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I divoratori

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I divoratori
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PREFAZIONE

C'era un uomo che aveva un canarino; e disse: "Che caro canarino! Se potesse diventare un'aquila!" Iddio disse: "Nutrilo del tuo cuore, e diverrà un'aquila". Allora l'uomo lo nutrì del suo cuore.

E il canarino divenne un'aquila, e gli strappò gli occhi.

C'era una donna che aveva un gatto; e disse: "Che caro gattino! Se potesse diventare una tigre!" Iddio disse: "Dàgli a bere il tuo sangue, e diverrà una tigre". Allora la donna gli diede a bere il suo sangue.

E il gatto divenne una tigre, e la sbranò.

C'era un uomo e una donna che avevano un bambino. E dissero: "Che caro bambino!… Se potesse diventare un genio!"

LIBRO PRIMO

I

La creaturina nella culla aprì gli occhi e disse: – Ho fame.

Nulla si mosse nell'ombra della camera silenziosa e l'infante ripetè il breve grido inarticolato. Allora s'udì un fruscìo di vesti, un lieve accorrere di passi: due tenere braccia lo sollevano, e lo acqueta un cinguettìo di dolci parole vane. Ecco per la puerile guancia il fresco petto materno, per la piccola bocca avida ecco la fonte di blande e bianche delizie.

Sopita e soddisfatta la creaturina ricade nel sonno.

La piccola Edith Avory tornò dalla scuola correndo, col cappello a sghembo e le treccie al vento, ed entrò ansante nella sala da pranzo della Casa Grigia.

– Sono arrivate? – domandò a Florence, che stava apparecchiando la tavola per il thè.

– Sì, signorina, – rispose la cameriera.

– Dove sono? Il « béby »1 com'è? Dove l'hanno portato?

E senza aspettar risposta, la ragazzetta scappò dalla stanza e corse sgambettolando su per le scale. Giunta alla « nursery », che fino allora era stata camera sua, si fermò. Attraverso la porta chiusa udì un piccolo grido querulo che le tolse il respiro. Sporse, esitando, la mano, ed aprì la porta. Poi si fermò, attonita e delusa, sul limitare.

Presso la finestra, con lo sguardo noncurante rivolto alle verdi praterie del Hertfordshire, sedeva una donna, severa, quadrata, vestita di percalle rosa. Batteva con mano distratta, a colpettini leggeri e regolari, un piccolo involto di flanella che teneva sulle ginocchia. Era il béby! con la faccia in giù. Edith vedeva spuntare dalla flanella da una parte la pianta di due piedini rossi e dall'altra una piccola testa oblunga coperta di morbida lanugine nera.

– Oh Dio! – esclamò, – è quello il béby?

– Prego di chiudere la porta, miss, – disse la « nurse ».

– Ma credevo che i bambini piccoli fossero tutti biondi, e vestiti di bianco… con nastri celesti, – balbettò Edith.

La nurse non si degnò di rispondere. Continuò a batterellare distrattamente colla grossa mano sulla piccola schiena tonda coperta di flanella.

Edith si avvicinò, timida.

– Perchè fate così? – domandò.

La donna, inarcando le sopracciglia con aria sprezzante, la guardò da capo a piedi. Poi disse brusca e subitanea: – Flatulenza! ventosità – e continuò a picchiettare.

Edith, interdetta, si domandò che cosa significasse quella risposta. Poteva riferirsi al cattivo tempo? od era forse un modo volgare di dire a Edith di star zitta?

Dopo un po', osò domandare:

– La sua mamma – e additò l'involto – è arrivata anche lei?

– Sissignora, – rispose la nurse. – E quando ve ne andrete, abbiate la cortesia di chiudere la porta dietro di voi.

Edith mortificata e attonita obbedì.

Udendo delle voci nella camera di sua madre, guardò dentro, e vide una giovinetta vestita di nero, con capelli neri come quelli del béby, seduta sul sofà, accanto a sua madre. L'estranea piangeva, tutta scossa da singhiozzi, colla faccia nascosta in un piccolo fazzoletto ad orli neri.

– Vieni, vieni, Edith, – disse la madre. – Vieni, guarda! Questa è tua cognata Valeria. Dàlle tanti baci e dille di non piangere.

