Nur auf LitRes lesen

Das Buch kann nicht als Datei heruntergeladen werden, kann aber in unserer App oder online auf der Website gelesen werden.

Buch lesen: «La plebe, parte I», Seite 23

Schriftart:

Alla prima idea che gli balenò allora alla mente del matrimonio, il conte rise di se stesso a gola spalancata, e si promise di chiudere la porta del suo cervello ad ogni simile pensiero biscornuto, diceva egli con un sogghigno, che osasse ancora presentarglisi innanzi. Ma il giorno dopo, il barone La Cappa fu leggermente indisposto, ed il conte, come gli altri ospiti della villa, si recò a visitarlo nella sua stanza. Colà vide Candida nell'esercizio di uno dei più preziosi e cari uffici che la natura abbia affidato alle donne, quello di suora di carità; – e ancora la pietà naturale in essa addoppiata dall'affetto di figlia; – e le ironie del suo scetticismo si trovarono spuntate innanzi all'idea del matrimonio, che profittò di quell'occasione per ricomparire più ardita di prima. Candida, seduta presso il letto di suo padre con un lavoro in mano, gli parve mandare in quella stanza, traverso la sua modestia, una luce benigna e riconfortevole. Pensò alle lunghe ore ch'egli passava nella sua solitudine, quando il male lo inchiodava sopra il suo letto nelle ombre pesanti della sua alcova cortinata; e non ostante tutte le promesse che s'era fatto non iscacciò con mal garbo la bandita idea, ma anzi se ne compiacque. Ad un tratto sentì nascere in sè un sentimento che fino allora non s'era ancora mai manifestato: la voglia di continuare la nobile antica razza a cui aveva l'onore di appartenere. Gli parve un suo debito supremo codesto, grave colpa il non adempierlo. Che? Nessuno ci sarebbe stato, che, lui morto, com'egli aveva fatto per la madre, aggiungesse nella cripta del sepolcro famigliare un monumento ed un'epigrafe a ricordarlo? Nessuno più a portare negli alti gradi dell'esercito, o nelle ambasciate, o nelle sale della Corte colla chiave d'oro sulle reni, il fastoso, illustre nome di Langosco di Staffarda? Come non aveva egli pensato mai fino allora col dovuto orrore a tanta jattura della vera nobiltà e del paese? Finchè si era in tempo – e si era egli veramente ancora in tempo? in quel momento il conte osava sperarlo – finchè si era in tempo doveva affrettarsi ad antivenire un tal pericolo.

Siffatti pensamenti occuparono la mente del conte fino all'inverno, quando, raccolta di nuovo nella capitale tutta la società aristocratica, egli tornò avere l'occasione di trovarsi in presenza dei belli occhioni neri e delle lussureggianti chiome corvine di madamigella Candida.

Allora, per maggior stimolo ad affrettare quella decisione che pur tuttavia stentava a costituirsi e fermarsi, avvenne che i debiti dessero maggior fastidio al conte scialacquatore, e nella sua distretta, gli apparissero quali salvatori i denari della dote di Candida che facevano come un'aureola d'oro intorno alla bellezza della giovinetta. Si determinò ad un tratto al passaggio di questo rubicone matrimoniale. Che la sua domanda potesse venire respinta, egli non lo sognò neppure. Aveva troppa coscienza del vantaggio che gli dava il suo antico casato, troppo riteneva per impareggiabile l'onore di portare il suo nome, sapeva troppo la smania del barone di affratellarsi colla nobiltà vera, per dubitare un momentino che la sua proposta non venisse accolta col meritato entusiasmo. Quanto al consentimento di Candida ed a quello che potesse avvenire nel cuore di lei, egli non se ne preoccupò menomamente. Apparteneva ad una società in cui i matrimonii sogliono intendersi e conchiudersi dietro dati tutto diversi da quelli delle reciproche simpatie e della comunione dei sentimenti.

