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I divoratori

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III

Il giovane biondo tornò ogni giorno alla pesca nel torrente, ma non pigliò altro che la sua grossa trota. La ragazza vestita di lutto, coi riccioli e le fossette, non venne più. Le vacanze finirono, ed egli se ne tornò a Londra; ma prima di partire lasciò sulla riva – là dove si erano incontrati – una lettera d'amore per Valeria, puntata a un lembo del crespo nero caduto dal cappello, e fissato con un sasso perchè non volasse via.

Valeria trovò la lettera. Ella era rimasta chiusa in casa una settimana, coll'anima invasa dal pentimento e dal ricordo di Tom. Poi la primavera e la sua giovinezza si erano dati la mano per attirarla fuori, verso l'ignoto e le chiamanti acque e i prati in fiore. Arrossente ed esitante, con un mazzo di primole alla cintura, ella aveva ritrovato il sentiero che va per i prati al ponte, e dal ponte al bosco di faggi… Ma nessuno la vide, eccetto un magro cavallo solitario in mezzo a un prato, che all'improvviso la rincorse, con la coda in aria e la criniera al vento, facendola rabbrividire di paura.

Giunta nel bosco scorse subito, vicino all'acqua, la garza nera e il biglietto che v'era appuntato. Lo lesse tremando. Egli diceva di chiamarsi Frederick Allen; studiava legge nel Temple e scriveva per i giornali. Le diceva inoltre che essa aveva degli occhi « haunting », e che ahimè! certo non si sarebbero riveduti mai più! Egli domandava se avesse poi ritrovato quel béby di cui il pensiero l'aveva tanto agitata; e dove mai era stato lasciato? e che béby era? E perchè, oh, perchè non s'era ella voltata neppure una volta per fargli un cenno d'addio? Egli la pregava di non adirarsi se egli si permetteva di dirle che l'amava, e che non la dimenticherebbe mai più. E che per pietà ella gli dicesse il suo nome! Soltanto il suo nome! Please! please. Ed egli era per sempre e per sempre il devoto suo Frederick.

Valeria tornò a casa come in sogno. Andò a cercare nel suo dizionario inglese-italiano la parola « haunting ». La trovò: « ossessionante »!

Si sentì contenta di avere gli occhi ossessionanti. E lui, che occhi aveva? Non si ricordava più. Azzurri forse. Forse bruni.

In tutti i modi Valeria rammentava il suo viso, giovane e abbronzato; ed aveva pur notato, quando salutandola sul ponte s'era tolto il cappello, la lucentezza bionda della sua corta capigliatura.

Pensò dapprima che sarebbe bene rimandargli la lettera; senz'altro.

Poi decise di aggiungervi poche parole… oh! parole di rimprovero, s'intende! Infine, un giorno grigio e uggioso, in cui tutti parevano di cattivo umore, e il béby aveva strillato perchè voleva la Wilson e poi perchè non la voleva, e Edith aveva risposto male, e tutto era orrido e odioso, Valeria prese un foglio di carta da lettere e, con molte fitte di rimorso, vi tracciò sopra il suo nome. La carta era listata di nero. D'un tratto Valeria scoppiò in pianto, e cadde in ginocchio davanti al foglietto di carta, e ne baciò l'orlo nero, e pregò Dio e Tom che la perdonassero.

Poi bruciò il foglio, e andò dalla sua piccina, che gridava a squarciagola per tutto e con tutti, e cercava di uccidere una pecora di guttaperca, fino allora teneramente amata.

Tuttavia, nei primi giorni di aprile (era un aprile mite e suggestionante, che pareva susurrasse al cuore come sia dolce ed evanescente la vita) Mr. Frederick Allen, nelle sue « chambers », a Londra, ricevette due lettere invece di una sola.

Hannah, la petulante cameriera che gliele portò in camera, s'indugiò con aria distratta mentre egli le apriva. L'una conteneva uno chèque per sei ghinee mandatogli da un giornale; l'altra un semplice biglietto da visita:

– Valeria Nina Avory! Chi diavolo sarà? – disse Allen, girando il biglietto tra le mani. – Tieni, – disse, gettandolo con gesto trascurato a Hannah. – Questa sarà qualche modista di Regent Street o Piccadilly. Quando vorrai dei fronzoli, potrai andarci.

E, poichè aveva ricevuto le sei ghinee, mentre non se ne aspettava che quattro, sentendosi di buon umore, pizzicò il mento di Hannah, chiuse il libro di « Roman Law », e andò a passare la giornata, con un amico, sul Tamigi.

Hannah gettò il biglietto di visita nella secchia del carbone, e la cuoca all'indomani lo bruciò.

Ecco tutto.

Aprile portò alla bambina un piccolo dente.

Maggio gliene portò un altro, e le increspò sulla nuca i fini capelli.