– Ma dov'è la mamma del bambino? – disse Edith, per guadagnar tempo prima di baciare quel lacrimoso viso sconosciuto.

La giovinetta in lutto alzò gli occhi dal fazzoletto – occhi oscuri inondati di lacrime.

– Son io, – disse, con un rapido sorriso luminoso, ed una lacrima, cadendo, le si fermò in una fossetta della guancia. – Ma non è un bambino, sai; è una bambina. Che cara! – soggiunse, baciando Edith, – che cara ragazzina che potrà giocare col mio angioletto!

– Oh, ma è troppo piccola quella lì, per giocare, – disse Edith con disprezzo. – E poi, – soggiunse, – ho visto quella donna che la batteva.

– La batteva! – esclamò la ragazza in lutto, balzando in piedi.

– La batteva! – gridò la madre di Edith.

Ed entrambe uscirono precipitosamente.

Edith, rimasta sola, volse lo sguardo per la camera familiare. Sul letto di sua madre giaceva una piccola coperta di flanella ricamata, uguale a quella che avvolgeva il béby; ed una cuffietta minuscola; e degli scalfarotti; e un sonaglino di gomma. Sopra una seggiola vide una giacchetta nera, ed un cappello nero guarnito di crespo e di grosse ciliegie, nere ed opache.

Edith ne schiacciò una fra le dita, e la ciliegia si ruppe, vitrea e glutinosa. Poi la ragazzetta andò allo specchio e si provò il cappello. Le piacque vedere il suo piccolo viso lungo sotto quella acconciatura caliginosa, e la fece traballare, tentennando il capo in qua e in là.

– Quando sarò vedova – disse tra sè – porterò anch'io un cappello come questo. – Poi lo fece cadere dalla sua testa sopra la seggiola. Schiacciò rapidamente un'altra ciliegia, e uscì per andare a vedere la bambina.

La trovò nella nursery tra le braccia della nonna, che la faceva ballare in su e in giù. La creaturina teneva il pugno in bocca, e i larghi occhi guardavano nel vuoto. La ragazza in lutto, le stava davanti in ginocchio, battendo le mani e cantando: « Cara! cara! cara!… bella! bella! bella! » mentre Wilson, la nurse, voltando le larghe spalle indifferenti, vuotava i tiretti del cassettone di Edith, piegando le sue cose e mettendole da parte per portarle disopra nella cameretta che doveva d'or innanzi servire alla ragazzina; poichè della camera di Edith aveva bisogno il béby.

Edith si stancò presto di star lì, e scese in giardino a cercare del « Brown Boy », il ragazzo del giardiniere. Lo trovò nell'orto intento a tagliare i germogli delle piante di fragola. Era tutto colore del terriccio, e ne aveva come sempre sulle mani, sulla faccia e nei capelli. Perciò più che per la sua parentela, si chiamava il « Brown Boy ».

– Buona sera, – disse Edith fermandosi davanti a lui con le mani dietro la schiena.

– Buona sera, – disse Jim Brown, senza smettere il suo lavoro.

– Sono arrivate! Sono già lì tutt'e due, – disse la ragazzetta.

– Ah sì? – E Jim Brown sedette sulle calcagna pulendosi le mani sui pantaloni.

– Il béby è nero, – disse Edith, cupamente.

– Misericordia! – esclamò Jim, spalancando gli occhi grandi e chiari.

– Sì, – proseguì Edith. – Ha i capelli neri e la faccia rossa. Un orrore.

– Oh, miss Edith, – disse Jim Brown, – che paura m'avete fatto! Avevo capito che il bambino fosse un moro, visto che la mamma sua è di paesi così lontani!

Edith crollò il capo.

– Proprio moro, no. Ma è un béby sbagliato. Se fosse giusto avrebbe i capelli biondi e gli occhi celesti.

– La madre com'è? – domandò Jim.

– Nera, nera anche lei. E quella nurse! Una donna orribile, – sospirò Edith. – Sono tutti diversi da come me li aspettavo.

E sconfortata sedette sull'erba.

