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Buch lesen: «La plebe, parte I», Seite 12

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« – Per servirla: gli risposi nel tono medesimo.

«L'ufficiale corrugò la fronte e prese un accento ancora più insolente.

« – Ho bisogno di parlarle. Venga meco.

«Io lo guardai dall'alto al basso.

« – Se ha qualche cosa da dirmi, risposi, può parlare qui stesso.

« – Signor no, questo non è luogo da simili discorsi. Orsù meno parole. Si compiaccia seguirmi.

«Questo dialogo, benchè fatto a voce bassa, aveva attirato l'attenzione dei circostanti, che si affollavano a far cerchio intorno a noi. Feci un lieve cenno di testa ad accennare che acconsentivo, e lo seguii fuori del gran salone.

« – Ora, mi dica senz'altro quel che mi vale la fortuna di questo colloquio: dissi, quando giunto in una delle sale vicine, piantandomi fermo a metà. E l'ufficiale, con quel medesimo piglio con cui s'arresta un malfattore, mi rispose seccamente:

« – D'ordine del signor Generale, conte Barranchi, le intimo di uscire dalla festa, e di presentarsi domani mattina dal commissario Tofi ad udire gli ammonimenti che le convengono.

« – Signore, risposi, di questa società che dà la festa e riceve lei come invitato, io sono parte. Posso dunque dire di essere a casa mia, e non ammetto in nessuno il diritto di scacciarmene.

« – Che diritto, o non diritto? Prorupp'egli. L'ordine è di farla partire e lei partirà.

« – No signore.

« – Badi bene a quello che fa!

« – Ho già bell'e badato.

« – Vuole dunque che io riferisca questa risposta a S. E.?

« – La riferisca a cui le pare e piace.

« – Va bene.

«Fece un giro sui talloni, e sparì. Pochi minuti dopo mi raggiunse più brusco e più inurbano di prima.

« – S. E. il Generale vuol parlarle egli stesso. È qui in questo gabinetto che l'aspetta.

«Mi condusse nel medesimo salottino dove Quercia mi aveva condotto poc'anzi.

«Il conte Barranchi stava piantato, duro come un piuolo, il mento fieramente appoggiato sul suo goletto duro, impettito nella sua corpulenta statura da granatiere, lo sguardo pieno di minaccia, la bocca atteggiata a severità sotto i suoi ispidi baffi, la mano sinistra posata sull'elsa del suo sciabolone, tutto sbarbagliante sotto i lumi nella sua gran montura da generale.

«Mi guardò con piglio di tanto superbo disprezzo che me ne sentii friggere il sangue; e poi, dirigendomi la parola con oltraggiosa imponenza, e dandomi del voi, come avrebbe fatto ad un suo carabiniere preso in fallo di disciplina, mi disse in tono d'interrogatorio fiscale:

« – Ah ah! Siete voi il nominato Francesco Benda?

«Io sentiva l'ira venirmi crescendo sempre più entro l'animo. Quel volto poco intelligente ma impertinentissimo di poliziotto cortigiano, quel tono, quel darmi del voi, mi aumentavano il furore che appena potevo oramai contenere. Lo guardai in faccia come pochi osano guardare quel prepotente che dispone a suo scellerato arbitrio della libertà dei cittadini, audacissime parole mi vennero alle labbra, fui per dargliene del voi, come egli faceva meco, mi contenni a stento, e risposi asciutto:

« – Son io.

«Il mio contegno parve dapprima maravigliarlo altamente, poi indignarlo vieppiù.

« – Cospetto! Esclamò egli, battendo colla mano in sull'elsa. Voi tenete la cresta molto alta, signorino, ma ve la faremo abbassare. Oh oh! se ve la faremo abbassare.

«L'ufficiale che lì mi aveva condotto, accennava partire. Il Generale gli si volse bruscamente e con tono di comando militare, gli disse:

« – Lei stia qui, pronta ai miei ordini.

«Poi tornò parlare a me con accento d'interrogazione:

« – Avvocato, se non isbaglio?

« – Sì.

« – Ebbene sappiate che se all'Università S. M. vi ha lasciato insegnare a far l'avvocato, non è perchè cerchiate dei cavilli e delle ragioni da discutere gli ordini che vi si dànno in servizio di S. M. medesima.