Fece dunque la sua domanda, e il fatto diede ragione alle sue superbe previsioni. Il barone aveva fino allora invano tentato il terreno di qua e di là, per trovare un vero discendente dei paladini delle crociate, al quale piacesse guadagnare con un semplice sì la mano, la gioventù, la venustà ed i milioni di madamigella Candida. Ben è vero che questa non aveva che diciott'anni, ma il barone era premuroso di godere della gioia di vedere la figliuola innalzata a quell'altezza a cui la voleva spingere nell'olimpo degli Dei terreni, di vederla cinta di quello splendore, del quale ben contava seco medesimo che un riflesso avrebbe riverberato su di lui.

Il conte di Staffarda non era più giovane – ma la sua stirpe era tanto antica!; non aveva fama di morigerato – ma nella distinzione delle maniere non aveva chi lo superasse; aveva una infinità di debiti – ma il suo palazzo, il castello e le terre del suo feudo erano inalienabili, vincolate in un maggiorasco, e Candida aveva una fortuna che si acconciava proprio a dovere colla grandezza e collo splendore del nome.

La possibilità d'una opposizione da parte della sua figliuola, non fu nemmanco ammessa dal buon genitore. Ed invero la giovanetta non pensò menomamente a ribellarsi alla volontà paterna. Era stata allevata con questa idea; la felicità del matrimonio le era stata indicata nella purità nobiliare d'un blasone. Si era insinuato in lei la convinzione che il genere umano era diviso in ischiatte, una sovrapposta all'altra, e che la superiore soltanto meritava il suo riguardo; tutti gli uomini delle caste inferiori erano poco più che animali soggetti, bene o male addomesticati.

– Avrai diritto di sedere a Corte, le disse il padre trionfante, e potrai essere, sarai fatta di sicuro dama della regina.

Questo le parve un gran che. Certo avrebbe preferito che tutti questi vantaggi le venissero innanzi rappresentati da un giovane e leggiadro cavaliere; ma dove e quando mai si può ottenere tutto ciò che si desidera? Il suo cuore non aveva ancora parlato; l'educazione fornitale e il modo di vita adottato erano tali da impedirgli anzi che parlasse, contento di far tranquillamente il suo dovere d'organo essenziale alla vita. Non ebbe nessun trasporto di gioia, non travide colla fantasia nessuna regione dorata nell'avvenire fra nubi di rose con amori sorridenti; ma senza la menoma riluttanza si dispose a pronunziare quel monosillabo fatale da cui tutta l'esistenza, tutto il suo destino dovevano dipendere, senza più redenzione.

Quel giorno in cui essa andò innanzi all'altare, ad inginocchiarsi sul cuscino di velluto rosso gallonato d'oro per mettere la sua fresca manina nella destra asciutta del conte, potevasi scorgere una nube di mestizia onde, a dispetto di tutto, era circonfusa la bella di lei figura.

Quanto a bellezza, nessun indiscreto avrebbe potuto desiderare di più in una creatura di ossa e di carne. Un pallore che si sarebbe potuto chiamar pensoso, rendeva più brillanti i neri occhi della giovane, colla cui pura e bianchissima fronte si accordavano a meraviglia i bianchi fiori d'arancio della sua corona e del mazzolino appuntato al suo petto.

Ho detto pensoso il pallore della sposa in quell'istante, perchè diffatti la mente di lei era occupata da mille confusi pensamenti, da dubbi e paure, da un'incerta temenza e peritanza che parevale un presentimento. Era come se, affacciandosi alla soglia di un'abitazione ignota, sentisse ad un tratto una voce gridarle nell'anima: – prima di avventurarti là dentro, guarda quello che fai!

Ma ogni considerazione era inutile oramai, ogni esitanza non era più che una follia, quasi una colpa. Affrontò bravamente l'ignoto di quel destino che le si presentava, e se il suo cuore batteva forte nel pronunziare quell'irrevocabile SI', la sua voce fu ferma tuttavia.

Uscì della chiesa con passo sicuro ed il viso tranquillo nella sua pallidezza, la mano nella mano del conte.