Giugno le tolse i bavaglini e le diede un sorriso a fossette, copiato da quello di Valeria.

Luglio le mise sulle labbra una parola o due.

Agosto la piantò dritta ed esultante, con le spalle al muro; e Settembre la mandò coi piedini barcollanti a cadere nelle braccia tese della mamma.

I suoi nomi erano Giovanna Desiderata Felicita.

– Non posso tenere a mente tutti quei nomi, – disse il nonno. – Chiamatelo Tom.

– Ma nonno, è una bambina! – disse Edith.

– Lo so bene. Me l'hai già detto, mi pare, – disse il vecchio un po' stizzito.

Da che v'era tanto chiasso in casa egli era diventato impaziente ed irritabile.

– Sì, caro nonno, sì, – disse la signora Avory, accarezzando dolcemente la mano del vecchio; – dirai tu il nome che preferisci. Quale è il nome di ragazzina che credi di poter tener a mente?

– Nessun nome. Nessuno affatto, – disse il vecchio.

– Suvvia, caro, suvvia! – disse la signora Avory. – Puoi ben ricordarti « Anna », non ti pare? o « Maria ».

– No. Non posso, – disse il nonno.

Allora Edith suggerì il nome « Giulia ». E Valeria propose « Camilla ». E Florence, che stava mettendo la tavola, disse:

– Provino a fargli dire « Nellie » o « Katy »?

Ma il vecchio signore si rifiutò ostinatamente a ricordare qualsiasi di questi nomi; e continuò per molto tempo a chiamare la bambina « Tom ».

Una sera, a tavola, disse improvvisamente:

– Dov'è Nancy?

La signora Avory ed Edith si guardarono trasalendo, e Valeria alzò gli occhi meravigliati.

– Dov'è Nancy? – ripetè il nonno, con impazienza.

La signora Avory gli pose teneramente una mano sul braccio.

– La povera Nancy è in Paradiso, – disse dolcemente.

– Come? – gridò il vecchio, gettando in terra il tovagliolo, e girando gli occhi spiritati intorno alla tavola.

– Pur troppo, la tua cara figlioletta Nancy è morta molti, molti anni fa, – ripetè la signora Avory.

Il vecchio si rizzò alto e fremente.

– Non è vero! – gridò con voce terribile. – Nancy era qui questa mattina. L'ho vista io. Mangiava la tapioca.

Le sue labbra tremarono e si mise a piangere.

Valeria scattò in piedi e uscì dalla stanza. Un istante dopo rientrò, portando tra le braccia la sua bambina che sgambettava nella lunga camicia da notte, e garriva come una rondinetta.

– Ecco Nancy! – disse Valeria con voce un po' tremante.

– Ma sì! guarda, nonno, – gridò Edith, battendo le mani, – non piangere, nonno! Ecco Nancy!

E la signora Avory tutta pallida:

– Ma guarda, caro padre, ecco Nancy!

Il vecchio alzò i ceruli occhi e il suo sguardo lievemente appannato, come un vetro celeste su cui il tempo avesse alitato, incontrò e trattenne lo sguardo luminoso della creaturina novella.

A lungo, a lungo il vecchio interrogò con lo sguardo vacillante quelle limpide profondità. Poi disse lentamente:

– Ecco Nancy.

E béby fu Nancy da quel giorno in poi.

IV

Il giorno in cui Nancy compì i tre anni, e che intorno al suo « birthday-cake » – la focaccia del giorno natalizio – furono accese solennemente le tre candele d'uso, Edith mise i gomiti sulla tavola e disse:

– E dunque, che cosa sarà Nancy?

– Buona, – saltò su a dire la piccina, – molto, molto buona. Dammi un altro di quei dolci che fanno pum! Nonna, tienimi le orecchie.

Edith le tese un salterello avvolto di carta d'oro e adorno di figurette; e Nancy, con le mani della nonna sulle orecchie e con gli occhi chiusi, lo tirò con molti strilli di gioia e di spavento.

Edith, ora alta e sottile, e di cui le due treccie si erano fuse in una sola, appuntata sulla nuca da un gran nodo di nastro, ripetè la sua domanda.

– Che cosa vuoi dire? – le chiese la signora Avory.

– Spero bene, – disse Edith con gravità, – che non vorrete farne semplicemente una ragazza come tutte le altre!

Allora Valeria parlò timidamente:

– Veramente, ho pensato qualche volta che desidererei… che fosse… un genio!

Ed esprimendo questo audace pensiero, Valeria arrossì.

Edith approvò col capo, serenamente. La signora Avory guardò dubbiosa la figuretta della sua nipotina, intenta ora a tirar giù la tovaglia per arrivare ai salterelli. La piccola Nancy s'accorse subito di quello sguardo indulgente e si avvicinò alla nonna.

