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Buch lesen: «Il Quadriregio», Seite 10

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CAPITOLO X

Dove l'autore discorre delle pene, che l'uomo dá a se stesso per false opinioni.

 
        «Voi, che salite al secondo reame,
        intrate qui per questa porta inferna,
        che sempre aperto tiene il suo serrame.
 
 
        Dentro ve fa la via una caverna,
    5 la qual salendo sette miglia gira,
        ove nulla è che chiaro occhio discerna.
 
 
        Questa conduce al loco, ove martíra
        l'uomo se stesso, e di sé fa vendetta,
        e fassi il colpo, onde piange e sospira».
 
 
   10 Vista che avemmo la scrittura e letta,
        intrammo la caverna alla man destra
        per una via oscura ed anco stretta.
 
 
        Ma dietro all'orme della mia maestra
        io sempre andai, e per un sasso fesso
   15 uscimmo fòra, a guisa di finestra.
 
 
        E su nell'aere, alquanto a noi appresso,
        vidi una donna alata trasmutarse
        in diverse figure spesso spesso.
 
 
        Grande come gigante prima apparse;
   20 poi piccola si fece e lieta e trista;
        giovine e vecchia poi la vidi farse.
 
 
        – Chi se' – gridai, – che piú cambi la vista,
        che Acchilogo, e nullo essere vero
        par che 'n te sia, ovver che 'n te persista?
 
 
   25 – La Falsa Opinion son del pensiero
        – disse volando, – e questo loco tegno,
        ov'io dimostro il bianco per lo nero.
 
 
        Qui sta la Fantasia, qui sta lo Sdegno,
        Speranza, Amor, Timor e Alterezza,
   30 Sospizion, 'Resia sta in questo regno.
 
 
        Io fo povero alcun nella ricchezza
        e fo la povertá allegra tanto,
        ch'alcun la porta e nulla n'ha gravezza;
 
 
        sí come avvien che 'n povertá alquanto
   35 equal son due, e l'un non se ne cura,
        e l'altro si lamenta e fa gran pianto.
 
 
        Se da sé fosse quella soma dura,
        alli due pazienti equal sería,
        se l'operante è di simil natura. —
 
 
   40 L'Opinion, ovver la Fantasia,
        per l'aer se n'andò, movendo l'ale,
        e mutava sembianti tuttavia.
 
 
        – Quella è la grave peste e 'l grave male
        – disse Minerva a me; – quella è cagione
   45 di molto duol, che l'uom nel mondo assale.
 
 
        S'alcuno è ricco, e la sua opinione
        a questa veritá gli contradice,
        egli se stesso in povertá ripone.
 
 
        Nessun può esser in stato felice,
   50 se a quello non concorre il suo parere,
        come concorre al frutto sua radice.
 
 
        Come la frenesia, che fa vedere
        un per un altro, e 'l vin, quando ubbriaca
        non lassa ben vedere le cose vere;
 
 
   55 cosí tre passion, che son la ra'ca
        di tutti i vizi: il troppo amore e spene
        e 'l timor anco all'uom la mente opaca.
 
 
        Per queste tre, quando son troppe, avviene
        che si disvia ed erra l'intelletto,
   60 tanto che 'l ver non può conoscer bene:
 
 
        come alcun che ha il palato infetto,
        che gusta il dolce, e pargli che sia amaro
        e giudica in contrario il proprio obbietto.
 
 
        Altramente il superbo ovver l'avaro
   65 estima alcuna cosa, ed altramente
        l'animo buono e di vertú preclaro.
 
 
        E secondo l'etá cosí la gente
        credon le cose, ed altramente estima
        chi porta l'odio che chi d'amor sente.
 
 
   70 La puerizia ovver l'etade prima
        errando crede che solazzo e gioco
        tra tutti i ben sovran tenga la cima.
 
 
        E, poiché quell'etá tramuta loco,
        dietro all'amor ne va l'adolescenza,
   75 e i ludi giá passati estima poco.
 
 
        Nell'etá terza, c'ha piú conoscenza,
        reputa i giochi e l'amor esser vano,
        e solo estima onore ed eccellenza.
 