I suoi 18 anni erano legati coll'indissolubile nodo del sacramento alla prematura e corrotta vecchiaia di quel libertino elegante, scettico ed egoista.

Candida non aveva, come dissi, la menoma lusinga d'una illusione: ma quanto stette essa prima di accorgersi che s'era chiuso definitivamente ogni accesso ad una legittima felicità? Fin dal primo entrare nel fosco palazzo degli Staffarda, cui il conte in omaggio alle tradizioni famigliari da lui rispettatissime aveva voluto lasciare tal quale nella sua antica eleganza solenne; la giovane sposa aveva sentito abbattersele addosso come una fredda cappa, aveva provato una sensazione quasi uguale a quella di chi venendo dalle calde carezze d'un bel sole d'estate entri d'improvviso nel freddo ambiente di una stanza umida e scura. Quelle gran sale in cui regnava eterno il crepuscolo sgomentarono la giovinezza della ricca figliuola del barone, avvezza al suo salottino di ragazza color celeste ed al fresco nido della sua camera da letto color di rosa. Dagli angoli scuri di quegli immensi saloni pareva che il fastidio in agguato si slanciasse addosso a lei ad assaltarla. E qual difesa poteva ella fare? La compagnia del marito, dapprima le ispirò una gran soggezione, poi una indifferenza che piegava più verso la noia che altro; da ultimo, quando ebbe conosciuto per bene tutto l'arido scetticismo di quell'anima affatto spoglia d'ogni simpatica qualità, piuttosto rabbia e disgusto.

Durante il primo anno, la novità del genere di vita, le fastosità del mondo, la gran bisogna della toilette distolsero alquanto dalla reale miseria del suo stato la giovine donna; ma poscia un bel giorno ella ad un tratto intravvide che tutte le feste e le gioie della società erano una vana scorza sotto cui non c'era sostanza. Il vero diletto, la felicità della vita erano dunque in altre cose. Dove? Nella famiglia, per lei, no. Fuori della famiglia? Come? In che cosa?

Frattanto l'influsso deleterio degli esempi osservati in società, quello delle ciarle e delle mormorazioni che con un velo trasparente, onde maggiore ancora ricresce la realtà, pongono in mostra tutte le magagne dei costumi, esercitavano la loro opera corruttrice sulla giovane ed inesperta anima di quella donna, abbandonata ai suoi istinti. Il conte, come non poteva essere un marito ammodo, poteva tanto meno farle da consigliere, ufficio paterno d'uomo che ispira fiducia e rispetto. Il padre di Candida non parlava che di cortigianerie e di decorazioni. Candida, rientrando dalle adunanze, in cui aveva visto la sua bellezza eccitatrice d'ammirazione e di desiderii in tutti gli sguardi degli uomini – e per l'anima disoccupata d'una donna non c'è seduzione più perniciosa di questa – Candida si trovava sola col vuoto della sua vita e del suo cuore, col fastidio delle sue monotone giornate, mentre le susurravano ancora nell'orecchio, come il ricordo d'una musica soave, le frasi appassionatamente galanti di cui le si era fatto omaggio; e dietro le nubi di quell'incenso travedeva splendere affascinatore il sorriso dell'amorosa voluttà.

Di questa e di quella fra le più riverite e le principali dame della città si raccontavano gli amori, e le vicende e le mutazioni degli amori: nè mai era che una nota di biasimo suonasse per esse a tali racconti, sì invece si disegnava sul labbro del narratore e degli ascoltanti un sorriso quando si pronunziava il nome del marito, e Candida, senza punto condannarsene, senza nè anco accorgersene, già usava ella stessa partecipare a quel sorriso.

Quanti onesti non ha egli perduto questa considerazione: – se gli altri fanno così, e perchè non lo farei ancor io?

La giovane contessa Langosco era pervenuta d'altronde a quello stadio della vita in cui e cuore e sensi hanno raggiunto il pieno sviluppo ed imperiosamente domandano. Nel matrimonio nè questi nè quello per lei non trovavano risposta.