«Io volli parlare, ma egli non mi lasciò aprir bocca.

« – Non vogliamo tanti ragionamenti e tanti ragionatori, avete capito? Vogliamo gente che ubbidisca, e basta. L'avvocato andate a farlo in tribunale, se qualche disgraziato vi confida il patrocinio della sua causa: ma quando un ufficiale dell'Arma d'ORDINE MIO, vi intima una cosa, corpo di bacco, vogliamo nissuna osservazione e pronta ubbidienza. Avete capito? Gli è proprio che viviamo in certi tempi, mio Dio! in cui questa gente da nulla mette su delle arie, e se la lasciassero fare!.. Voi già vi conosciamo, signor avvocato, ve lo dico io, vi conosciamo ed abbiamo l'occhio aperto su voi… Siete un liberale, voi, leggete i fogli, voi, vi fate venire dei libri, voi… Buffone che siete!..

« – Signore! Esclamai io che non ne potevo più, affrontando arditamente il suo sguardo.

«Egli battè di nuovo e più forte, sull'elsa della sciabola.

« – Corpo del diavolo! Gridò. Che cos'è questo tono? Che cosa è questo guardarmi in faccia? Abbassate quegli occhi. State come si deve innanzi ad un superiore.

« – Ella non è mio superiore.

« – No? Proruppe con vivissima indignazione. Sentitelo! E' pretenderebbe forse d'essermi uguale? Che cosa siete voi? Figliuolo d'un ferraio, se non isbaglio. E perchè, coi pochi denari che vostro padre ha guadagnato bassamente trafficando, ei vi ha fatto studiare all'Università, vi credete qualche cosa… Tutti così questi borghesi, e se non ci mettessimo riparo, la società sarebbe posta a soqquadro… Avreste fatto meglio a continuare il mestiere paterno, signor avvocato, ed apprendere invece ad essere più rispettoso verso i poteri sociali e verso l'autorità. Signor tenente, soggiunse, volgendosi all'ufficiale, ella ha avuto torto quando questo bel signorino le rispose in quel modo, a non farlo prendere da due dei nostri uomini e condurre al Palazzo Madama. Colà sogliono sfumare i fumi e gli orgogli di questi signori liberali. E sarà ciò che farò per Dio! avete capito? E gli è quello che vi tocca, e niente più, sapete?.. Noi abbiamo voluto essere generosi verso di voi, e voi ci rispondete in questa guisa? Bene! Vi farò tradurre in prigione, come avrei dovuto subito, e passerete sotto il vostro bravo processo innanzi all'Uditorato di Corte6. Voi siete reo di lesa maestà: voi avete osato trascorrere a vie di fatto sopra un ufficiale di Corte, figliuolo d'un ministro di Stato; perchè il marchesino di Baldissero è ufficiale di Corte, sapete, e suo padre, il signor marchese, è ministro di Stato; e codesto l'avete osato mentre qui trovavasi Sua Sacra Real Maestà!..

« – Ma io fui prima e fieramente insultato da quell'uomo…

« – Non m'interrompete! Gridò con voce tonante il Generale. Quell'uomo!! Chi osate chiamare così, voi? Il marchesino? Che nuova impertinenza è questa? Ardite dirvi insultato?

«Volli dir come; ed egli:

« – Zitto! So tutto. Vorreste mettervi a paragone col figliuolo di S. E. il marchese, voi figliuolo d'un ferraio? Zitto! vi dico, e abbasso quegli occhi, vi dico! Ringraziate la mia clemenza, se non vi ho fatto subito arrestare; ringraziatela, se anche adesso vi lascio andare a casa vostra invece di mandarvi a dormire sul tavolato nel Palazzo Madama. Andate, domani vi presenterete dal commissario Tofi, il quale vi dirà le ulteriori determinazioni che saranno prese a vostro riguardo… Ancora una parola. Ho udito che avete avuto la temerità di parlare di sfida e di duello col marchesino. Badate bene a non fare la menoma sciocchezza di questo genere. Dimenticate e fatevi dimenticare; è il meglio ch'io possa consigliarvi… Andate.

