a Matilde Serao
Signora,
la vostra sensibilità di grande interprete dell'anima vi ha messa in diretta e immediata comunione coi miei personaggi, sicchè voi avete scritto di questa opera mia con quello stesso fervore spirituale che, facendo passare l'altrui vita a traverso il vostro temperamento, crea le palpitanti opere vostre. Scrivendo de La piccola fonte, voi, quasi per iscusarvi presso i vostri lettori d'una effusione che non vi consentiva un'analisi molto minuta del mio lavoro, avete dichiarato di non possedere le fredde ragioni della critica. Ma io credo che la chiaroveggenza della critica debba essere fatta, soprattutto, di sensibilità profonda. E, invero, nella prosa, con cui voi avete legato, dopo la rappresentazione di Napoli, il vostro nome illustre a una delle più liete vicende del mio dramma, sono condensati i pensieri, le impressioni e le ragioni dei critici che meglio mi hanno compreso. In voi come in loro i segni sintetici e significativi, che io ho sostituiti alla prolissità del metodico e formale svolgimento psicologico, da cui sono deturpate così spesso le visioni dell'arte, hanno avuto il potere di determinare quella virtù di penetrazione, che è il principio d'ogni più vivo godimento intellettuale. A voi, come a quei critici, Stefano Baldi non è parso un personaggio inventato da me per ottenere una facile vittoria contro i famosi precetti egoarchici, che una moda passeggera ha confusamente divulgati e screditati, ma soltanto è parso uno dei non pochi moderni giovani megalomani, che, miserelli e impotenti, si agitano e declamano inseguendo una chimera e che il disquilibrio tra la vanità esuberante e l'ingegno limitato, tra l'egoismo crudele e la debolezza congenita, rende grotteschi, simili a caricature, in mezzo alla società, e talvolta tragici e deleteri nell'intima cerchia degli affetti domestici. Voi, come tutti i critici che mi hanno compreso, contemplando Stefano Baldi, avete sùbito riconosciuto in lui uno di quei pigmei che si guardano in uno specchio d'ingrandimento, uno di quei rachitici che esaltano la crudeltà, l'ambizione, l'estetica della forza, il diritto della conquista, il culto della grandezza, e che poi traballano e tramazzano annientati al primo urto. E come tutti i critici che mi hanno compreso, voi, restando nell'àmbito della mia concezione, non vi siete occupata del personaggio di Stefano Baldi se non per il significato di correlazione ch'esso ha accanto alla mia Teresa. Voi, Signora, avete scritto che tutte le verità morali formanti la coscienza del mio dramma emanano da Teresa, «da questa creatura patetica, capace di fare il bene anche con la sua morte». Voi avete scritto che la morale bellezza dell'opera mia «è racchiusa in quell'anima muliebre», e la vostra fantasia gentile si è piaciuta di avvicinarla «alle più pure e soavi anime del teatro, da Ifigenia a Desdemona». Voi avete saputo vedere che intorno a lei, intorno alla «piccola fonte», si stringono, in armonia o in antitesi, tutti gli altri personaggi del dramma. Voi non avete dubitato che da quella piccola fonte – per una realtà flagrante, che pur sembra un prodigio, perchè nessuna indagine può precisarne gli elementi e nessun linguaggio può definirla – sgorghi l'acqua salutare di cui Stefano disconosce il beneficio e di cui Valentino, deforme, negletto e rassegnato, sugge furtivamente qualche goccia in una specie di estasi che solleva dalla miseria quotidiana la sua povera esistenza. Voi avete intuita l'affinità che unisce tra loro Teresa, Valentino, e il Vecchio marinaio mendicante – ingenuo rapsodo della saggezza e del fato – , i quali sono tre anelli della eterna e tenace catena di umile e dolorosa bontà che sostiene il mondo squassato dalla superbia, dalla tracotanza e dalla perversità. E voi avete, infine, intuìto il segreto dell'estremo sagrifizio che la dolce Teresa, nella sua veggente follia, compie sparendo in quel mare di cui il mendicante verseggiatore ha suggestivamente decantata la fida amistà. Le parole vostre, che compendiano tutta l'essenza di quell'ultima scena, non da me costruita, bensì dallo spirito stesso di Teresa chino sull'uomo addormentato nel primo riposo di sua vita, sono la formula concreta d'una divina legge di punizione e di soccorso trasparita ai vostri occhi dall'inconscio sagrifizio della demente. E, come per una creatura che sia davvero vissuta, io ben vorrei fissare a guisa d'epitaffio sopra una lapide, piuttosto che su questa carta destinata forse all'oblio, le parole con le quali la vostra sensibilità ha pianta e celebrata la sparizione della salvatrice:
«Quella morte era necessaria, e in quell'uomo che Teresa lascia dormente noi vediamo, nel tempo, la resurrezione d'una coscienza. Se Ella non muore, non può Stefano risorgere puro e forte, perchè non ci sono resurrezioni senza morti.»
