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Buch lesen: «Il Quadriregio», Seite 22

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CAPITOLO XII

Trattasi delle parti della giustizia.

 
        Mentr'i' a quegli uomin iusti stava atteso,
        subitamente mi percosse un tuono,
        che mi stordí e fe' cader disteso.
 
 
        E, come quei che a forza desti sono,
    5 poi mi levai e vidi star Astrea
        come reina posta in alto trono,
 
 
        splendente e triunfal quanto una dea:
        mai tanta maestá mostrò Iunone,
        quando con Iove tra li dèi sedea.
 
 
   10 Le dame sue con splendide corone
        aveva innanzi a sé e gran diletti
        di belli fior, di suoni e di canzone.
 
 
        Poi drizzò a me, parlando, questi detti:
        – O tu, ch'io scorsi, omai la mente attenda,
   15 se del collegio mio saper aspetti.
 
 
        Iustizia vuol che 'l debito si renda
        a chiunque el merta, e quando si conviene,
        e senza colpa mai nessun si offenda,
 
 
        e sol da quello, a cui punir pertiene.
   20 Da queste due radici son li frutti,
        che la iustizia produce e contiene.
 
 
        L'uomo a tre cose è debitore a tutti:
        ad usar vero e fede e buon amore,
        sí che rancore o froda non l'imbrutti.
 
 
   25 Tre debiti si debbono al minore:
        dottrina al figlio e farlo virtuoso,
        e soldo al fante ovver al servidore;
 
 
        il terzo è sovvenire al bisognoso,
        ché ogn'ardua indigenzia può dir «mio»
   30 di quel che crudeltá gli tien nascoso.
 
 
        Tre debiti a colui, il qual è rio:
        cioè correzion, quando si spera
        ch'egli si mendi e si converta a Dio.
 
 
        E, nel mal far se indura e persevéra,
   35 tagli col ferro e con la spada nuda
        il membro infetto la Vertú severa.
 
 
        Né per questo si debbe chiamar cruda,
        mozzando il morbo ch'alla morte mena:
        convien che la piatá gli occhi vi chiuda.
 
 
   40 Severitá adunque a dar la pena
        prima conviensi, e poi ch'anco sia mista
        colla compassion, ch'ira raffrena.
 
 
        E tre al buon, il qual virtú acquista,
        ché chiunque può, tenuto è dargli aiuto,
   45 ch'addietro non ritorni o non desista;
 
 
        ché spesse volte l'arbor ho veduto
        crescere ratto e far frutto tantosto
        per buon conforto e cólto, ch'egli ha avuto;
 
 
        e forse un altro, presso a quello posto,
   50 perch'è negletto o che ha terreno asciutto,
        sta senza frutto ed a mancar disposto;
 
 
        e, benché paia smorto e giá distrutto,
        il cólto e buon letame alle radici
        el fan fiorire e fanli far buon frutto.
 
 
   55 Quanti sarían per la vertú felici,
        che, desviati, ovver per mancamento,
        son pervenuti a bassi e vili offici!
 
 
        Alla vertú, venuta a compimento,
        debito solve chiunque onor gli rende
   60 d'atti e parol, di loco e reggimento.
 
 
        Non mai vertú, che di splendor s'accende,
        si debbe por a basso o sotto scanno,
        ma suso in alto, ov'ella piú risplende.
 
 
        Tre a' benefattor, che ben ne fanno:
   65 prima, che chi riceve, non si scorde
        del benefizio, né di quei che 'l dánno;
 
 
        e poscia ch'el ringrazi almeno in corde,
        s'egli non pò coll'opera, e in aperto
        sovente con la lingua lo ricorde.
 
 
   70 Ma ora il mondo è sí rio e diserto,
        che, quando il benefizio molto eccede,
        sí che non può o non vuol render merto,
 
 
        si duol, se scontra ovver presente vede
        il suo benefattor e china il volto;
   75 ed alcun altro in piú error procede,
 
 
        ché, quando il benefizio è grande molto,
        al suo benefattor opta la morte,
        che dall'obligo suo ne sia disciolto.
 
 
        Non però 'l liberal chiuda le porte
   80 per l'altrui vizio alla sua cortesia,
        né lassi, a dar, tener le mani sporte;
 
 
        ché chiunque dá ch'a lui donato sia
        per ricompenso, non è liberale,
        ma mercatante ch'usa mercanzia.
 