« – Vado, signore; diss'io allora: ma gli è soltanto, perchè cedo alla forza. Quanto ai partiti che mi rimangono a scegliere, consulterò l'onor mio e null'altro.

«Mi volsi sui talloni e partii, udendo il Generale che mi borbottava dietro delle minaccie, fra cui compresi le parole: – Lo metteremo alla ragione. L'ufficiale mi accompagnò sino alla stanza dove son deposti i mantelli. Colà mi lasciò con un superbo saluto, e mentre io me ne usciva passò come per azzardo sul pianerottolo il dottor Quercia, il quale mi disse in fretta in fretta all'orecchio:

« – È tutto combinato. Domattina alle sette sarò a casa vostra. Abbiate con voi un altro amico. Vi batterete alla pistola.

«E guizzò via come un lampo.

«Corsi qui da voi. Ho bisogno di vendetta. Ma la mia vendetta personale non basta. È tutto un sistema infame che ci opprime e cui bisogna rovesciare ad ogni costo. Sia dunque benedetta la rivolta, e facciam presto a toglierci questa vergogna e questo peso di dosso.»

– È giusto: disse Maurilio. Bisogna volercene liberare da questa oppressione e da questa vergogna; ma bisogna pure calcolare i mezzi che si hanno e prevedere i possibili effetti di essi. Il tuo patriotismo, Francesco, il tuo amor di libertà, subitamente ancora concitati da un gravissimo oltraggio personale, ti fanno or ardente per le audacie estreme e per gli estremi rimedi al pari, se non più, di Mario Tiburzio, il quale ogni passione della sua giovinezza ha concentrata in questa passione sublime dell'amor di patria…

Francesco Benda fece un moto.

– Non ti dico ciò come un rimprovero: s'affrettò Maurilio a soggiungere. È quasi sempre così, deve essere così che a spingerci all'azione, a quel supremo passo in cui dal campo del desiderio, del pensiero, si va alla palestra del fatto abbia da concorrere una ragione personale, che assalendo direttamente la nostra individualità, sgombra ogni ritegno che questa suole pur sempre arrecare. Guglielmo Tell non amava egli la sua terra e la sua libertà? Ma per deciderlo alla rivolta occorse che il tiranno lo insultasse nella sua dignità d'uomo ed empiamente lo trafiggesse nelle sue viscere di padre. Favola o storia, quella è la verità della natura umana. Tu dunque, come ognuno di questi nostri amici, sei pronto alla disperata lotta ed alle prove estreme. E sia! Ma prevediamo un poco quale sarà quel futuro che noi riusciremo a provocare. Hai tu pensato, in caso di sconfitta, ciò che sarà di te e della tua famiglia? Noi, ribelli, ci può colpire anche la morte; sicuramente la carcere lunga e dolorosa o l'ugualmente doloroso esilio. Io fui sempre solo al mondo, Romualdo non ha più nessuno de' suoi, Mario Tiburzio e Giovanni Selva hanno ormai, per diversa ragione ma con identico effetto, spezzato ogni vincolo colla famiglia, e possono riputarsi soli ancor essi; ma tu, Francesco, ma tu, Antonio, avete un legame sacro che vi stringe a degli esseri carissimi, cui trascinerete con voi nella vostra rovina. Vinceremo, voi dite, e Mario, acquistato il concorso della forza cieca e irresistibile della plebe, è pronto ad affermare certo il successo. Ma anche di questa vittoria sono terribili gli effetti. Quella plebe suscitata adescandone i materiali istinti, che in una parola si traducono in sete di rapina, quella plebe manderà a soqquadro l'assetto sociale. Immaginatevi quanti eccessi, quanti danni, quante ruine! Anche in codesto noi non siam tutti in pari condizione. Che ci ho io da perdere, io che non possiedo nulla? Ma tu, Francesco, hai pensato che il baratro cui stai per aprire ingoierà molto agevolmente, e voglio anzi dire sicuramente, le ricchezze di tuo padre, le fortune della tua famiglia? Quelle vaste officine che tuo padre ora governa con mente retta e con mano ferma, saranno peggio che deserte, saranno devastate e distrutte; quegl'immensi capitali cui nella tua famiglia radunarono i lavori costanti e tenaci di più generazioni d'uomini attivi ed intelligenti, quei capitali ora investiti in edificii, in macchine, in magazzini di merci, in prodotti ed in istrumenti di nuova produzione, quei capitali che ora, mercè il lavoro, fruttano pane a tanta gente, saranno dispersi; per tuo padre è assai probabilmente la rovina, per la tua famiglia la miseria fors'anco…

Francesco Benda, in preda ad una viva agitazione, si coprì con una mano gli occhi e interruppe con febbrile commozione:

– Oh taci! taci!