Quand'anche, Signora, questo mio dramma non fosse stato sorretto dal plauso di tanti pubblici, quand'anche non avesse ispirato a tanti critici di altissimo valore pagine così belle e vibranti e a me così care, il commento vostro, offertomi non per dovere di giudice, ma per una genuina emozione di artista, sarebbe bastato a non farmi disamare l'opera mia. E per ringraziarvene ho scritto queste poche righe di prefazione.
Roberto Bracco.
Napoli, gennaio del 1906.
rappresentato per la prima volta al teatro Manzoni di Milano dalla Compagnia Talli-Gramatica-Calabresi, nel febbraio del 1905.
Stefano
Teresa
Valentino
La principessa Meralda Heller
Un vecchio mendicante
Una vecchia mendicante
Don Fausto
Romolo, cameriere
Stefano ha trent'anni. È di aspetto bello e piacente.
Teresa è bellina, esile, senza alcun connotato notevole. Può avere dai ventiquattro ai venticinque anni.
Valentino è quasi gobbo, bassotto. Faccia piuttosto smunta e ossuta. Mustacchietti scarsi. Occhi piccoli e scintillanti. La sua età è poco visibile: avrà un trentacinque anni.
La principessa Heller ha passata la trentina. È una donna affascinante.
Un lembo di parco a Posillipo. Un'ala del villino di Stefano Baldi – d'un'architettura semplice e aristocratica – si profila a destra, di sbieco, sopra una specie di terrazzino rettangolare senza ringhiera, fatto di mattoni patinati, che, dal livello del terreno battuto, si eleva per l'altezza di due o tre gradini, i quali sono di marmo ben levigato. L'entrata principale del villino non si vede, perchè è alle spalle di quest'ala. Si vede bensì un'altra porta, che dà sul terrazzino e sulla quale è una tenda piegata, che, distesa, la ombreggerebbe. Al di sopra della porta, sono tre finestrette graziose. Dal lato opposto del villino, dirimpetto all'uscio, è una breve aiuola, nel centro della quale si erge una magnifica musa con le sue immense foglie lievemente ricurve dal peso. L'aiuola è fiancheggiata, a sinistra, dagli alberi d'un boschetto. Di là dall'aiuola, sale e si perde, dietro questi alberi, un viale carrozzabile. In fondo, la linea d'un parapetto di pietra taglia l'orizzonte. Una striscia di mare d'un azzurro chiarissimo e brillantato quasi si confonde col cielo. Del Vesuvio si scorge, a sinistra, il declivio che dal vertice scende dolcemente sino al golfo.
Nello spazio rettangolare del terrazzino, sono comode seggiole a sdraio di paglia e di bambù. Tra il margine dell'aiuola e il terreno battuto, è un sedile di legno.
Il sole spande dovunque un biancore abbarbagliante.
L'aria è piena di gaiezza.
(la cui testa brutta sporge fra le spalle prominenti ed arcuate, è a una delle finestrette – la più visibile – intento a ravvivare una gran quantità di rose che sono in un orciuolo, sul davanzale. Giù, Romolo regge per il bavero una giacca, e Teresa con grande cura la spazzola.)
Meglio qui. È inutile impolverare la casa.
Signora Teresa! Che diamine fate?
Non lo vedete? Spazzolo i panni di Stefano. Tenete su, Romolo, tenete su.
Ma potrebbe pensarci Romolo a spazzolare i panni del padrone.