Il conte, qualunque fossero stati i suoi proponimenti nello stringere quel maritaggio, non aveva tardato a ricascare nelle primitive sue abitudini, e mentre lasciava alla contessa tutta quella libertà che nel secolo scorso lasciavano alle mogli i nobili mariti indifferenti, egli abusava di quella che si riservava piena ed assoluta per sè. I due coniugi vivevano affatto indipendenti l'uno dall'altro; appena era se si vedevano alle ore del pranzo, molte volte ancora il conte facendo annunziare alla contessa che non sarebbe venuto; e la medesima carrozza non li accoglieva insieme mai, se non quando le esigenze sociali comandavano che la moglie fosse accompagnata dal marito. D'uscire insieme a piedi non fu mai nemmanco quistione.

La giovane contessa viveva così infelice ed innocente, quand'ecco uno sciagurato amore invadere la, sua anima, e ridurla colpevole, e non certo felice davvero, ma darle almeno certe gioie febbrili, certe tremende emozioni, certi appassionati trasporti, che se non altro l'avevano tolta a quel marasmo in cui s'intorpidiva, che se non altro erano la vita.

La sua natura fino allora era rimasta coperta – era un mistero anche per lei. Di colpo, al contatto della passione, si rivelò in uno scoppio potente innanzi a cui ogni forza di resistenza sarebbe stata un nonnulla. Un'ardenza irrefrenabile la possedeva. Aveva nelle vene del sangue di Saffo. Amare, essere amata e morire: le parve tutto un invidiabile destino. Ed amò.

Aveva ella almeno scelto meritamente l'oggetto dell'amor suo?

CAPITOLO XXIII

Quel dì in cui aveva luogo il festoso ballo dell'Accademia erano già passati quattro anni dal momento in cui si era presentato la prima volta allo sguardo della contessa l'uomo fatale che sì funesto influsso doveva esercitare su tutta la vita della sconsigliata donna.

Era essa in campagna, sola, suo marito preferendo di rimanere in città alle sue abitudini del circolo, del giuoco, della compagnia delle ninfe del corpo di ballo.

Si annoiava maledettamente la povera contessa nella monotonia delle sue giornate senza vicende di sorta. Alcune delle sue amiche erano state a farle visita, e ripartite, lasciandole un po' di quel profumo storditore della vita cittadina, di quel fermento nell'anima, che depongono la mormorazione, la braca, come soglion dire i fiorentini, le ciarle maliziose della cronaca più o meno scandalosa; aveva ella appreso così che la marchesa tale aveva un nuovo amante, che la baronessa tal'altra era sempre fedele a quel suo ufficialetto di cavalleria, che il brillante contino *** si degnava far girare la testa d'una bellezza borghese, moglie ad un bravo commerciante della città, che per i begli occhi della presidentessa *** s'erano scambiati due colpi di sciabola un capitano delle guardie e un addetto d'ambasciata.

Rimasta con non altra compagnia che quella del suo specchio, il quale facevale i più adulativi complimenti sulla floridezza de' suoi venti anni, la noia spalancava in lei le porte della fantasia all'invasione delle più temerarie immagini; sentiva, come dice Alfredo di Musset, delle frasi di romanzo salirle al cervello. Guardava con profondo dispetto la calma della campagna, in cui il sole splendeva beatamente sopra una immutevole medesimezza di cose. Sentiva nascere in cuore un'uggia inesplicabile, ma viva contro i recessi ombrosi del suo parco, che non avevano per lei mistero nessuno, contro le amenità di quel soggiorno, che non dicevano nulla al suo cuore ed alla sua mente, nè una memoria del passato, nè una speranza dell'avvenire. Pensava di colpo far riempire le sue valigie e precipitare a Torino al trotto serrato dei suoi bei cavalli del Mechlenburgo. Perchè in quella sua solitudine il caso pietoso non avrebbe mandatole alcun avvenimento che rompesse quella desolante monotonia? Il più straordinario sarebbe stato il meglio venuto. Sognava da sveglia le più matte ed impossibili avventure cavalleresche. S'ingolfava nella lettura dei più strani romanzi che allora la moda voleva impinzati di fatti che non succederanno mai. Poi questa lettura la stancava, le faceva tanto di capo, le dava una specie di stordimento in cui la sua immaginazione quasi offuscata faceva scorrere con vertiginosa ridda tutte le vicende di quelle favole, aggrovigliandone i fili, complicandone gl'incidenti, riuscendo ad una faticosa confusione. Allora gettava il libro incollerita, serrava gli occhi, e faceva di per sè il suo romanzo, e lo vedeva incarnarsele dinanzi, come sopra le tavole d'un palco scenico, sotto le sue palpebre richiuse. Anche codesto finiva per irritarla. Sorgeva di scatto, faceva attaccare i cavalli alla carrozza frettolosamente, impazientandosi d'ogni indugio, come se la più importante cosa le premesse. Gettatasi sulle ricche treccie una cappellina qualsiasi, la prima che le capitasse, volava giù delle scale, si slanciava nella carrozza e comandava al cocchiere:

– Corri.

– Dove, signora contessa?

– Dove vuoi. Purchè tu vada lontano e presto!

L'aria che percoteva il suo viso parevale darle sollievo. Il moto che ne cullava la persona, il rumor delle ruote entro le orecchie, il sibilo del vento non le lasciavano più agio a formarsi ai suoi pugnaci e turbativi pensieri. L'intimo tumulto del suo spirito si calmava a poco a poco. Chi la vedeva in tali occasioni avrebbe detto per sicuro che un gran dolore occupava quell'anima, che una grande sciagura s'era precipitata su quella esistenza. Le ciglia aggrottate, le labbra pallide, serrate, lo sguardo profondo degli occhi neri fisso dinanzi a sè parevano indizio d'una preoccupazione dolorosissima. Se qualcheduno le avesse domandato in quella:

– Per amor di Dio, a che cosa pensate, contessa?

Ella avrebbe dato in uno scossone come persona sorpresa d'improvviso, ed avrebbe risposto in tutta buona fede:

– Niente!

Quando l'effetto di quella corsa concitata sul suo animo era ottenuto, Candida si passava la sua bianca manina sulla fronte e gridava al cocchiere:

– A casa!

E giuntavi risaliva nelle sue stanze per riprendere con più accanita perduranza la lettura dei nuovi romanzi francesi.

Quante volte, in quelle sue gite senza ragione e senza scopo, non prese ella a fantasticare che i suoi cavalli togliesser la mano, che la conducessero ad imminente pericolo di vita, che un eroe da novella saltasse fuori a salvarla con estremo suo rischio, cadendo vittima del suo bel tratto, gravemente ferito fors'anco! Cogli occhi della mente essa lo vedeva, questo incognito generosissimo e valorosissimo. Non era nessuno fra quanti giovani aitanti, leggiadri, aveva essa veduto fare sfoggio d'eleganza nelle sale della società più forbita, ma aveva un po' di tutti coloro; aveva specialmente quel non so che onde gli occhi della donna son presi, onde la sua fantasia è dominata. Pareva alla contessa che quest'individuo doveva esistere, che a un dato momento doveva comparire nella vita di lei, lo domandava alla fortuna, s'impazientava che tardasse.

I cavalli troppo ben guidati non ruppero mai il freno; il caso non si compiaceva mai di lasciar cadere il seme d'un'avventura in quel troppo ben disposto terreno.

Candida guardava sdegnata il bel sereno di quel cielo monotono sotto la cui volta non ispuntava nessun avvenimento, nessun pretesto di passione.

Un giorno la si era proprio decisa a partire per Torino. Gli ordini erano già dati; essa, col pretesto di vestirsi da viaggio, aveva fatta una toilette del miglior gusto che sia possibile immaginare, elegante insieme e modesta, di colori, di taglio, di stoffe i più atti a farne valere le forme bellissime e tutta la grazia della persona, e tutta l'efficacia delle sue attrattive. Avreste detto che la si era preparata per ricevere incognito il Prince charmant de ses rêves.