Tiburzio, che aveva ascoltato colla fronte corrugata le parole di Maurilio, disse a sua volta con amaro accento:

– Questa è sapienza di troppo prudenti propositi. È legge fatale nella creazione che nissun bene cospicuo si ottenga senza passare tramezzo ad una severa prova di mali. Troppo facile appunto sarebbe l'eroismo, se il fine sublime che uom si propone potesse raggiungersi senza suo danno, senza suo schianto di cuore. Bisogna, assolutamente bisogna che anche un popolo, per arrivare un progresso, lo sconti colle lagrime e col sangue. Quando la meta è santa, è dovere camminare animosamente verso di essa, non curando se per arrivarci occorra lacerarsi fra i triboli e seminar qualche rovina. Chi pensa a questa soltanto e s'arresta pel timore di essa, non ha cuore di patriota.

Maurilio divenne rosso sino sulla fronte e i suoi occhi balenarono d'una vivissima fiamma. Avreste detto che vivaci parole stavano per prorompere dalle sue labbra; invece, per una di quelle sue solite e subitanee riazioni, impallidì nuovamente di botto, si tacque e tornò a sedersi presso il camino, dove stette un po' accasciato, il petto curvo, gli occhi semispenti fissi di nuovo nell'agitarsi della fiamma.

Ebbe luogo un istante di silenzio, in cui tutti sei quei giovani stettero immobili, lo sguardo rivolto a terra, dominati da una preoccupazione suprema.

Fu Maurilio a riprender primo il discorso, ma colla voce più fievole, più sorda e sommossa che mai.

– L'uomo forte (disse egli senza cambiare punto di postura), affrontando il pericolo, deve rendersi conto di tutta l'estensione di esso. L'eroe è quello che colla coscienza dei danni che gli sovrastano, s'accinge pur tuttavia all'impresa, il debole chiude gli occhi, non vuol vedere i pericoli, e poi quando vi si trova avvolto, si pente, si smarrisce d'animo e vien meno a se stesso. Ho pensato miglior avviso richiamare le vostre menti alla realtà dei rischi che ci aspettano. Ciò non vi trattiene? Tanto meglio. Ed io – già ve lo dissi – sono con voi. Fate arrivare il giorno della battaglia, e vedrete se io, semplice soldato, non combatterò con tutta voglia e con tutto ardore.

Si strinsero tutti sei intorno al fuoco quegli imprudenti ma generosi giovani, e gravi decisioni furono prese; quali fossero vedremo in appresso.

Quindi si parlò eziandio del caso particolare di Francesco. Il duello col marchesino di Baldissero bisognava assolutamente che avesse luogo. Uno dei padrini era il sedicente dott. Quercia; l'altro fu deciso che sarebbe stato Giovanni Selva.

Francesco Benda, coi più affettuosi saluti e strette di mano degli amici, accompagnato dagli augurii di tutti, se ne partì per andare a casa, a porre in sesto alcune sue carte, a scrivere un addio alla sua famiglia; a prepararsi per lo scontro. Selva sarebbe andato da lui all'ora posta dal dott. Quercia.

Antonio Vanardi si ritrasse nelle sue stanze, dove fece piano più che potè a coricarsi per non isvegliare la moglie, la quale lo avrebbe tempestato di mille domande. Ma ciò non gli valse gran fatto, perchè quando fu a letto ed ebbe spento il lume, la profonda agitazione che aveva addosso per le cose avvenute nella sera, e specialmente per le decisioni prese, non gli lasciava non solo chiuder occhio, ma nemmanco quietar la persona; onde, e gira e rigira fra le coltri, e sospira e sbuffa, la Rosina fu presto svegliata, ed accortasi dello stato in cui si trovava suo marito dopo aver vegliato così tardi, cominciò quell'interrogatorio insistente e fastidioso, frammischiato di collere, di preghiere, di lagrime, di supposizioni, cui il buon Antonio temeva cotanto.