La signora non vuole.
Perchè con quella tua prosopopea non fai mai nulla di buono. Si sa. Un servo che si chiama Romolo non può abbassarsi a spazzolare i panni d'un padrone che si chiama semplicemente Stefano. Come se poi il tuo padrone fosse uno Stefano qualunque!..
(brontola:) Abbaia, abbaia, cagnaccio della malora!
(redarguendolo) Romolo! (Piega attentamente la giacca.)
(toglie le rose dall'orciuolo, vi muta l'acqua e ve le rimette a una a una.) Hanno vita corta queste rose, signora Teresa. Ho un bel mutar l'acqua! Cominciano già ad afflosciarsi.
Le avete lì da due giorni.
E che sono due giorni?
(ponendo la giacca piegata, sopra una seggiola – a Romolo) Il gilet, ora.
(prende un panciotto che penzola da una spalliera e lo porge a Teresa.)
(continua a spazzolare.)
Voi, qualche volta, le avete per una settimana, sempre fresche.
Ma se la notte ve le chiudete in camera…
Mi piace di dormire tra i profumi, signora Teresa!
E questo nuoce a voi e nuoce alle vostre rose. (Piega il panciotto.)
In altri termini, esse fanno male a me ed io faccio male a loro.
Così è, caro Valentino. (Consegnando i panni spazzolati al servo) Tutto questo nello spogliatoio.
(si avvia verso la porta, che è chiusa.)
Per dove andate, Romolo?!.. Entrare e uscire sempre per l'altra porta. E nello studio del padrone non dovete metterci il piede se non quando vi si chiama. Non dimenticatelo.
Sono in questa casa da dieci giorni e nessuno me l'ha mai detto.
Te l'ho detto proprio io che mi pregio di essere il tuo immediato superiore.
(facendo spallucce, va verso il fondo e svolta dietro l'ala del villino.)
Come si fa, signora Teresa? Tutta l'umanità mi disprezza.
Io, per esempio, no.
Be', ma voi non fate parte dell'umanità.
(ridendo) Ah ah!.. Questa poi è nuova. (Da un cestino di lavoro, che è presso il sedile, tira fuori della stoffa di poco conto e l'occorrente per cucire.)
(sempre alla sua finestra, carica una pipetta, l'accende, e fuma. Poi, scorgendo qualcuno) Ehi brav'uomo! Chi cercate?
Se è qualche seccatore di Stefano, non lo lasciate passare. Non è ora, questa. Intanto, io me la svigno. (In fretta, prima che l'uomo giunga, vorrebbe rimettere la roba nel cestino.)
Lasciate lì, ci bado io.
(scappa per dietro il villino.)
(che non ha udito, discende il viale, appoggiandosi al suo bastone, con l'aria autorevole della persona molto panciuta.)
(chiama forte:) Brav'uomo!.. Signore!.. Signore col bastone!
(ha udito un poco e si volta a destra e a sinistra.)
Qui! qui! Alzate la testa.
(finalmente alza la testa.)
Oh! Don Fausto! Che venite a fare in questi paraggi? Aspettate: scendo subito. (Dopo un istante, ricomparisce dal fondo.)
Guarda, guarda! Siete proprio voi! M'era parso e non m'era parso. Di giù, non vi vedevo le spalle. Io vi conosco meglio di spalle che di faccia.
Io, invece, vi conosco da tutti i lati.
Come siete capitato qui?
Ma io non ci sono mica capitato: io ci sto sempre. Sono impiegato presso Stefano Baldi. Sono il suo segretario, il suo maggiordomo, il suo copista, il suo galoppino… È vero che, in sostanza, non faccio mai niente, ma poichè egli mi fa mangiare, mi fa dormire, mi fa fumare e mi fa prendere aria, io ci resto volentieri. Non è poi scritto che si debba a forza lavorare. (Comicamente) Soltanto voi vi eravate fitto in mente di non pagarmi se non a condizione ch'io lavorassi. E una persona come me avrebbe dovuto fare il contabile nella vostra meschina fabbrica di saponi?.. Vedete quella finestra dove sono quelle rose?.. È la finestra della mia stanza, e lì… me la godo! Quando siete giunto, vi ho guardato dall'alto in basso. Caro don Fausto, voi non potrete mai immaginare fino a che punto io me ne infischi di voi.