Quando fu pronta del tutto, si compiacque, secondo il solito, fermarsi innanzi allo specchio. Fece a se medesima un sorriso, per cui un poeta avrebbe detto la stanza tutta riuscirne illuminata. Un istante la compiacenza di se medesima diede alla sua fisionomia l'espressione della contentezza. Ma poi tosto scrollò le spalle e la solita nube di noia discese sulle sue sembianze.

– A che pro? Mormorò essa; e colla solita sua irrequieta impazienza corse al balcone a vedere se già era in ordine la carrozza.

Il garzone di scuderia teneva i cavalli per mano, ma il cocchiere invece di attaccarli, guardava in su nel cielo con aria dubitosa.

– Fate presto: gli gridò la contessa che calzava affrettatamente i suoi guanti.

– Credo che sia più prudente l'aspettare: disse il cocchiere.

– Perchè?

– Guardi lassù, signora contessa.

E il cocchiere additava il cielo.

Candida volse gli occhi in alto, e il bel sereno che i giorni scorsi l'aveva irritata cotanto vide sparito dietro grossi nuvoloni scuri e minacciosi che s'avanzavano rapidamente. In quel punto stesso un lampo abbagliante correva in essi e fragoroso rimbombava il tuono ad annunciare prossimo lo scoppiar del temporale.

Se non altro era quella una variazione, e Candida non ne fu scontenta.

– Fate rientrare i cavalli, e riparate nella rimessa la carrozza. Partirò dopo il temporale.

I servi ubbidirono mentre larghe gocciolone di piova cominciavano a cadere qua e colà con un rumor secco.

La contessa, vestita com'era, trasse una poltrona presso al balcone aperto, vi si gettò sopra abbandonatamente, e seguitando con elegante trascuranza a calzare i suoi guanti, stette a contemplare lo spettacolo del temporale che ad un tratto era furibondamente scoppiato.

Il terreno su cui guardava il balcone dov'era la contessa, terreno battuto che serviva da cortile, era chiuso dalla parte che si trovava in prospetto al palazzo, da una folta siepe alta un metro, al di là della quale si stendevano le praterie della vasta tenuta patrimoniale dei conti di Staffarda.

La pioggia veniva giù impetuosamente scrosciando, mista a un po' di grandine, e in un momento ebbe allagato tutto il cortile. Non più un essere vivo vedevasi per la campagna, la quale per le fitte righe della piova appariva all'occhio della contessa, come traverso un velo. Il fresco vento del temporale battendo sulle guancie di Candida parevano rinfrescarle il sangue. I lampi che tratto tratto squarciavano le nubi, rompendo la tenebria che aveva invasa la terra illuminavano uno strano sorriso sulle labbra di quella giovane donna. A che pensava ella? Non l'avrebbe saputo dire. Guardava lo stupendo spettacolo dell'uragano con molto più interesse di quanto avesse guardato mai splendida rappresentazione sulle massime scene della città. Sentiva mosso da più concitazione il rifiato, sentiva sotto un apparente languore rifluire più potente nelle vene la vita, il sangue le scorreva con rapidità quasi febbrile, pulsando alle tempia. L'elettricità ond'era satura l'atmosfera le scuoteva i nervi con vivo sussulto che non le tornava sgradito. Si sentiva ad un punto il cuore più palpitante, come se fosse per avvenirle qualche gran fatto. Danae solitaria pareva aspettarsi che nella pioggia di fuoco d'un lampo scendesse a lei e le si rivelasse il Dio dello sconosciuto.