Certo il marito si difese bene in questa lotta contro la curiosità e diciamo pur anche l'affettuoso interesse della moglie, e non una parola gli scappò dalle labbra che potesse mettere in sulla strada della verità la Rosina, poco destra d'altronde nello indovinare e specialmente in questo genere di cose che costituivano un mondo affatto chiuso alla mente della brava donna; ma una cosa rimase per certa nell'animo della moglie, ed è che da qualche tempo fra suo marito e gli amici di lui si maneggiavano dei misteriosi raggiri, che in quella notte si era tenuta una di quelle conventicole, cui ella aveva già notato altre volte, e che le cose trattatesi dovevano essere state più gravi del solito, se suo marito le era tornato dappresso così tardi, così irrequieto, e d'un umore cotanto alterato che, mentre ella d'ordinario poteva ben vantarlo come un vero agnello, ora alle interrogazioni di lei si era posto a rispondere come un basilisco. Ma quali erano questi raggiri? Questo gli è che le cuoceva sapere. Ora non vi ha nulla di più pericoloso che una donna ciarliera, la quale sa che vicino a lei esiste un segreto, ed ha la matta voglia di apprendere questo segreto qual sia.

Mentre Antonio bisticciava colla moglie, Romualdo andava a letto dietro il paravento, Mario si metteva al tavolino a scrivere appunto per la grande impresa; Selva e Maurilio si ritiravano nella stanza vicina, dove avevano ambidue il loro letto l'uno accosto all'altro.

Non avevano sonno neppure. Erano dominati ambidue da una irrequieta tristezza di pensieri. Maurilio sedette presso al suo letticciuolo, ci pose su il braccio ed appoggiò a questo la testa che gli ardeva. L'avreste detto assopito al vederne gli occhi chiusi e l'immobilità della persona; ma il contrarsi tratto tratto de' suoi lineamenti manifestava che una dolorosa meditazione possedeva quell'anima. Ad un punto, di sotto alle palpebre abbassate comparvero due goccioline, s'ingrossarono fra i cigli, parvero direi quasi, esitare, poi, come staccatesene a malincuore, lentamente colarono due lagrime giù per le guancie. Quando le sentì sulle labbra, Maurilio si riscosse; sorse di scatto, le asciugò con rabbia, e si pose a passeggiare concitato per la stanza.

Giovanni, che s'era gettato sul letto vestito come si trovava, per essere pronto a recarsi fra poche ore presso Francesco; Giovanni gli disse affettuosamente.

– Vieni a riposare, Maurilio.

Questi al suono amichevole di quella voce si fermò e si volse ratto là donde era partita. La sua fisionomia era commossa con espressione affatto nuova, quale nessuno in esso non aveva visto mai. Accorse al letto di Giovanni e gli prese vivamente la mano.

– Tu non mi disprezzi, non è vero Giovanni? Tu non credi che io sia un vile?

Selva sorse a sedere sul letto e rispose con caloroso affetto:

– Mai no. Che pensieri sono questi?

Maurilio si strinse con tuttedue le mani la vasta fronte e con voce soffocata e quasi affannosa proruppe impetuosamente:

– Giovanni, questo è un momento strano nella mia vita, un momento che forse non si rinnoverà più… Io che sempre fui chiuso in me stesso, ho bisogno di espandermi… Soffro ed ho bisogno di parlare. Tu sei quello che più m'ami… che io più amo… A te debbo la vita, a te debbo d'essere stato chiamato fratello da labbro umano… vuoi tu accogliere la piena del mio cuore che trabocca? Nessuno mi conosce, nessuno mi conoscerà forse mai! Vuoi tu leggermi nell'anima?

– Parla, parla: disse Giovanni con calore, abbracciando Maurilio.

Questi sedette sulla sponda del letto dell'amico, e le mani intrecciate con quelle di Giovanni, così di subito prese a parlare.

