir tolle la pena,
   95 ché destinata morte è forse impiastro
        ad altri mali, a che fortuna il mena.
 
 
        State contenti a ciò, che fa quel Mastro,
        che regge il mondo e sa il come e 'l quando
        e dispon voi sí come in cielo ogni astro. —
 
 
  100 Poscia tacette, ed io gli fei domando
        dicendo: – O dea, un dubbio, il qual or penso,
        la mente mia non vede, in lui pensando:
 
 
        come il dimòn, che non ha corpo o senso,
        dal foco corporal ovver dal ghiaccio
  105 in questo inferno puote esser offenso? —
 
 
        Ed ella a me: – A molti ha dato impaccio
        il dubbio, il qual il tuo parlar mi dice:
        ma io dichiarerò quel che ne saccio.
 
 
        Sappi ch'amor è la prima radice
  110 d'ogni allegrezza, e l'odio è fundamento
        di ciò che attrista ovver che fa infelice.
 
 
        Però alcun voler, quand'è retento
        d'andar a quel ch'egli ama o che si toglia,
        quanto piú l'ama, tanto ha piú tormento.
 
 
  115 Sappi ancor ben che quanto piú alla voglia
        è odioso quel che la ritiene,
        tanto piú se n'affligge e piú n'ha doglia.
 
 
        Se queste mie premesse noti bene,
        comprenderai il foco, onde si duole
  120 il dimonio in inferno e le sue pene,
 
 
        ché non puote ir dov'ama e dove vòle,
        e vedesi in prigione e fatto sozzo,
        libero prima e piú bello che 'l sole.
 
 
        E' stava in cielo, ed ora sta nel pozzo
  125 di tutto il mondo e vede ogni suo velle
        ed ogni suo desio essergli mozzo.
 
 
        Come superbo, estima che le stelle
        reggere debbia ed essere il sovrano,
        fatto e creato tra le cose belle.
 
 
  130 E, bench'egli dal ghiaccio e da Vulcano
        sensualmente non possa esser leso,
        perché da lui è ogni senso strano,
 
 
        niente meno dal corpo egli è offeso,
        perché a quel corpo, ch'era a lui subietto,
  135 ora subiace e sta dentro a lui preso.
 
 
        E non è maggior onta ovver dispetto,
        che da quel servo, ch'è avuto in balía,
        esser signoreggiato ovver costretto.
 
 
        E se per arte di nigromanzia
  140 il demòn si costrenge ed è legato,
        ben lo pò far piú alta signoria.
 
 
        E perché in ogni modo, in ogni lato
        e' cerca di fuggir, quinci argumenta
        che dal corpo, ove sta, egli è penato.
 
 
  145 Nell'aer sopra lí, dove diventa
        folgore lo vapor, molti ne stanno
        e molti fra la gente, ove si tenta.
 
 
        Ma nell'ultimo dí dell'ultim'anno
        tutti in inferno seranno serrati,
  150 nel gran supplicio dell'eterno affanno. —
 
 
        Noi eravamo insú tanto montati,
        che, nove miglia piú andando sopre,
        suso nel mondo seriamo allitati,
 
 
perché quel loco solo un cerchio il copre.
 

CAPITOLO VI

Come l'autore, uscito dall'inferno, venne nel mondo nell'emisfero di Satan.

 
        Non è nella riviera genovese,
        ovver tra gli Alpi freddi della Magna,
        né trovariasi mai 'n altro paese
 
 
        aspera tanto e repente montagna,
    5 quant'una, che trovammo sí alpestra,
        che fe' maravigliar la mia compagna.
 
 
        Mirando intorno, io vidi una finestra
        a piè del monte con questa scrittura,
        la qual legger mi fe' la mia maestra:
 
 
   10 «Voi, che salir volete su all'altura
        e che volete uscir di questo fondo,
        intrate dentro questa buca oscura.
 
 
        Qui è la via che mena suso al mondo:
        chi salir vuol, convien che pria qui entre
   15 e saglia poi, girando suso a tondo».
 
 
        Minerva poi mi mise dentro al ventre
        del duro monte, e forse un miglio er' ito,
        che dietro a lei insú salendo, mentre
 
 
        io venni manco, caddi tramortito
   20 e ratto al ciel, sí come Ganimede
        quando Tonante fu da lui servito.
 
 
        Lí mostrato mi fu come procede
        da Dio l'anima nostra, allora quando
        al corpo organizzato la concede.
 
 
   25 Infundendola Dio 'nsieme e creando,
        non di materia, ma celeste forma,
        l'unisce al corpo e dona al suo comando.
 
 
        Poi torna' in me com'uom che prima dorma;
        e, su levato, presi il dur viaggio
   30 dietro alla dea, de' piè seguendo l'orma.
 
 
        Sei miglia er' ito, quando vidi il raggio
        del chiaro sole scender d'una buca;
        onde Minerva a me col parlar saggio:
 
 
        – Insin lassú convien che ti conduca
   35 e per quel foro ti convien uscire,
        se vuoi vedere il sole e che a te luca. —
 
 
        Allor piú ratto cominciai a salire,
        ché di veder il sole avea disio;
        ed ella mi spronava col suo dire.
 
 
   40 Ma dicea meco: – Or come potrò io
        caper pel foro di quel sasso fesso,
        che non è una spanna, al parer mio?
 
 
        E, quando fui a quel pertuso appresso,
        vi pontai 'l capo per la voglia presta,
   45 tanto che un poco fòra l'ebbi messo.
 