 
        Poi nella quarta etá dal capo cano
   80 s'avvede ch'ogni etá era ingannata,
        e pone all'avarizia allor la mano.
 
 
        Se, quando è su la morte, addietro guata,
        il cammin della vita, il qual è ito,
        gli pare un'ombra o cosa non mai stata.
 
 
   85 Svegliasi quando del mondo è partito,
        e vede ciò c'ha tempo esser menzogna,
        rispetto all'eternal, che è infinito.
 
 
        Sí come spesso avvien, quando alcun sogna,
        che, mentre dorme, gli par manifesto
   90 aver dell'oro in man quanto bisogna,
 
 
        e, quando torna in sé e ch'egli è desto,
        e' qui si scorna e dice nel suo core:
        – Oimè! oimè! perché non fu ver questo? —
 
 
        cosí l'anima umana, quando è fuore
   95 della sua carne, allor ella comprende
        che il mondo è sogno, e conosce il suo errore.
 
 
        Iti eravamo omai quanto si stende
        quell'ampia valle, e noi trovammo un colle,
        che ben duo miglia su da alto pende.
 
 
  100 Minerva salse il monte e poscia volle
        che dietro a lei seguissi le vestige,
        se non voleva andar sí come uom folle.
 
 
        Quand'io fu' in cima, vidi il lago Stige,
        fatto alla forma ch'io l'avea veduto
  105 giú nell'inferno in ogni sua effige.
 
 
        Io era insino al lito suo venuto,
        e per mirar fermai i passi mei,
        per la gran nebbia risguardando acuto.
 
 
        – Questa negra palude, che tu véi,
  110 è quella, per cui iura il sommo Iove
        – disse Minerva – e iuran gli altri dèi.
 
 
        Ciò che cade da cielo, ovver che piove,
        ciò che dall'aere o su dal foco cade,
        e ciò che l'acqua sé purgando move,
 
 
  115 si aduna qui da tutte le contrade:
        ogni sozzura ed ogni sucidume,
        tutta la marcia delle cose frade. —
 
 
        Per penetrar la nebbia e 'l folto fume,
        facea cogli occhi miei lo sguardo aguzzo,
  120 come fa alcun, quand'egli ha poco lume.
 
 
        Quanto piú m'appressava, maggior puzzo
        senteva al naso e tanto n'era offenso,
        che soffiando io facea dell'aere spruzzo.
 
 
        Tutta la timiama ovver l'incenso,
  125 che mai d'Arabia ovver d'Assiria venne,
        non mitigaría quel fetore immenso.
 
 
        Lí eran l'arpie con pallide penne,
        con facce umane, storte, irate e guerce,
        fetenti sí, che 'l naso nol sostenne.
 
 
  130 Facean lamenti su le smorte querce,
        e 'l misero Fineo mangiava sotto
        vivande, ch'eran di lor sterco lerce.
 
 
        Una di lor mi disse questo motto:
        – O tu, che questo inferno passi vivo,
  135 dietro alli passi di Palla condotto,
 
 
        perché ti atturi il naso e mostri schivo?
        Tu sai che l'uomo nel vostro emispero
        piú di noi non è netto ovver giulivo:
 
 
        ché egli è un sacco pien di vittupèro,
  140 e tra gli altri animal che son nel mondo,
        vuole in nettarsi maggior ministero.
 
 
        Tu sai ch'e' per la cima e per lo fondo
        e dello corpo suo per nove fori
        sparge il fastidio, piú che noi immondo.
 
 
  145 Al sucidume e suoi corrotti umori
        per delicanza concorron le mosche,
        sí come l'api sopra belli fiori.
 
 
        – Trapassa ratto este contrade fosche
        – disse a me Palla – e non gli far risposta:
  150 basta che l'abbi viste e le conosche. —
 
 
        Allora mi partii senza far sosta
        e vieppiú oltre una gente trovai,
        ch'avean la soma in la lor testa posta,
 
 
la qual convien che portin sempremai.
 

CAPITOLO XI

Dove si tratta della pena di Sisifo.

 
        Noi pervenimmo in una gran foresta,
        ove gente trovai, ch'ognuno un sasso
        avea per soma su nella sua testa.
 