– Valeria, che è la mamma del béby, è italiana, e tutta vestita di lutto, – narrò Edith, sempre più depressa. – E sono venute a star qui per sempre. E quel béby avrà la mia camera, e io andrò disopra vicino a Florence in quella stanza piccola.... piccola così. – Edith per illustrare fece un cerchio unendo i pollici e gli indici. – E anche noi ci vestiremo tutti di lutto perchè mio fratello Tom è morto. E Tom era il papà di quel béby. E quel béby è mia nipote.

– Povero signor Tom! – disse Jim Brown, scotendo la testa. – Era il prediletto di voi tutti, non è vero?

– Oh! sì, – fece Edith, – si capisce. Eravamo in tanti, che, naturalmente, quelli di mezzo erano i preferiti.

– Non vedo perchè, – disse Jim.

– Ma è evidente, – ragionò Edith. – Essendo in tanti si era già stufi di quelli più grandi, e nessuno aveva voglia di quelli più piccoli… ecco perchè! Del resto, – riprese gaia, – poco importa. Tanto, adesso sono tutti morti.

E si levò dall'erba, e lo aiutò un poco a rimondare le piante di fragola, per far venire l'ora del thè.

Venne a chiamarla suo nonno, una bella figura di vecchio, alto e maestoso. S'avvicinò lentamente, trascinando un po' i piedi sulla ghiaia del viale.

Edith gli saltellò incontro e mise la sua mano tiepidetta nelle dita fredde e avvizzite del vecchio. Quindi si avviarono insieme verso la casa.

– Le hai viste, nonno? – chiese lei, sgambettandogli intorno mentre egli procedeva a passo lento traverso il prato.

– Visto chi, cara? – domandò il vecchio.

– Ma Valeria, e la bambinetta.

– Che bambinetta? – disse il nonno, fermandosi a riposare ed ascoltare.

– Ma la bambina di Tom, nonno! – disse Edith. – Sai bene! la piccola bambina del povero Tom, che è morto. E' venuta a star quì, con la sua mamma. E c'è anche la sua nurse. Si chiama Wilson.

 

– Ah sì? – disse il nonno vagamente, e si mosse per andare avanti. Poi si fermò di nuovo. – Dunque Tom è morto?

– Ma nonno! nonno! Lo sai bene! Te l'ho pur detto mille volte in questi giorni.

– E' vero, – disse il vecchio, pensosamente, togliendosi il berretto di velluto nero e passandosi la mano nei fini capelli bianchi. – E' vero; Tom è morto. Povero Tom. Ma.... – continuò, esitando, – quale Tom? Mio figlio Tom? o suo figlio Tom?

– Tutt'e due quei Tom, – disse Edith; – son morti tutt'e due. L'uno è morto quattro giorni fa, e l'altro è morto sette anni fa; e tu non li devi confondere a quel modo. Dunque, ricordati: un Tom era mio papà e tuo figlio, e l'altro era suo figlio e papà del béby. Adesso non li confonderai più, vero?

– No, cara, – disse il nonno.

Dopo qualche istante si fermò di nuovo.

– E dici che si chiama Wilson?

– Che chi si chiama Wilson? – esclamò Edith, molto impaziente.

– Ma come vuoi che lo sappia io? – disse il nonno.

Allora Edith rise, e rise anche il vecchio.

– Via, fa lo stesso, nonno, – disse Edith; – non pensarci più. Vieni a vedere il béby.

– Che béby? – disse il nonno.

– Ma, nonno!… Il béby del figlio di tuo figlio Tom.

– Come? – disse il nonno. – Torna un po' a dire....

– Ma sta attento e ricordati! – spiegò Edith. – Il figlio di tuo figlio Tom, era il papà di questo béby.

– Il figlio… del tuo Tom… del tuo papà… Dimmi quando devo dire béby.... – disse il nonno.

Edith si svegliò nella notte e si rizzò spaurita a sedere sul letto.

– Cos'è? Cos'è? – gridò – Che cos'è successo?

– Ma niente, – rispose la voce di Florence dalla camera vicina. – Dormi, dormi, caruccia; non è che il béby.

– Ma perchè strilla così?

– Eh, sarà, come si dice, « rigirato », – spiegò Florence, con voce di sonno.

– Allora perchè non lo rigirano per il suo verso?

– Oh! miss Edith, – esclamò Florence impazientita, – adesso dorma e stia zitta. Quando si dice di un bambino che è rigirato, vuol dire che dorme tutto il giorno e strilla tutta la notte.