 
   85 Tre cose debbi a chiunque tu se' eguale:
        prima, equitá d'una bilancia ritta,
        sí che la sua non saglia e la tua cale.
 
 
        L'altra è la legge nel Vangelio scritta:
        ch'altrui non facci cosa, che vorresti
   90 che a te non fusse fatta, né anco ditta.
 
 
        Concordia vien la terza dopo questi
        tra l'arti, tra i compagni e dentro al tetto,
        dove dimori, e i vicin non molesti.
 
 
        Ed al superior, cui se' subietto,
   95 due cose debbi; e, prima, obbedienza,
        poi onorarlo con fatto e con detto.
 
 
        Tre cose al padre, di cui se' semenza,
        ed alla madre tua ed a' primi avi,
        e prima sopra tutto riverenza.
 
 
  100 Se in la vecchiezza elli han costumi gravi,
        che li sopporti, e loro etá antica
        aiuti lieto e con parol soavi.
 
 
        Ricòrdite l'angoscia e la fatica,
        ch'ebbe la madre in te, e degli affanni,
  105 che porta il padre, che 'l figliol notríca.
 
 
        L'aquila, quando è giunta agli antichi anni,
        s'attosca e spenna; e nel nido da' figli
        nutrita è, insin che rinnovella i vanni.
 
 
        Ed alla patria, da cui l'esser pigli
  110 debitor se', che l'ami e la defensi,
        e 'l comun cresci, aiuti e che 'l consigli.
 
 
        Se' debitor a Dio, se tu ben pensi,
        che conosci suoi doni e che tu l'ami
        con tutto il core e con tutti li sensi.
 
 
  115 E questo amor produce molti rami:
        religion, che solo Dio adori,
        devoto orando, e genuflesso el chiami,
 
 
        e che lui servi come padre, onori
        le chiese e le sue cose, e li dí santi,
  120 vacando a lui, per l'anima lavori.
 
 
        E questi detti io posso tutti quanti,
        abbreviando, recarli a sei modi:
        però sei son le dame, ch'io ho innanti.
 
 
        Latría è prima, e vien a dir che lodi,
  125 ami ed adori Dio e che 'n Lui fondi
        ogni altro amor terren, del qual tu godi.
 
 
        Pietá è l'altra, e due amor secondi
        delli parenti, e prima che sia tanto,
        che alli bisogni lor non ti nascondi.
 
 
  130 La terza è Observanzia, l'onor santo
        fatto agli antichi e virtuosi e buoni,
        ed a chi porta di dignitá il manto.
 
 
        La quarta è Gratitudin delli doni.
        Equitá è la quinta ed usar vero
  135 in apparenzia, in fatti ed in sermoni.
 
 
        Sesta è Vendetta e l'animo severo
        con la compassione al cor unita,
        tardo al tormento e non troppo austero;
 
 
        ché chiunque vuol che colpa sia punita,
  140 se non ha emenda, molto offende ed erra,
        ché Dio non vuol la morte, ma la vita.
 
 
        Però 'l divino fòro a niuno serra
        la porta di piatá, s'egli si pente
        con umiltá inginocchiato a terra.
 
 
  145 Ma, perché 'l malfattore spesso mente,
        dicendo: – Io son pentito – , l'altro fòro,
        cioè 'l civile, adopera altramente;
 
 
        ch'ogni scienza ed arte ovver lavoro
        prendon diversitá dalli lor fini,
  150 alli quai prima elli ordinati fôro.
 
 
        Il civil fòro ha 'l fin che medicini,
        governi e purghi il corpo del comune,
        che per li viziosi non ruini.
 
 
        Per questo egli usa spada, fuoco e fune,
  155 sbandisce e taglia e mai non dá speranza
        che chi è reo possa andare impune.
 
 
        E, benché pianga e chiegga perdonanza,
        non vuol udir; ché chi è predon o fura,
        s'è liberato, e' torna a prima usanza.
 
 
  160 In questo modo la legge assecura
        el viver lieto e i buoni e vertuosi,
        e li cattivi scaccia ed impaura.
 
 
        Se questi detti miei tu ben li chiosi,
        concluderai che la legge fu fatta
  165 pe' trasgressor al buon viver noiosi,
 
 
e fu da' virtuosi in prima tratta. —
 

CAPITOLO XIII

Dove trattasi singolarmente della virtú dell'equitá e della veritá e de' valenti canonisti e legisti.