Nel maggior strepitare del temporale, ecco presentarsi al suo sguardo la vista d'un uomo che al di là della siepe, sotto i torrenti d'acqua che piovevano dal cielo, correva precipitosamente verso il castello. Dietro quel velo della pioggia fittissima, a quella dubbia luce che rimaneva, ella non potè scorgerne che in di grosso le forme, ma dalla leggerezza con cui correva, appariva esser giovane, e da una certa grazia di movenze, si mostrava aitante di persona. Giunse alla siepe, correndo, spiccò un salto che avrebbe fatto onore al più abile ginnastico, e si trovò in mezzo al cortile. Colà vide la contessa al verone che per curiosità si era sporta alquanto a guardare, salutò gentilmente, scoprendo una ricca capigliatura inanellata ed una fronte giovanile sotto cui splendevano due sguardi accesi, e diviato si gettò sotto l'atrio.

La contessa al saluto di quel giovane si trasse vivamente indietro. Quel tanto che aveva visto di lui le aveva fatto conoscere ch'era un bel giovane e non vestito da contadino. Ecco invero un avvenimento straordinario nella monotonia di quella vita. Chi era mai codestui? Come e per qual caso in quelle regioni deserte, dove ella non aveva mai visto ombra d'uomo fuori dei villani delle sue fattorie? Una gran curiosità la colse. Lo stato nervoso in cui la si trovava era acconcio precisamente a dar maggiore vigoria e quasi direi importanza a questo che, se non altro, era un sentimento che rivelava la vita. Si levò da sedere con mossa irrequieta, e si avviò per andare a suonare il campanello con cui si chiamavano i servi.

Ma prima che ella giungesse al cordone che pendeva allato al camino, una mano discreta grattò all'uscio.

– Entrate: disse la contessa fermandosi e voltandosi a quella parte colle sopracciglia leggermente aggrottate.

Il battente s'aprì e comparve la cameriera tenendo in mano un piccolo vassoio d'argento.

L'occhio di Candida vide tosto in mezzo a quel piattello il bianco quadrato d'una polizzina di visita e avvisò tosto che la era quella dello straniero: ma, senza saperne essa stessa la ragione, credette bene dissimulare.

– Che cos'è?

– Un signore, sorpreso dal temporale in questi dintorni, rispose la cameriera, si riparò nel castello e prega la signora contessa a volergli permettere di aspettare qui che la pioggia abbia cessato. Perchè la signora contessa sappia a chi farebbe l'onore di accordargli questa momentanea ospitalità, le manda la sua carta.

– Va bene: disse Candida con isvogliata indifferenza che non era punto sincera, e presa la cartolina, con superba noncuranza vi gettò uno sguardo fugace.

In mezzo alla polizza eravi impressa una corona che pareva comitale, e sotto stava scritto:

Luigi Quercia Dottore

Il labbro della contessa fece una lieve smorfia che significava:

– Non conosco costui e non mi cale di conoscerlo.

Gettò essa con mossa affatto superba quel biglietto in un'elegante paniera di porcellana di Sèvres con ornamenti di bronzo dorato, la quale stava per questo ufficio sopra il ricco tappeto della tavola, e disse alla cameriera:

– Stia pur quanto vuole. Offritegli tutto ciò di cui possa aver bisogno.

E fece un cenno di congedo, per cui la fante si affrettò a partire.

Quando fu sola, Candida si riaccostò lentamente al balcone. Il temporale imperversava più che mai, ed aveva l'apparenza di durare tutto il giorno.

– Per quest'oggi è inutile pensare a recarsi in Torino: disse a se stessa la giovane donna. Il cattivo tempo non cesserà più fino a questa sera, ci scommetto. E questo cotale dovrà star qui tutta la giornata? Certo non lo caccierò mica dal castello. Ma che ci farà egli tutte quelle ore che saranno eterne?

Sorrise lievemente.

– Poverino! Lo compatisco. E' gusterà una dose di quel bel divertimento che io ho ciascun giorno a tutto pasto… Giusto! Egli è dottore. Se avesse nella sua scienza medica qualche farmaco per guarire dalla noia. Bah! Questi farmaci non è da un medico che bisogna andarli a cercare, sibbene da un uomo di spirito. Veramente l'esser medico non esclude l'aver dello spirito. E da quel poco che ho visto di costui, egli dev'essere così poco medico che quasi nulla, perchè mi pare un giovinetto forse appena appena uscito dall'Università. Se la sua compagnia fosse dilettevole!..