E infatti il béby fece così.

II

Un febbraio mite moriva blandamente sulla campagna inglese, quando marzo irruppe con urli di vento e scrosciar di pioggie. Respinse i diffidenti boccioli e il trepido verdeggiare; e via, fischiando per le lande villanamente, se ne andò. La stagione si fermò, timida e intirizzita.

Una mattina, ecco Primavera far capolino sopra le siepi. Scappò presto inseguita dal vento; ma gettò, fuggendo, una manata di crochi, e lasciò anche cadere una primola o due. Più tardi tornò piano, tra due acquazzoni, a dare una occhiata in giro… E all'improvviso, un giorno, eccola: alta, flava e inghirlandata! Gli astri di brina si sciolsero ai suoi piedi, e le allodole si lanciarono nei cieli.

Valeria chiese a prestito da Edith il suo grande cappello da giardino, lo legò sotto il mento con un nastro nero, e uscì nel giovane sole, attraverso la campagna di smeraldo.

Intorno, la lucentezza della verzura nuova si spingeva appassionatamente verso l'adolescente azzurro del cielo. E Tom era morto.

Tom giaceva nelle tenebre, lontano da tutto ciò, sotto la terra del piccolo cimitero di Nervi, dove il mare, che egli aveva tanto amato, scintillava e danzava a pochi passi dai suoi occhi chiusi, dal suo cuore immoto, dalle sue mani incrociate.

Ah, le mani incrociate di Tom! Ecco l'unica cosa che ella potesse rammemorare di lui quando, chiudendo gli occhi, tentava di rievocarlo.

Non le riusciva di veder altro. Per quanto ella si provasse, concentrandosi, con occhi chiusi ed appassionata volontà, rievocarne il viso – ahimè! i cari, noti lineamenti si confondevano, si dileguavano, e nulla restava davanti a lei che quelle tristi mani scolorate, quali le aveva vedute per l'ultima volta. Terribili, inavvicinabili mani!

Erano quelle, le mani di cui Tom aveva sempre avuto tanta cura? di cui si era compiaciuto con ingenua vanità? quelle, le mani che ella aveva accarezzate, poggiando sovr'esse la guancia? Il solo pensarlo le faceva paura. Quelle mani fisse, finite, rinunzianti, erano dunque le mani che avevano dipinto i delicati paesaggi d'Italia, che ella aveva amato, e gli altri quadri che ella aveva aborrito, perchè in tutti appariva la perlata nudità della bionda modella di Trastevere? Quelle, le mani che remavano nella barca « Luisa » sul Lago Maggiore, conducendo lei e lo zio Giacomo all'Isola Bella? Le mani che improvvisamente avevano afferrate le sue, una mattina alla Madonna del Monte – quella mattina che ella portava un vestito celeste col colletto alla marinara e una cravatta rossa…

Le pareva ancora di vederlo fermarsi subitamente davanti alla Quinta Cappella e dire, con quel suo strano e caro accento inglese: « Volete essere sposina mia? » Ed ella si era messa a ridere, e gli aveva risposto in inglese, colle sole tre parole che sapeva e che egli stesso le aveva insegnate attraverso la table-d'hôte – : « Yes. Please. Thank-you! »

Poi, avevano riso tutt'e due, tanto, che lo zio Giacomo aveva detto che la Madonna li punirebbe.

E la Madonna li aveva puniti. Lo aveva fulminato nel suo venticinquesimo anno, pochi mesi dopo il loro matrimonio, spezzandogli la giovinezza come una bolla di cristallo. A Valeria era toccato udirlo tossire, giorno per giorno, notte per notte, tossire, tossire, tossire; distaccandosi dalla vita a piccoli colpi di tosse secca, e raspamenti di gola; e più tardi in terribili parossismi che lo lasciavano estenuato e senza respiro; e poi in una tosse molle e facile a cui egli quasi non badava più. Erano corsi da Firenze dove c'era troppo vento, a Nervi dove c'era troppo caldo; da Nizza dove c'era troppo rumore, ad Airolo dove c'era troppo silenzio; finalmente, con un impeto di speranza, con un affrettato raccogliere di scialli e pastrani di pennelli e colori, di pattini e ski, erano partiti per Davos.