 
        – Domanda – aggiunse Astrea – de' regni miei;
        omai di' ciò che vuoi, e ben t'accerta
        e delle dame mie tutte e sei. —
 
 
        Quando mi vidi far tanta proferta,
    5 con quella parte io la ringraziai,
        che chiede Dio all'uom per prima offerta.
 
 
        E poi con riverenzia domandai:
        – Perché la Veritá, la quinta sposa,
        che Equitá ancor nomata l'hai,
 
 
   10 la veggio singulare in una cosa,
        ché porta la bilancia ed ella sola
        tra la sua schiera è la piú gloriosa? —
 
 
        Rispose Astrea a questa mia parola:
        – Da questo nome «ius», se noti bene,
   15 come si espone in la civile scola,
 
 
        Iustizia è detta, a cui tener pertiene
        egual bilance. È ver che 'n alcun caso
        ei non si puote ovver non si conviene;
 
 
        ché 'l don di Dio accolma tanto il vaso,
   20 e de' parenti a' figli, ché chi rende,
        non pò render appien, ma men che a raso.
 
 
        Cosí all'uom, che di vertú risplende,
        piena mesura non si rende ancora,
        ché nullo ben terren tanto s'estende;
 
 
   25 ché la virtú è sí degna, sí decora
        e sí eccellente, ch'ogni volta eccede
        ogni ben temporal, che lei onora.
 
 
        Ed a colui che 'l benefizio diede,
        render si puote egual; ma chi è grato,
   30 anche piú oltra al dato stende il piede.
 
 
        E cosí la vendetta del peccato
        merita egual; ché quanto fu 'l delitto,
        tanto ognun merta d'esser tormentato.
 
 
        Ma, com'io dissi sopra e trovi scritto,
   35 iustizia punitiva è crudeltá,
        se la pietá non mitiga l'editto.
 
 
        Però null'altra in man le bilance ha,
        se non la quinta dama di mia schiera,
        chiamata Equitate e Veritá;
 
 
   40 ché a lei sola appartien che la statera
        tegna diritta e che in detto e 'n fatto,
        in quel che tratta, sia trovata vera.
 
 
        Ogni ristoro e ciò che si fa a patto,
        ella pertratta e grida che si renda
   45 quanto la froda o forza hanno suttratto.
 
 
        Perché tu queste cose meglio intenda,
        pensa se alcun rifar dovesse diece,
        ed egli a nove a ristorar si estenda.
 
 
        Costui non pienamente satisfece,
   50 ché convien sempre che 'l ristor sia eguale
        al danno ed all'iniuria, ch'altrui fece.
 
 
        Ell'è che grida non far altru' il male,
        che non vorresti tu; e quanto hai offeso,
        tanto restituisci ed altrettale.
 
 
   55 D'esto nome Equitate assai ha' inteso;
        or, perché Veritá ella si chiama,
        io ti dirò, ch'ancor non l'hai compreso.
 
 
        Dopo il ristoro, questa quinta dama
        pertratta ciò ch'insieme si patteggia:
   60 questa è la sua materia e la sua trama.
 
 
        A lei pertien che guidi e che proveggia
        che ciò che si promette o mercatanta,
        che sia corretto, quando si falseggia,
 
 
        e che la mercanzia sia quella e tanta,
   65 che è promessa, e quando, dove e come
        e qual, se quella è guasta o troppo schianta.
 
 
        E però Veritá è l'altro nome;
        ed ha duo nomi, perché ha duo offici,
        ché usa il vero ed eguaglia le some.
 
 
   70 L'altra domanda, la qual tu mi dici,
        è, da che porta singular insegna,
        s'ella è maggior tra le dame felici.
 
 
        Ogni vertú tanto è eccellente e degna
        – rispose a questo, – quanto è di piú pregio
   75 il fine intento, al qual venir s'ingegna.
 
 
        Al fin piú glorioso e piú egregio
        ingegnasi Latría; però l'aspetto
        ha piú splendente in tutto il mio collegio.
 
 
        Ella è che sale al ciel con l'intelletto
   80 e, dimorando in terra sua persona,
        ella sta innanzi al divino cospetto;
 
 
        e lí, orando, con Dio si ragiona;
        poi si mesura e pon sé in la bilancia,
        nell'altra li gran ben, che Dio ne dona.
 
 
   85 E vede i don di Dio di tanta mancia,
        e tanto grandi, che a rispetto a quelli
        ciò che l'uom render può, è una ciancia.
 