 
        E poscia ne cavai tutta la testa;
        poi la persona mia sospinsi tanto,
        ch'io n'uscii nudo senz'alcuna vesta.
 
 
        E caddi in terra con omèi e pianto;
   50 e quando prima il miser occhio aperse,
        vidi una vecchia brutta starmi a canto.
 
 
        Questa le membra nude mi coperse;
        poi, come donna riputando dice,
        queste parole inver' di me proferse:
 
 
   55 55 – Io son la Povertá, prima nutrice,
        che l'uom ricevo colle membra nude,
        quand'egli arriva nel mondo infelice.
 
 
        E quando gli occhi a lui la morte chiude,
        vo con lui alla fossa e lí rimagno,
   60 ove l'altre person si mostran Iude.
 
 
        E mentre in vita con lui m'accompagno,
        sí impazientemente mi sopporta,
        che fa di me sempre querela e lagno.
 
 
        Niente reca, quando al mondo apporta;
   65 e fatica e timore è la sua vita;
        ed al partir niente se ne porta.
 
 
        Allor conoscer può nella partita
        che 'l vostro essere umano è come un sogno,
        e sogno par la parte che n'è ita.
 
 
   70 Sí come l'òr, ch'è falso e di mal cogno,
        vanisce al foco, vostra vita manca;
        e ciò ch'è falso manca nel bisogno. —
 
 
        Poi levai sú la mia persona stanca,
        e la vecchia tacette e poi disparve;
   75 ond'io gli occhi voltai dalla man manca.
 
 
        Mentr'io mirava, una cosa m'apparve
        mirabil sí, che, a volerla narrare,
        le mie parol mi paion levi e parve.
 
 
        Vidi un gigante giovine cantare,
   80 bello e membruto e col leuto in mano,
        e lieto lieto cominciò a ballare
 
 
        e coglier fiori su pel lordo piano;
        e poi mi parve che s'inghirlandasse
        di quelli fiori come garzon vano.
 
 
   85 Ed una rota grande, che voltasse
        di sopra a lui, e, quando ella si volve,
        parea che a poco a poco il consumasse.
 
 
        Come di neve statua si risolve,
        quando sta al sole, cosí a poco a poco
   90 si disfece e di poi diventò polve.
 
 
        Quasi fenice antica, che nel foco
        arde se stessa e poi delle penne arse
        un'altra nasce nuova ed in suo loco,
 
 
        cosí di quella polve un altro apparse
   95 giovin gigante e inghirlandò le chiome,
        sotto la rota ancora a consumarse.
 
 
        Costui addomandai come avea nome,
        ed anche dissi a lui ch'io avea brama
        di quel disfar saper il quale e 'l come.
 
 
  100 Rispose: – Il nome mio come si chiama
        non posso dir, ché da me fu negletto
        quell'operar, che, morto, vive in fama.
 
 
        Io con mill'altri e piú sto qui subietto
        a questa rota, che di sopra volta,
  105 che muta a parte a parte in noi l'aspetto;
 
 
        ché della vita breve avemmo molta,
        e negligenti andammo a passo lento
        sino all'estremo, dove ne fu tolta.
 
 
        Però ha fatto Dio che in anni cento
  110 nessun vive di noi piú di mezz'ora,
        e l'altro tempo in polve giaccia spento.
 
 
        E questa pena ha l'uom nel mondo ancora;
        che, mentre il ciel a lui si volve intorno,
        a parte a parte conven ch'egli mora.
 
 
  115 Cosí a morte corre in ogni giorno
        mosso dal tempo, che volando passa
        e, poich'è ito, non fa mai ritorno.
 
 
        E quella dea, che scrive il tempo e cassa
        il cammin tutto dell'etá compiuta,
  120 un delli mille trapassar non lassa.
 
 
        Il cielo è quella rota che trasmuta
        tutte l'etadi della vita breve
        e che la testa bionda fa canuta. —
 
 
        Poi, come si disfá al sol la neve,
  125 cosí, parlando, colui si disfece,
        o come cera che 'l caldo riceve.
 
 
        Minerva allor di lí partir mi fece;
        ed io a lei: – Da che parlar non posso
        piú con colui, rispondi a me in sua vece.
 
 
  130 Se 'l cielo sopra noi non fosse mosso,
        lo stare ei fermo sarebbe cagione
        ch'ogni operar quaggiú fosse rimosso? —
 
 
        Ed ella a me: – Quest'altra gran quistione
        richiede piú il dir aperto e sciolto,
  135 che non è questo, e piú lungo sermone.
 
 
        Il tempo e 'l ciel, che sopra voi è vòlto,
        è una cosa, e, non voltando il cielo,
        ciò che da tempo pende, saria tolto:
 
 
        fatica, fame, sete, caldo e gelo,
  140 e ciò che segue al moto alterativo,
        morte e vecchiezza col canuto pelo.
 
 
        E, non voltando, l'uomo saria vivo
        e volontá e la virtú, che 'ntende,
        ed ogni senso arebbe piú giulivo.
 
 
  145 Qui quel che disse l'agnol, si comprende,
        quando iurò per l'alto Dio vivente:
        «Mai non sará piú tempo, ovver calende,
 
 
        ed ogni verbo avrá solo il presente,
        e cesserá il preterito e 'l futuro,
  150 e ciò, che or corre, sará permanente»;
 
 
e nell'Apocalisse è questo iuro. —