CAPITOLO XV

«Quello, che ora è finito, è giorno solenne per me: dies nigra notanda lapillo: il giorno in cui ricorre quello dal quale incomincia, se così mi lasci dire, l'epoca storica della mia vita. Ventiquattro anni or sono, nella prima mattina di un tal giorno di questo mese, io, bambino di poche lune, fui trovato in mezzo al fango del selciato in una delle più luride vie di questa città.

«Era un giorno precisamente come quello che or ora è caduto nel baratro del passato, scuro, tristo, nebbioso, pieno di freddo e di neve. Me lo ha detto mille volte quel crudele che ebbe, trovandomi a vagire, la funesta pietà di raccogliermi.

«Non ho nome, non ho famiglia, non sono figliuolo di nessuno. Un fatal giorno, certo non desiderato, forse paventato, oggetto fin da prima del nascimento di rammarico e di odio, me ne venni al mondo per incontrarvi od una subita morte o l'abbandono. La mia nascita forse fu un peccato, forse un delitto, o venne accrescimento di miseria a miserissimi; vollero togliersi via dagli occhi con me un rimorso od una vergogna, o semplicemente una bocca di più da alimentare.

«Fui abbandonato! Là nelle immondizie d'una immonda strada, alla ventura d'essere schiacciato da un carrettiere incauto, o lasciato morire da insensibili passeggieri, o da qualche pietoso raccolto.

«Fui abbandonato! Forse di me nulla sapevan che fare! A me nessun affetto legava l'anima di qualcheduno! Per me la natura non parlava al cuore di nessuno!

«Non ebbi forse una madre?.. Madre! Questo nome che fin dai primissimi anni mi suona così dolce nell'anima… Questo nome che quando, ancora nell'infanzia, udivo pronunciato da' miei compagni mi venivano, e non sapevo perchè, le lagrime agli occhi!.. Oh forse la povera donna morì sopra parto e mi lasciò solo: o forse fu collo schianto dell'anima che dovette cedere alla mano di ferro della necessità che mi staccava dal suo fianco… Ah! l'avrei amata cotanto mia madre!..

«Questa sera mi piacque aggirarmi colà, per quella scura e sconcia strada in cui vagii neonato in quella cupa notte d'inverno, e scorsi il miserabile quartiere con lento passo, il cuor palpitante, la mente commossa, come se uno di que' sassi del selciato, una di quelle scalcinate ed annerite pareti, una delle anguste, umidiccie porticine, l'aria stessa che respiravo, mi dovesse ad un tratto miracolosamente rivelare il mistero, forse infame, della mia origine.

«Quante volte non ho io già fatto quel doloroso pellegrinaggio, e sempre con quanto spasimo dell'anima segreto, soffocato, dolorosissimo!

«Questa sera, la sorte, là su quella motriglia che a me fu culla, mi pose innanzi un bambino che piangeva. A quel suono di pianto in tal luogo, tutta la mia penosa esistenza, accompagnata di disprezzo e di vergogna, mi sorse innanzi spiccatamente ad un tratto. Se fosse stato un lattante quel bimbo, l'avrei preso fra le mie braccia, l'avrei recato meco, avrei voluto essergli padre, avessi dovuto vendere, per nutrirlo, il sangue delle mie vene. Rivissi in pochi minuti la sintesi intiera di tutti gli anni che ho travagliosamente trascorsi; ripiansi, per così dire, tutte le mie lagrime, imperocchè nella corta mia vita passata non ci sia nemmanco il ricordo d'un sorriso di gioia.

«Oh! perchè fui raccolto se non mi si voleva dar che tormenti? E può Dio ascrivermi a peccato se io desiderai come fortuna d'essere morto nell'abbandono, se più volte ho maledetto meco stesso chi seco mi prese e il momento in cui mi rinvenne?

«Era uno di quei venditori di latte che vengono il mattino per tempissimo a recare questa derrata ai fondachi di rivendita nella città. Correndo col suo carro, su cui saltavan le bigoncie, al trotto del suo cavallo, passò nella strada dov'io era, e il cavallo nell'istante di schiacciare quel corpicino colla sua zampa ferrata, atterrito forse dal vedersi innanzi ad un tratto quell'involto biancolastro, fece uno scarto che diede un fiero sobbalzo all'uomo seduto sul carro.