 
        E, benché vegga Dio cogli occhi belli,
        nientemen le bilance non porta,
   90 ancora che ella, orando, a Dio favelli;
 
 
        ché ogni gratitudo è lieve e corta,
        rispetto al don di Dio; e, se si pesa,
        troppo andarebbe la statera torta.
 
 
        E con questa ragion, ch'or hai intesa,
   95 sappi che quanto è natural l'amore,
        tanto, negletto o tronco, è di piú offesa.
 
 
        E nullo vinclo debbe esser maggiore,
        e nullo amor piú stretto e piú eccellente
        che dalla creatura al suo Fattore.
 
 
  100 Però chi 'l tronca e chi v'è negligente,
        veder si puote in quanta offesa cade,
        chi nol frequenta o chi non gli è obbediente.
 
 
        Questo primaio amor prima pietade
        disson gli antichi, e che 'l culto divino
  105 è la prima vertú, prima bontade.
 
 
        Però il re Priámo e 'l buon Quirino,
        ed Alessandro in pria fenno li tempii,
        e Salomone el coprío d'oro fino.
 
 
        Ed, offerendo, al vulgo dienno esempii;
  110 e chi non frequentava il divin còlto,
        chiamavano crudeli, iniqui ed empii.
 
 
        Ma ora è sí negletto e sí rivolto
        a Satanasso per diverse vie,
        che, piú che a Dio, a lui si volta il volto.
 
 
  115 Con superstizioni e con malie
        or son fatti teatri i sacri lochi
        a vagheggiarvi e farvi ruffianie.
 
 
        Quanti Iasoni e quanti re Antiòchi
        lo imbruttano ora, e Dionisi e Varri
  120 son stupratori degli eterni fochi!
 
 
        I filistei riposono in sui carri
        l'arca di Dio, per non inviziarse,
        e tanto mal che di lor non si narri.
 
 
        La barbaresca man, che sangue sparse
  125 giá tanto in Roma, che destrusse e incese
        i gran palagi e il Capitolio arse,
 
 
        fu reverente ai tempii ed alle chiese;
        ché chiunque fuggí a quelli de' romani,
        fu libero da morte e dall'offese.
 
 
  130 Io ho toccati questi esempli strani
        degl'infideli, e questo ho posto solo
        per emendar li crudeli cristiani.
 
 
        L'altr'è l'amor, il qual debbe il figliolo
        a' genitori, la pietá seconda,
  135 ed alla patria del nativo suolo.
 
 
        Ed ogni amor, che la natura fonda,
        «pietá» si chiama, e cosí per opposto
        «crudel» è detto chiunque el confonda. —
 
 
        Tacette poi che questo ebbe risposto.
  140 Allor vidi venir molti col vaio
        ver' noi col lume in su la testa posto.
 
 
        – Iustinian son io – disse il primaio,
        – che 'l troppo e 'l van secai fòr delle leggi,
        ora subiette all'arme ed al denaio.
 
 
  145 Iurisconsulti e gran dottori egreggi
        vengon qui meco da stato giocondo,
        perché tu gli odi e perché tu li veggi.
 
 
        Questo, che mi sta a lato, è fra' Ramondo
        predicatore, a cui papa Gregoro,
  150 quand'egli dimorava giú nel mondo,
 
 
        fe' compilar il nobile lavoro
        de' Decretali, e per questo vien esso
        insieme meco in questo sacro coro.
 
 
        Bartol Sassoferrato è l'altro appresso,
  155 con la lettura sua, la cara gioia,
        come dimostra il suo chiaro processo;
 
 
        e Baldo perusin, che l'ebbe a noia;
        poi 'l dottor Cino, ch'ebbe il gran concorso
        nel tempo suo e l'onor di Pistoia;
 
 
  160 poi Ostiense e 'l fiorentino Accorso,
        che fe' le chiose e dichiarò 'l mio testo
        ed alle leggi diede gran soccorso.
 
 
        Giovanni Andrea, le Clementine e 'l Sesto
        il qual chiosò, sta qui con la Novella,
  165 sí come il lume a te fa manifesto.
 
 
        E sempre il ciel rinfresca e rinnovella
        l'opinioni e li novi dottori;
        e quel che ha detto l'un, l'altro cancella.
 