 
        Per una piaggia insú moveano il passo,
    5 e, giunti al monte, poi scendeano al piano,
        e poi risalian su laggiú da basso.
 
 
        Venir ver' noi non molto da lontano
        un'alma carca vidi d'un gigante
        maggior sei volte e piú d'un corpo umano.
 
 
   10 Io dissi a lei, quand'io gli fui davante:
        – Dimmi chi se', che porti sí gran soma,
        ch'appena portería un elefante.
 
 
        – Sisifo son, che 'l gran poeta noma,
        – disse. E poi giunse: – A voi mortali è posta
   15 soma maggior ch'a me, e piú vi doma.
 
 
        E perché meglio intendi mia risposta
        e che tu sappi ben ch'io non agogno,
        a quel, che ora dirò, l'orecchio accosta.
 
 
        Il timor della morte e del bisogno,
   20 amor e speme a voi pon maggior pesi,
        che non fa l'enco, quando appare in sogno. —
 
 
        E, perché questo dir non ben compresi,
        dissi a Minerva: – O dea, questo sermone
        ben non intendo, se non l'appalesi. —
 
 
   25 Ed ella a me: – Quel Signor, che dispone
        e regge il tutto, a chiunque al mondo nasce
        della sua soma sua gravezza pone.
 
 
        Con pena prima sta dentro alle fasce
        e col sudor di colei che 'l nutríca,
   30 e di colui che poi, vivendo, il pasce.
 
 
        Poi che cresciuti son, chi s'affatica
        dietro all'aratro e la terra rivolta,
        ché non produca spine ovver ortica;
 
 
        chi con paura e con fatica molta
   35 giunge, cercando il mare, alla vecchiezza,
        sepolto dentro a' pesci alcuna volta;
 
 
        chi mercatanta per aver ricchezza,
        e quel, che con fatica egli rauna,
        a chi pervenga nulla n'ha certezza;
 
 
   40 et tamen senza sonno e posa alcuna
        la voglia sempre ha fame e mai non s'empie
        ed al piú pasto, piú riman digiuna;
 
 
        chi segue Marte e le sue opere empie
        facendo sé centauro biforme,
   45 armato a ferro indosso e nelle tempie;
 
 
        chi mangia a posta altrui e vegghia e dorme
        sol per aver il rimorchiato pasto,
        e va subietto dietro all'altrui orme;
 
 
        chi, per sanar all'uom il membro guasto,
   50 Ippocrate si fa; e chi legista
        per vender le parole e far contrasto. —
 
 
        Quand'ella dicea questo, alzai la vista
        inverso il monte e vidi un'altra gente,
        ch'avea la soma di splendor sofista.
 
 
   55 – Chi son color che 'l carco hanno splendente?
        – diss'io a Minerva. – Saria forse quello,
        perché si porti piú leggeramente? —
 
 
        Ed ella a me: – Perché 'l peso sia bello,
        non è però che egli sia piú lieve,
   60 né dá a colui, che 'l porta, men flagello;
 
 
        ché una libra di penne è tanto greve,
        non piú, né men quant'una libra d'oro
        al dosso che la porta e la riceve.
 
 
        E se saper tu vuoi chi son coloro,
   65 son quelli, dalli quai si signoreggia,
        e però 'l peso han con sí bel lavoro.
 
 
        Come la bestia, che ben somereggia,
        va piú adornata ed ha miglior prebende
        ed è onorata di freno e di streggia;
 
 
   70 cosí han quelli il peso che risplende,
        ma sotto quel colore sta nascosto
        la soma greve, che la mente offende.
 
 
        Per questo giá gridò Cesare Agosto:
        – Quando sará ch'io scarchi i pesi gravi
   75 del pondo imperial, sopra me posto? —
 
 
        Gridò Gregorio che 'l manto e le chiavi
        ed ogni reggimento ha tanto pondo,
        che gli altri sonno a rispetto soavi.
 
 
        Ahi! quanti credon su nel mortal mondo
   80 alcun aver in poppa il prosper vento,
        e sé averlo in prora e non secondo!
 
 
        Che se colui, il qual credon contento,
        dicesse quant'è afflitta la sua voglia,
        direbbon sé aver minor tormento.
 