Scrollò le spalle, come fa chi vede presentarglisi alla mente una idea assurda.

– Io di certo non vedrò questo signore per poterne giudicare. Un medico!.. Peuh!

Tornò presso la tavola e riprese in mano la polizza di visita di quel cotale.

– Oh oh! esclamò. Qui c'è una corona da conte… almeno mi pare… È dunque un nobile?.. Un nobile che fa il medico! È egli possibile?.. Forse qualche cadetto… qualche rampollo di famiglia rovinata… Ma come non aver scelto la carriera militare? E' mi pare giusto che quel giovane starebbe a meraviglia colla montura di cavalleria d'artiglieria addosso.

Le parve rivederlo in quel punto, come lo aveva visto poc'anzi nell'atto di saltare con tanta agilità la siepe del cortile.

Un'idea matta, balzana, ma piacevole alla sua immaginazione, l'assalse. Le sembianze di quel giovane potevano corrispondere benissimo a quelle dell'essere ideale che da tempo era l'eroe delle sue strane fantasticherie. Non aveva potuto veder bene quella faccia risoluta e leggiadra, ma pur le pareva che non avrebbe potuto disdire all'eroe de' suoi sogni. Si diede a ridere di sè stessa, ma nemmanco quelle risa non erano sincere. La preoccupazione curiosa si era impadronita fortemente della sua anima.

– Luigi Quercia! Ripeteva fra sè la contessa tenendo l'occhio fisso nei caratteri stampati su quel pezzetto di cartoncino. È un nome affatto ignoto per me. Non ho mai sentito a nominare un simil casato nella nobiltà torinese. In questo paese non esiste famiglia di tal nome. Ch'egli sia un qualche medicuzzo venuto da poco a stabilirsi nel vicino villaggio. Se io interrogassi codestui? Che male ci sarebbe? Ci occuperei se non altro un dieci minuti di tempo.

Si avvicinò vivamente al cordone del campanello, ma si fermò poi tosto.

– Può darsi che io mi trovi a fronte uno zotico campagnuolo… Ebbene allora servirà per farmi ridere. Ah! in una solitudine come la mia, non bisogna guardarla tanto pel sottile nelle distrazioni che ci si presentano.

E diede una tirata al campanello.

Aveva appena suonato che si era pentita, non avrebbe voluto averlo fatto. Studiò di chiedere qualcun'altra cosa alla cameriera che si sarebbe presentata. Quando udì il solito grattar dell'uscio si gettò a sedere abbandonatamente sul sofà e prese l'aria più indifferente che seppe.

– La signora contessa ha suonato? Domandò la cameriera, entrando.

– Sì… Per oggi non si parte… Riponete la mia roba.

– Signora sì.

Quando la cameriera fu presso all'uscio:

– E quel signore, disse la contessa sbadatamente giocherellando con un fiocco d'un cuscino, è egli ancora al castello?

– Sì signora. La vede bene: fa un tempaccio da non metter fuori un cane.

– E che fa egli?

– Guarda la piova a cadere e canterella fra i denti… Ha domandato se non avrebbe potuto presentare i suoi omaggi e fare i suoi ringraziamenti alla padrona.

– Ah sì? E che aspetto ha egli?

– È un bellissimo giovane.

– Non vi domando questo: disse con voce severa la contessa, come se la giovane avesse pronunziato una sconvenienza. Vi domando se le sue maniere sono d'uomo ammodo.

– Per l'affatto. E' mi pare un perfetto gentiluomo.

– Qualcheduno dei famigli lo conosce?

– Signora no.

– E dei contadini?

– Neppure.

– Non è dunque abitante di questi dintorni?

– No signora; ma il cacciatore della signora contessa dice averlo già visto altra volta gironzare per queste parti. Una sera poi incontrò un elegante cabriolé che trottava sulla strada per a Torino, e in esso giurerebbe che c'era questo signore.

– Un cabriolé elegante?

– Sì signora con un cavallo di gran prezzo.