 
        Azzo e Taddeo giá funno li maggiori;
  170 ed ora ognun è oscuro e tal appare
        qual è la luna alli febei splendori. —
 
 
        Io vidi poi color tutti levare
        inverso il cielo, come fa 'l falcone,
        quando la preda sua prende in su l'are.
 
 
  175 In questo, Astrea mi disse esto sermone:
        – Tu hai veduto appien del regno mio
        quanto dir puossi in rima od in canzone. —
 
 
Poscia colle sue dame indi sparío.
 

CAPITOLO XIV

L'autore vede il tempio della fede, e gli appare san Paolo, il quale gli ragiona di questa virtú.

 
        In su 'l partir che fe' la bella Astrea,
        mi disse la primaia di sue dame,
        fulgurando una luce come dea:
 
 
        – Se tu l'aiuto pria da Dio non chiame,
    5 non ti sperar potere andar giammai
        alle Vertudi del quinto reame. —
 
 
        Per questo gli occhi al cielo io dirizzai,
        dicendo: – O Maiestá, sempre invocanda
        nelli principi e negli atti primai,
 
 
   10 chiunque verso alcun fin senza te anda,
        siccome cieco convien che cammine,
        se pria l'aiuto da te non si manda.
 
 
        Dell'altre tre vertú tu sei il fine
        e segno o «Alfa» ed «O»; e son per questo
   15 «teologiche» ditte ovver «divine». —
 
 
        Allor vid'io uno splendor celesto
        venirmi al volto alquanto da lontano,
        che quel ch'or dico, mi fe' manifesto.
 
 
        La statua grande vidi in un gran piano,
   20 che vide giá Nabucodonosorre,
        significante ogni regno mundano.
 
 
        Er'alta vieppiú assai che nulla torre
        e forse piú che non fu quel cavallo,
        che fe' da' greci la gran Troia tôrre.
 
 
   25 E di fin oro aveva il capo giallo,
        le braccia e l'orche e 'l petto aveva bianco
        di puro argento senza altro metallo.
 
 
        Le reni, il ventre e l'uno e l'altro fianco
        eran di rame rubro e resonante,
   30 e quel, con che si siede, ramengo anco.
 
 
        Le cosce e gambe insin giuso alle piante
        eran di ferro e i piè di terra cotta,
        parte non cotta, e su quelli era stante.
 
 
        Poi una pietra men ch'una pallotta
   35 se stessa si ricise e si remosse
        d'un alto monte e venne a valle in frotta.
 
 
        E nelli piedi all'idolo percosse
        e sminuzzollo e prostrollo confratto,
        sí che appena parea che stato fosse.
 
 
   40 Quella petruccia in questo crebbe ratto
        e fecesi un gran monte, e su la cima
        tosto un tempio alto ed ampio vi fu fatto.
 
 
        Dal loco, ove quell'idolo era prima,
        io mi partii e salsi il monte tanto,
   45 ch'andai tre miglia e piú, alla mia estima.
 
 
        Quel tempio risplendea da ogni canto,
        e, quando vidi com'era costrutto,
        ne sospirai con lacrime e con pianto,
 
 
        ch'era di corpi morti fatto tutto;
   50 e per calcina v'era il sangue posto
        recente sí, ch'ancor non era asciutto.
 
 
        Vapore acceso nel mese d'agosto
        mai non trascorse il ciel tanto veloce,
        né polsa da balestro va sí tosto,
 
 
   55 come scese dal ciel con una croce
        donna vestita in bianco, e, giú discesa,
        benigna a me proferse questa voce:
 
 
        – Il tempio sacro è questo, ovver la Chiesa,
        fermata in su la pietra; e ferma siede,
   60 bontá del fundamento, ond'è difesa.
 
 
        Ed io, che or ti parlo, son la Fede:
        a me con tanto sangue e con martíro
        fu fatto il tempio, che quassú si vede.
 
 
        E questi santi su di giro in giro
   65 mi fenno il fundamento lá giú in terra
        colla vertude del superno spiro.
 
 
        Questi per me si misero alla guerra,
        armati di vertude e cogli scudi
        di quella veritá, che mai non erra.
 
 
   70 Essendo agnelli tra li lupi crudi,
        combatteron per me li forti atleti,
        come per 'manza gli amorosi drudi.
 
 
        E, se lor corpi fûn morti e deleti
        di quella vita, che, vivendo, more,
   75 nell'alma fûn vittoriosi e lieti. —
 
 
        E, ditto questo, con grande splendore
        ritornò al cielo, ed io rimasi solo,
        ancor chiamando aiuto a Dio col core.
 