 
   85 Ahi! quanti son che sguardano alla invoglia
        della gran soma, a cui se lo somiere
        dicesse il suo gran peso e la gran doglia,
 
 
        piglierian le lor some volentiere,
        come minori e di piú lieve affanno,
   90 piú atte al loro dosso e piú leggiere!
 
 
        Ahi! quanti son che or a basso stanno,
        che 'n terra con la soma caderiéno
        del signorile scettro e primo scanno!
 
 
        Quanti son ricchi ed in stato sereno,
   95 che, della povertá portando il peso,
        la forza e la vertú lor verria meno!
 
 
        Saul in terra morto andò disteso,
        portando la soma alta e con bei fregi,
        che, stando a basso pria, non era offeso.
 
 
  10 °Chi sta in alto, il basso non dispregi;
        e chi sta al basso ed ha la soma oscura,
        non abbia invidia a prenci ed a gran regi. —
 
 
        E poscia ad altri molti io posi cura,
        ch'ognun sopra la soma era premuto
  105 da circumstanti suoi per fargli iniura.
 
 
        Udii gridar indarno: – Aiuto! aiuto! —
        con pianti e con sospir; ma la pietade
        ivi era sorda a chi non era muto.
 
 
        Ed uno a noi gridò: – Guai a chi cade!
  110 ché, bench'abbia abbondanza di consigli,
        non però trova chi aiutarlo bade. —
 
 
        La dea rispose: – O tu, che sí bisbigli,
        perché al caso tuo cordoglio porto,
        t'adiuterò, se 'l mio consiglio pigli.
 
 
  115 Se vuoi alla gran soma alcun conforto,
        pensa di quei che portan maggior carchi
        che non hai tu, e portanli piú a torto.
 
 
        E guarda ben che l'amor non ti carchi,
        e la spene e 'l timor se ti dán pena,
  120 degno è che sol di te tu ti rammarchi. —
 
 
        Poich'ebbe esto consiglio, un'ora appena
        egli era stato, e quivi un fanciul venne
        con bella faccia e di letizia piena.
 
 
        Due ali adorne avea di belle penne
  125 piú che paone, ed in mano avea l'arco,
        dal qual Achille giá 'l colpo sostenne.
 
 
        Costui gli pose sopra tanto carco,
        mostrando il dolce e celando l'amaro,
        che 'l fece pianger con pianto e rammarco.
 
 
  130 Poi venne un altro, che tutto contraro
        era a quel primo in tutte sue fattezze,
        col viso negro quanto il primo chiaro.
 
 
        Questo gli pose ancor molte gravezze,
        poi venne innanti a noi una donna anco
  135 col riso in bocca e piena d'allegrezze.
 
 
        E, benché egli fusse lasso e stanco,
        con altri pesi ancor gli carcò il dosso.
        Allora disse: – Oimè! che vengo manco. —
 
 
        Mentre diceva: – Oimè! che piú non posso
  140 portar tante gravezze, – e' cadde in terra,
        fiaccandosi la testa ed anche ogni osso.
 
 
        – Io fui da Lucca e detto Forteguerra
        – diss'egli a noi: – a far la grande impresa
        m'indusse spem, che fa che spesso uom erra.
 
 
  145 Ella mi fece far la molta spesa
        e posemi l'incarco della parte,
        che sempre a chi n'è capo troppo pesa.
 
 
        – Nulla averebbe potuto gravarte
        – diss'io a lui, – se tu alla scorta mia
  150 creduto avessi in tutto ovver in parte.
 
 
        Ma, s'e' ti piace, volentier vorria
        che mi contassi le doglie penose,
        che la speranza pone in questa via. —
 
 
        Ond'egli, sospirando, mi rispose:
  155 – Sappi che la fallace e vana spene
        principalmente si fonda in due cose.
 
 
        O ella aspetta scemarsi le pene,
        ch'ella sostien, o desiando sguarda
        poter avere alcuno amato bene.
 
 
  160 Se l'una e l'altra d'este due si tarda,
        ovver che manchi, l'animo tormenta;
        ma affligge molto piú, quand'è bugiarda.
 