… Io non ho udito quasi nulla del vostro discorso. Fatemi il favore: passate alla mia sinistra. Con l'orecchio destro non ci sento più.
(passando alla sinistra di don Fausto) E io dovevo sapere che avete perduto un orecchio?
Mi meraviglio. Tutti sanno dell'avaria che ho sofferta.
Ma perchè? Siete stato dichiarato monumento nazionale?
Monumento nazionale un corno! Tutti furono edotti di quel che mi accadde, perchè io misi un comunicato nei giornali.
Un comunicato nei giornali?
Contro il dottore specialista che mi aveva rovinato l'orecchio.
In onor del vero, vendicativo siete stato sempre.
Ah sempre! Questo sì. Canagliate io non ne voglio. Dunque, ripetetemi tutto quello che mi avete detto.
Ma io non ricomincerò certo da capo. Il succo è che io sono impiegato presso Stefano Baldi.
(mettendogli una mano sulla spalla) Forse, potreste essere l'uomo che mi ci vuole. Avete influenza su questa bestia rara?
Bestia rara siete voi.
Insomma, avete influenza su questo sedicente poeta?
Se non ritirate il «sedicente», non possiamo andare avanti.
Ritiro il «sedicente».
Tutte le persone che campano a spese di qualcuno hanno un po' d'influenza sul medesimo. Io, poi, oltre a campare a spese di Stefano, gli sono anche parente. Sissignore! Discendiamo dallo stesso ceppo.
Da Adamo ed Eva?
(contraffacendolo) «Da Adamo ed Eva!» (Carezzandogli il mento) Quanto siete grazioso!
Giù le mani!
Gli sono cugino in terzo grado, e cavatevi il cappello!
Io me lo caverò se riescirete a farmi dare le mille e settecento lire che mi deve.
Stefano ha preso da voi mille e settecento lire di saponi?!
Ma che saponi! Sono cinque anni che ho smessa la fabbrica perchè insieme con mio cognato – quello che perdette il posto al Museo – aprii in via Costantinopoli un magazzino d'antichità. Neppure questo sapete?
Chi volete che si dia la pena di parlarmi di voi?!
Io misi un comunicato nei giornali.
Un altro!
Che c'è di straordinario? Per questo ci sono i giornali: per metterci i comunicati.
Bel concetto che avete del giornalismo!
Veniamo al fatto.
Veniamo al fatto.
La bellezza di otto mesi fa, il vostro signor cugino in terzo grado prese da noi una cornice e due sedie.
Una cornice e due sedie, mille settecento lire?!
La cornice, settecento; e le sedie, cinquecento ognuna.
Dio sa quante volte mi sarò seduto su cinquecento lire e non me ne sono mai accorto!
Gli avrò scritto più di venti lettere.
E lui?
Lui, niente! Come se non ne avesse ricevuta nemmeno mezza.
(cacciandosi in tasca la pipetta spenta) Non ci badate: è un po' distratto.
(scaldandosi) Un po' distratto?
Del resto, la distrazione, si sa, è la malattia di tutti i poeti.
(alzando la voce) Ma lo guarisco io di questa malattia!
(toccandogli la pancia come si fa carezzando un cavallo) Buono, buono, don Fausto!
Giù le mani!
Uno di questi giorni, gli parlo io.
Oggi ho delle scadenze e mi necessita il contante per fare onore alla mia firma. Per mezzogiorno al più tardi, il mio conto dev'essere saldato.
Per mezzogiorno, è un po' difficile. Questa è l'ora in cui Stefano è chiuso nel suo studio, e guai a disturbarlo!..
Chiuso o non chiuso, se fra un'ora non sono soddisfatto, mando al vostro signor parente uno sveglierino per atto d'usciere e metto…
(continuando subito) Un comunicato nei giornali.
(fermamente) Nè più nè meno.
Così Stefano vi risponderà in versi.
E io lo chiamerò imbroglione in prosa.
Ma, dico: che modo di parlare è questo?!
E voi perchè mi stuzzicate?