 
        Allor apparve a me l'apostol Polo,
   80 mostrando blando aspetto e lieto viso;
        e poscia disse a me come a figliolo:
 
 
        – Hai vista quella che del paradiso
        venne con Cristo e fondossi nel sasso,
        che dal celeste monte fu exciso?
 
 
   85 Fu impugnata pria da Satanasso,
        il qual commosse scribi e farisei
        per atterrarla, ovver per darla al basso.
 
 
        Allora Pietro e li compagni miei
        gli funno defensori in ogni corte,
   90 innanzi a' prenci e innanzi alli gran réi.
 
 
        E pensa quanto a noi pareva forte
        a suader che l'uomo a Dio s'unisse
        ed incarnasse e sostenesse morte,
 
 
        e che, resuscitando, rivestisse
   95 glorificato il corpo, ch'avea pria,
        e poi per sua virtú ch'al ciel salisse.
 
 
        E, benché questo paresse pazzia
        e che li predicanti fusson vòti
        d'umana possa e di vana sofia,
 
 
  100 nientemen da pochi ed idioti,
        colla vertú del sacrosanto foco,
        che dal ciel venne in lor petti devoti,
 
 
        seminôn questo vero in ogni loco;
        e questo è tal miracol, se ben miri,
  105 ch'ogni altro respective a questo è poco,
 
 
        pensando che tra morti e tra martíri
        corse alla fede il mondo, e li fedeli
        non si curavan de' tormenti diri.
 
 
        Ed onde esser porría, se non da' cieli,
  110 che 'n cosí poco tempo tanta schiera
        credesse a noi tra le pene crudeli?
 
 
        E, per provare ancor la fede vera,
        permise Dio che 'l maladetto drago,
        che sempre adopra che la fede pèra,
 
 
  115 unisse la sua possa a Simon mago
        e mostrasse miraculi e gran segni,
        non però ver, ma 'n apparente imago,
 
 
        e ch'egli commovesse in molti regni
        piú altri nigromanti e suoi satelli
  120 contra la fede con forza ed ingegni.
 
 
        Allor li cavalier pochi e novelli,
        dodici e pochi piú, fên resistenza
        tal, ch'elli confutôn tutti i ribelli.
 
 
        E, perché sappi di quant'è eccellenza,
  125 quanto a Dio piace e quanto merto acquista
        la vera fede con ferma credenza,
 
 
        ella è che 'nsino al ciel alza la vista
        e vede il premio, il qual alla fatiga
        fa esser forte, perché si resista.
 
 
  130 Ella è che vince la triplice briga
        del mondo, del dimonio e sensuale;
        e la vittoria è ben che 'l mondo affliga.
 
 
        Ell'è che mostra la pena infernale
        a' peccatori e col timor gl'induce
  135 a far il bene ed a lassare il male.
 
 
        E, come la Prudenza è guida e luce
        alle vertú moral, cosí questa anco
        alle vertú divine è scorta e duce.
 
 
        E, come senza gli occhi nullo è franco
  140 fra' suoi nemici, ed è persona stolta
        quella, in cui al tutto ogni prudenza è manco;
 
 
        cosí colui, al qual la fede è tolta,
        va come cieco, e l'avversario el mena
        unque gli piace e come vuole el volta.
 
 
  145 E, se saper tu vuoi la piú serena
        loda ch'ell'abbia, attendi e fa' ch'impari
        di quanto merto questa fede è piena.
 
 
        Se promettesse alcun tutti i denari
        ad alcun altro, acciò che gli credesse
  150 alcuni effetti a suoi sensi contrari,
 
 
        non sería mai che credere el potesse;
        nientemeno el credería per fermo,
        senza denari ovver senza promesse,
 
 
        se fusse ditto a lui dal divin sermo.
  155 Allora quel che non puote natura,
        a creder l'intelletto non è infermo.
 
 
        E questo solo avvien, se ben pon' cura,
        ché la mente fedel si fonda in Dio,
        onde ha autoritá Sacra Scrittura.
 
 
  160 E, se tu ben attendi al parlar mio,
        nulla è maggior offerta e piú eccellente,
        nullo olocausto è piú efficace e pio,
 
 
        che quando volontá stringe la mente,
        che tanto crede a Dio, ch'assente quello
  165 che pare a' sensi suoi contradicente.
 
 
Chi questo fa, non è a Dio rubello. —