E a Davos brillava il sole – e nacque béby! Tom Avory usciva con pattini o « bobsleigh » ogni mattina, e in otto settimane era cresciuto di peso quasi tre chili.

Ecco che un giorno una signora americana, di cui il figlio era moribondo, disse a Valeria:

– Non è bene per la vostra piccina di stare quassù. Mandatela via da Davos; o quando avrà quindici anni comincierà a tossire anche lei.

« Mandatela via! » Sicuro; bisognava mandar via béby. Valeria capiva che bisognava fare così. Sentiva lei pure che lo stormo di microbi che usciva da tutti quei polmoni malati la ravvolgevano, lei e la sua creatura, in un nembo di morte. I germi dell'etisia! essa li sentiva, li vedeva, li respirava. Le pareva che l'odore ne fosse sul suo guanciale la notte; che le lenzuola e le coltri li esalassero; che il cibo ne fosse pregno. Poco le importava per sè; ella si sentiva forte e sana. Ma la sua creatura! Quel fragile fiore del suo sangue, era anche del sangue di Tom! Tutti i fratelli e le sorelle di Tom, meno una sola – una ragazzetta chiamata Edith, che viveva in Hertfordshire – tutti eran morti nell'adolescenza: uno a Bournemouth, uno a Torquay, uno a Cannes, una – la piccola Sally, la sorella prediletta di Tom – a Nervi. Tutti erano morti, fuggendo la morte che portavano in seno. Ora Davos aveva salvato Tom. Ma bisognava mandar via la piccina.

Chiesero consiglio a due dottori. L'uno disse: « Eh! si sa!… » e l'altro disse: « Eh! non si sa!… »

Tom e Valeria decisero di non correre rischi. Una mattinata nevosa, si misero tutti in viaggio per Landquart; ivi Tom doveva lasciarle proseguire da sole, il dottore avendogli raccomandato di tornare subito a Davos. Ma a Landquart la bambina piangeva, e Valeria piangeva; dunque Tom saltò nel treno con loro e disse che le accompagnerebbe fino a Zurigo; colà lo zio Giacomo sarebbe venuto a prenderle per condurle in Italia.

– Allora sarete sane e salve, mie due povere scioccherelle sperse, – disse, cingendole tutt'e due con braccio protettore, mentre il treno li portava giù verso le nebbie. E porse alla sua piccolissima bimba un dito, a cui la minuscola mano si avviticchiò.

Ma Tom non arrivò mai a Zurigo. Ciò che vi arrivò era una forma inerte e terribile, colle membra abbandonate e la bocca piena di sangue.

Valeria pianse, e la bambina pianse; e una folla di impiegati e di curiosi si radunò intorno a loro. La bambina pianse, e Valeria pianse; ma Tom non poteva più consolare le sue due povere scioccherelle sperse.

Gli trovarono nella tasca il testamento:

« Valeria, my darling; lascio a te tutti i miei beni terreni. Conduci in Inghilterra la bambina. Fammi seppellire a Nervi, vicino a Sally. Mi hai reso molto felice. – Tom. »

… Questi erano i ricordi di Valeria, mentre camminava nel mite sole inglese, e piangeva amaramente sotto l'ala del vecchio cappello di Edith.

Giunta ad un ponticello gettato sopra un torrente, Valeria si fermò, appoggiandosi al parapetto; e, come si sporgeva a guardar giù, il cappello di Edith le cadde dalla testa, battè sull'acqua e seguì il filo rapido della corrente.

Valeria lo rincorse lungo la sponda, ma il cappello, girando in mezzo all'acqua, si fermò contro un sasso sporgente. Valeria gettò dei fuscelli e dei ciottoli per farlo muovere, e finalmente, galleggiante e frivolo, esso riprese la sua via… Valeria corse lungo la sponda in pendìo, scivolando sull'erba bagnata e sui sassi umidi; e il cappello sobbalzava e dondolava laggiù, sulle minuscole onde, con un lungo nastro nero teso dietro di sè, come un magro braccio invocante.

Dove il torrente piegava verso un bosco di faggi il cappello girò con esso, e dietro al cappello Valeria.