« – Che cos'è codesto? Disse Menico il quale travide in quello scuriccio nebbioso qualche cosa per terra. E venuto giù, si chinò e prese tra mano quel viluppo.

«Visto che gli era un bambino mezzo intirizzito che non aveva nemmen più la forza di piangere, rimase lì un istante perplesso, non sapendo a qual partito appigliarsi. Poi, siccome in fondo quell'uomo non era cattivo, e quando non era ebbro aveva a sufficienza cuore e ragionevolezza, gli parve troppa crudeltà il lasciar lì quella creaturina e tirar dritto per la sua strada. Risalì sul suo carro tenendosi fra le braccia il bambino, e lasciò che il cavallo riprendesse l'andare, mentre egli si diceva: – Il diavolo mi porti se so che cosa fare di questo marmocchio.

«Siccome il bimbo pareva lì lì per basire senz'altro, Menico intanto cominciò per porre sulle labbra di esso una bottiglietta che aveva allato di latte munto di fresco al momento prima di partirsi di casa e ancora caldo. Glie ne fece colare in bocca a poco a poco alcune goccie, cui il bambino affamato assorbì avidamente e che di subito alquanto lo ristaurarono.

«Menico si recò qua e colà a fare gli affari suoi, e sempre teneva sul carro quel bambino cui aveva adagiato sovra un po' di fieno che ci aveva per ventura, e sul quale, per tenerlo caldo, aveva gettato la pesante coperta di lana del cavallo.

«Ad ognuno dei lattivendoli con cui parlava, Menico diceva il caso intravvenutogli e domandava se di quel piccino se ne volessero incaricare. Ognuno lo motteggiava e crollando le spalle lo mandava con Dio.

« – Ma che cosa ho io da fare di questo coso? seguitava a chiedere a sè stesso Menico sempre più imbarazzato.

« – Menatelo alla Maternità: gli disse qualcuno di coloro a cui egli recava la provvista del latte.

« – Dovreste recarlo al palazzo di città: diceva un altro: ma a quest'ora è troppo presto e troverete tutto chiuso.

« – Mettetelo sulla porta d'una chiesa: gli consigliò per ultimo un cotale. Lì sarà sotto la protezione di Dio, e potete esser tranquillo che capiterà bene.

«Menico adottò questo consiglio, e quando ebbe terminato tutte le sue faccende, siccome nella sua strada aveva da passare innanzi alla chiesa di San *****, determinò di porre sulla soglia di questa il trovato bambino.

«Non era ancora diradata la tenebra della notte dall'alba, che in quella nevosa giornata d'inverno tardava a venire. Un semispento lampione gettava una luce fievole e giallastra sulla neve che si rammentava sopra gli scalini di San *****, Menico, giunto all'altezza della chiesa fermò il cavallo, saltò giù del carro e prese su questo l'involto in cui era il bimbo, allo scrollar del veicolo addormentatosi. La strada era silenziosa come un sepolcro; nulla si muoveva, nel sonno generale di tutta la città. Menico si disse non senza soddisfazione che gli era affatto solo. Ma quando fu per salire gli scalini della chiesa, ecco dalla soglia di quest'essa staccarsi un'ombra nera, la quale si avanzò con sollecitudine verso il villano, ed una voce d'uomo pacata, benigna, soave, dirgli:

« – Giusto voi che aspettavo, Menico.

«Questi, per la sorpresa, poco mancò non lasciasse cadere in terra il bambino; ma, riavutosi tosto, riconobbe in chi gli parlava il parroco del suo paese.

« – Lei, Don Venanzio! Esclamò il paesano.

« – Sono venuto ieri a Torino per alcune mie bisogne: disse il prete; ma stamattina conviene che io torni al villaggio; e siccome il far tutta quella strada a piedi comincia a stancarmi di troppo, sono venuto ad aspettarvi qui, dove so che passate sempre, per pregarvi se volete usarmi la carità di prendermi con voi sul vostro carro e condurmi sino a casa.

« – Oh si figuri! Disse Menico imbarazzatissimo col suo fagotto in mano.

«Don Venanzio lo vide e domandò che cosa avesse costì, e il villano, non potendo altrimenti, contò tutto; come avesse trovato quel bimbo e come volesse lanciarlo in quel luogo.