 
        Benché tante fiate a noi ne menta,
        come hai provato, ancor se gli dá fede:
  165 tanto con le losinghe altrui contenta;
 
 
        che 'l miser'uomo sempre ratto crede
        quel che desia; ma quel, ch'egli ha 'n temenza,
        non crede si rimova, se nol vede. —
 
 
Poi piú non disse; e femmo indi partenza.
 

CAPITOLO XII

Dove l'autore parla di Flegias e della pena, che cagiona il timore.

 
        Dietro a Minerva cento passi o quasi
        su salsi un monte e pervenni alla cima
        a veder quei che temon tutti i casi.
 
 
        Lí era un piano, e, quando mirai prima,
    5 vidi una strada insino all'altra sponda
        lunga due miglia, quanto alla mia stima,
 
 
        ch'era diamètro nella valle tonda:
        quivi saper può bene il geomètra
        quanto quel piano intorno a sé circonda.
 
 
   10 Ne' semicerchi della valle tetra
        anime vidi di fuor della strada,
        la qual lastreco avea di nera pietra.
 
 
        Ed ognuna dell'alme in alto bada
        un grande sasso, che cader minaccia
   15 tanto, che par che tosto in capo cada.
 
 
        Per questo alzata insú tengon la faccia,
        temendo che non cada con ruina
        il sasso a lor in testa e che gli sfaccia.
 
 
        Ahi, quanto punge del timor la spina!
   20 e quanto affligge il core il mal futuro,
        che l'uomo aspetta e quasi lo indovina!
 
 
        Pensa, lettor, se stessi sotto un muro,
        che fosse per cadere, o sotto un tetto,
        e se 'l dovervi stare fosse duro!
 
 
   25 Pensa se avessi un uom incontra 'l petto
        coll'arco teso e fuggir non potessi,
        ed ei dicesse: – Tosto ti saetto! —
 
 
        Cosí han questi, di paura oppressi,
        gli archi di contra e però stan tremanti
   30 che sassi e dardi non percuota ad essi.
 
 
        Per dar lor piú timor, al volto innanti
        discorrono i Mal sogni e 'l Mal presaggio,
        l'upupa, il gufo e 'l corvo con lor canti.
 
 
        Su per la strada era il nostro viaggio,
   35 e trovai Fleias ch'era qui il primaio
        del gran timor con pallido visaggio.
 
 
        – O Fleias, – dissi io, – che a tanto guaio
        se' posto qui e tremi vieppiú forte
        che 'l vecchio can nel freddo di gennaio,
 
 
   40 Apollo ha posto te a cotal sorte
        per tua superbia e di te fa vendetta,
        che 'n sempiterno questo tremor porte.
 
 
        Assai è minor pena a chi suspetta
        solo in un punto ricever il duolo,
   45 che sempre temer l'arco e la saetta;
 
 
        ché 'l timor seco mena grande stuolo
        d'assalitori, ed ognuno il cor punge:
        adunque è meglio aver un colpo solo.
 
 
        Per darti piú timore ancor s'aggiunge
   50 all'arco il sasso, e temi che non caggia
        e non ti fiacchi il capo, quando giunge.
 
 
        – Nel mondo, ove tu sal' di piaggia in piaggia
        – rispose, – proverai simil doglienza,
        se vi pervieni colla scorta saggia.
 
 
   55 Lí vederai tu il don di provvidenza
        farsi una lima che se stessa rode,
        di mille casi avversi c'ha 'n temenza.
 
 
        E vedrai le ricchezze non far prode:
        tanto di povertá il timore affligge,
   60 che 'l possessor di lor lieto non gode.
 
 
        Che giova all'uom la vita, se l'effigge
        dell'orribile morte ognor l'accora
        e sempre di paura lo trafigge?
 
 
        L'affaticato cibo, che ristora,
   65 mentre si mangia, infermitá e sospiri
        menaccia al proprio corpo, che 'l divora.
 
 
        Se suso inverso il ciel ancor tu miri,
        menaccia a te il Giudice di sopra,
        se gli fai cosa, per la qual s'adiri.
 
 
   70 La terra, che convien che ancora il copra,
        e giú l'interno ancor gli fa paura,
        sí come punitor di sua mal'opra.
 