A un tratto un'esclamazione di sorpresa la fece trasalire; e alzando il viso accaldato vide sull'altra sponda un giovane alto, biondo e abbronzato, che pescava.

– Accidenti! – esclamò lo sconosciuto, alla vista del galleggiante adornamento. – Addio, trota!

E Valeria, timidamente:

– Scusi, potrebbe ripescarmi il cappello?

Il giovane rise e salutò. Poi a grande stento riuscì a fermare il cappello colla canna, attirandolo a sè con pazienti manovre.

– Ahi, quella mia grossa trota! – mormorò. – Da tre giorni – tre lunghi giorni! – le stavo dietro, e adesso era lì…! Basta! – sospirò, e trascinò fuor dall'acqua l'inzuppato copricapo. – Ecco il vostro cappello!

Lo sollevò con due dita, tenendolo pel nastro sgocciolante.

Non era mai stato un bel cappello: era anzi una vecchia e orribile pastorella che Edith portava, protestando, da molto tempo. Certo non pareva un oggetto pel quale valesse la pena di pescare tre giorni.

– Oh, grazie tanto! – disse Valeria. – Ma, adesso come faccio a prenderlo? – E tese, dalla sua sponda, sopra l'acqua larga che li separava, una piccola mano, breve e vana.

– Glielo porterò io, – disse il giovane, tenendo ancora a braccio teso la sgocciolante acconciatura.

– Oh, non si disturbi, – disse Valeria, – me lo può gettare!

Il giovane rise.

– Stia indietro, allora; se la tocca, le darà il raffreddore!

E con gesto allegro scagliò il cappello, che cadde floscio e molle ai piedi di Valeria.

– Dio, che roba! – disse lei, raccogliendolo; e con fronte turbata contemplò la guarnizione di tulle nero che pendeva madida e lamentevole dal bordo. – E adesso cosa ne faccio? Metterlo è impossibile. E se m'arrampico su per queste rive, così ripide e sdrucciole, non credo neppure di poterlo portare in mano…

– Ebbene, me lo torni a gettar qui, – disse il giovane ridendo, – e lo porterò io fino al ponte.

Allora ella, prendendolo ben di mira, gli gettò in pieno petto il pesante e malinconico oggetto; poi si avviarono, ognuno dalla sua parte dell'acqua, e camminarono così, sorridendosi da una riva all'altra. Sul ponte s'incontrarono e si stesero la mano.

– Mi spiace tanto per la sua trota, – disse lei. —

– Mi spiace tanto pel suo cappello, – disse lui.2

E risero entrambi. Poi non seppero più che cosa dirsi.

Egli, allora, vedendole i riccioletti umidi sulla fronte bianca, e le fossette nelle guancie, soggiunse:

– E domani che cosa si metterà in capo… quando viene qui?

– Domani? – domandò lei, alzando due occhi ingenui.

– Sì, domani. Verrà, nevvero? – disse egli, ed arrossì un poco, perchè era assai giovane. – A quest'ora, vuole? – E guardò l'orologio. – Alle undici, dunque…

 

A quelle parole anche Valeria arrossì. Ma d'un rossore avvampante ed improvviso che poi le lasciò subito la faccia lattea di pallore.

– Le undici! Sono le undici? – esclamò con gli occhi larghi ed esterrefatti.

– Sì. Ma che cos'ha? Perchè si agita?

– Mio Dio! Il béby! – fece lei ansante. – Ho dimenticato il béby! – e senz'altro si volse e corse via traverso i prati, con i riccioli al vento, e col cappello inzuppato che le batteva sulla gonna nera.

Giunse a casa trafelata e pallida. Vide la nurse, rigida ed aspettante, sulla terrazza.

– Sono in ritardo, Wilson? – balbettò lei.

– Sissignora, – disse la serva, con voce aspra e severa. – Molto in ritardo.

– Oh Dio! e béby? Ha pianto? – chiese Valeria ansante. – Come sta? Cosa fa la mia creatura?…

– La sua creatura – disse la donna austera – ha fame.

1Mancando nella lingua italiana familiare la parola neutra equivalente a baby o child dell'inglese, enfant del francese, Kind del tedesco, l'autore si permette di adattare al concetto la parola inglese. Lo stesso valga per le parole nurse e nursery.
2Mi spiace tanto pel [pei] suo cappello