«Il parroco scosse la testa.

« – No: diss'egli con quella voce così insinuante e persuasiva, di cui dovevo ancor io sentire cotanto l'influsso di poi: no, ciò non istà bene, Menico. Iddio vi ha posto innanzi una buona azione da fare e un gran merito da acquistarvi, e non dovete rigettare ingratamente l'uno e l'altra. Voi non avete giusto figliuoli; ed ecco che la Provvidenza ve ne manda perchè possiate godere di tutte le gioie della famiglia ed aver quindi un sostegno nella vostra vecchiaia…

«Insomma seppe parlare tanto bene che Menico, il quale pure non era di cuor tenero, si lasciò convincere essere suo dovere ed anzi suo vantaggio il tenere presso di sè quel rinvenuto bambino.

« – Quanto a me son già bello e persuaso: finì egli per dire al buon sacerdote; ma gli è mia moglie che sarà un affar serio a fargliela entrare. Lei sa che razza di animale essa è…

« – Vostra moglie, spero che si lascierà muovere ancor essa dalla voce della pietà che è quella di Dio. Se non glie la fa sentire il suo cuore, proverò fargliela suonare io all'orecchio; e la Provvidenza mi dia la grazia, come spero, di convincerla. E se poi ella non vorrà a niun conto, ebbene allora sarò io che prenderò meco il bambino.

« – Oh! se la si assume lei, sig. Prevosto, di parlare a mia moglie, disse Menico il quale non osava rifiutare, ma in realtà avrebbe voluto farlo, allora acconsento di venire innanzi a quella benedetta donna con questo bel regalo.

« – Dunque andiamo: conchiuse Don Venanzio; e fate correre più che possa, senza soffrirne, il vostro cavallo, perchè questa povera creaturina prenda il men di freddo possibile.

«Salirono sul carro, e il buon sacerdote tolse me in grembo e mi tenne caldo, chiuso nel suo ferraiolo. Menico frustò il cavallo e lo cacciò al trotto serrato. Un'ora dopo, che tanto ci voleva di tempo a fare il cammino alla corsa del cavallo, giungevasi al villaggio di X., e il carro s'arrestava innanzi ad una porta ad arco in un muro di cinta, la quale metteva in uno sporco cortiletto entro cui la casupola abitata da Menico e dalla moglie.

«Il parroco discese ed entrò egli prima nel cortile, poi nella stanza a pian terreno che serviva alla coppia di cucina, di tinello, di camera da letto, di tutto. Io non seppi mai bene quel che avvenisse e si dicesse fra quelle tre persone. Ebbi ad apprendere di poi, perchè la Giovanna medesima, la moglie di Menico, me lo gettò migliaia di volte in sulla faccia, ch'ella aveva ricisamente e per assai tempo rifiutato il nuovo carico e resistito a tutte le belle parole e ragioni che le veniva dicendo il buon curato: e se cedette finalmente, fu certo per la promessa di qualche soccorso e di qualche vantaggio, che, quantunque la non ne avesse bisogno, Don Venanzio ebbe fatta a quella donna taccagna ed avida di denaro.

«Ah! non avesse ella ceduto! La mia infanzia sarebbe certo stata più lieta, e forse migliore e più felice tutta la mia esistenza.

«Don Venanzio mi lasciò nelle mani loro con mille raccomandazioni a mio riguardo, e promettendo che avrebbe sempre vegliato su di me; come di fatti non mancò di fare; ma che poteva egli mai?

«Un giorno, quando già grandicello, un giorno in cui avevo sofferto più che l'usato – e quanto soffrii sempre, te lo dirò – osai movere rimprovero a Don Venanzio di avermi fatto entrare in quella famiglia, la quale al mio bisogno d'affetto non doveva corrispondere che coll'odio, col disprezzo, coi più crudeli trattamenti.

6.Fra i tanti tribunali privilegiati che vi erano a quel tempo, contava l'Uditorato di Corte, il quale giudicava delle offese fatte alla Maestà Reale, e di ogni delitto commesso in palazzi reali o in luoghi dove fosse anche temporariamente qualche persona della famiglia regnante.