 
        Se a destro ed a sinistro si pon cura,
        vede che ogni vizio quivi offende,
   75 e teme a' suoi coniunti ogni sciagura. —
 
 
        Ahi quanto di vergogna il viso accende,
        quando alcun riprendente è poi ripreso
        di quel medesmo, del qual e' riprende!
 
 
        Cosí io feci, quando l'ebbi inteso;
   80 e però dissi: – Prego mi perdoni,
        se, Fleias, col mio dir t'avessi offeso.
 
 
        – O tu, ch'andi la strada e che ragioni
        e dietro a dea Minerva movi i passi,
        vedendo d'esto inferno le magioni:
 
 
   85 – cosí gridò un de' miseri lassi
        e poi subiunse: – io prego che tu torche
        verso me il viso, innanti che tu passi. —
 
 
        Io mi voltai e vidi un su le forche
        col capo chino tanto, che le guancia
   90 a lui toccava quasi una dell'orche.
 
 
        – Morte e paura io posi in la bilancia
        – subiunse, – e poi la morte col capestro
        elessi a me per men pungente lancia.
 
 
        Troppo temendo in me il caso sinestro,
   95 me stesso uccisi: io son Architofelle,
        che fui nel consigliar sí gran maestro.
 
 
        Meco sta qui Saúl, re d'Israelle,
        e quei roman, che sol timor gli strinse
        e non vertú a spogliarsi la pelle. —
 
 
  100 Alquanto inver' di lui li passi pinse
        sol per parlarli; ma la dea non volle
        ch'io parlassi a colui, che sé estinse;
 
 
        ché, se fortuna il ben temporal tolle,
        non lieva però mai d'alcun la spene,
  105 s'egli da se medesmo non è folle.
 
 
        – Tu vederai, se tu ammiri bene,
        non tremar nullo, ch'abbia sé ucciso:
        risguarda, ed io dirò onde ciò viene. —
 
 
        Però io riguardai con l'occhio fiso;
  110 poi, vòlto a lei, diss'io: – Perché non trema
        qualunque dalla vita ha sé diviso? —
 
 
        Ed ella a me: – Quando la spen si scema
        tanto in alcun, che niente rimane,
        colui non ha amor, né anco téma;
 
 
  115 ché le paure e l'allegrezze umane
        procedon da speranza e dall'amore,
        che porta l'uomo a vostre cose vane.
 
 
        Però, se tutto, amor e spene, more,
        mor la letizia, che da lor procede,
  120 e la paura, e sol ha poi il dolore.
 
 
        Il qual il disperato fuggir crede,
        fuggendo sé, e uccide allor se stesso
        con crudeltá, credendo far mercede.
 
 
        E, se speranza non avesse appresso
  125 il fren d'alcun timor, cresceria tanto,
        che faria stolto per lo troppo eccesso.
 
 
        Cosí il timor, se seco non ha accanto
        dolcezza di speranza, tanto teme
        e tanto vien in doglia ed in gran pianto,
 
 
  130 che nol sostiene e sé di morte oppreme;
        ch'ogni timor all'uomo è sí a noia,
        che piú tosto vuol morte che lui inseme.
 
 
        Nulla allegrezza e nulla cara gioia
        è tanto dolce, che rispetto a quella
  135 non sia piú amaro all'uom temer che moia.
 
 
        E tu sai ben che l'Etica favella
        che 'l timor troppo nullo portar puote:
        tanto la mente e l'animo flagella.
 
 
        E da qui il timor van, se tu ben note,
  140 in mille modi il suo balestro scocca
        nel mondo all'uom e l'animo percuote;
 
 
        tanto che giá come presente tocca
        quel che non è e forse fia niente,
        e giá piangere fa la mente sciocca.
 
 
  145 Se a questo e a quel ch'io dissi ben pon' mente,
        nulla pena è maggior che star in forse
        di quel che spiace e che pò far dolente.
 
 
        Ognun ch'al van timor ben si soccorse,
        spregia la morte e sol teme il Monarca,
  150 che 'l tempo breve e la vita ne porse:
 
 
cosí senza timor secur si varca. —