– Turami le orecchie, – disse, – e dammi un altro di quei dolci che fanno pum.

La signora Avory con mano carezzevole aggiustò il nastrino celeste che fermava in cima alla piccola testa il ciuffo di ricci neri.

– Perchè vuoi che ti turi le orecchie? – chiese sorridendo.

– Perchè i dolci col pum mi fanno paura.

– E allora perchè li vuoi?

– Perchè mi piacciono.

– E perchè ti piacciono?

– Perchè mi fanno paura, – disse Nancy, con un adorabile sorriso. Tutti trovarono questa risposta straordinariamente profonda, e la conversazione ritornò sull'argomento del genio di Nancy.

– Certo, – osservò Edith, – avrà talento per la pittura. Suo padre, povero caro Tom! era un paesista meraviglioso. E credo che anche nella figura abbia fatto delle bellissime cose. Vero, Valeria?

Ma Valeria aveva nascosta la faccia nelle mani e scoteva la testa:

– Oh Dio! spero di no; spero di no! – singhiozzò, e subilo le lacrime le piovvero dagli occhi.

La mite signora Avory parve ferita e addolorata.

– Ma perchè no, Valeria? – domandò. – Non negherai che il mio povero figlio avesse un ingegno non comune…

 

– Non è questo, non è questo! – singhiozzò Valeria. – Ma… non so io… l'odore dei colori… e… le… le modelle! Oh Dio! non potrei, non potrei sopportarlo!… Oh mio Tom! mio caro Tom! – e mentre sua suocera e Edith tentavano di calmarla, Valeria continuava a singhiozzare convulsamente. Allora Nancy ruppe in alte grida, e siccome non cessava di strillare dovettero rimandarla nella nursery; dove Fräulein Müller, la governante tedesca da poco succeduta a Wilson, le diede, non impunemente, qualche schiaffetto.

In salotto la conversazione s'aggirava ancora intorno al genio di Nancy.

– Non potrebbe essere un genio musicale? – domandò Valeria, asciugandosi tristemente gli occhi. – Mia madre era una grande musicista; suonava l'arpa, ed ha anche composto delle belle romanze. E quando l'ho perduta e sono andata a vivere collo zio Giacomo a Milano, ho studiato molto la musica anch'io. Suonavo sempre del Chopin per lo zio Giacomo, che del resto detestava la musica… E poi… quando mi sono sposata… Tom… – qui Valeria ruppe in nuovi singhiozzi – mi diceva sempre… che preferiva me… a… a… Pachman… e a tanti altri…

Edith, commossa, l'abbracciò.

– Hai ragione. Scegliamo la musica. E' anche più bello. – E baciò con entusiasmo la faccia accesa di Valeria. – Del resto, la piccina sa già cantare « Onward, Christian Soldiers », e « Schlaf Kindchen ».... Fräulein Müller dice che è intonatissima. E' già una cosa straordinaria, non vi pare?

Allora si fece subito ritornare Nancy; che apparve piccola e terribile, col broncio. La conduceva per mano Fräulein Müller, che aveva un graffio sulla guancia.

Nancy fu pregata di cantare: « Schlaf, Kindchen, schlaf, da draussen steht ein Schaf »; ed essa lo fece con molta mala grazia e con poca voce.

Ma in seguito a forti e servili applausi da tutti, compresa anche Fräulein, la piccina si degnò di far udire tutto il suo repertorio, compresa una canzone plebea « There'll be razors a-flyin' in the air » imparata incidentalmente dal superbo e inavvicinabile garzone del giardiniere, Jim Brown.3

Fu dunque deciso che Nancy sarebbe un grande Genio musicale e si procurò subito un pianoforte a piccola tastiera, e molti libri di teoria, d'armonia e di contrappunto. Edith raccomandò a Valeria di studiare questi libri con attenzione e poi d'insegnarne il contenuto a Nancy, facendo però in modo che la piccina non se ne avvedesse.

Ma Nancy se ne avvide. Anzi dopo qualche giorno bastava che vedesse entrare sua madre in una stanza, perchè ella ne fuggisse, strillando e pestando i piedi.

Fräulein Müller, con astuzia e diplomazia, e secondo un Nuovo Metodo Tedesco, si accinse ad insegnarle in pari tempo l'alfabeto e le note musicali.

– A, b, c, d… niente di più semplice, – disse Fräulein.

E cominciò a spiegare. Il « fa » era dunque l'A, e, in inglese, si pronunciava « e ». Il « si » era B; il C si pronunciava « si », ed era il « do ». E così via. Niente di più semplice.

Ma il risultato fu sconcertante. Nancy insisteva a voler compitar sillabe e fabbricar parole al pianoforte, e non trovava l'« o », e non trovava l'« u », e non trovava niente. Valeria accresceva la confusione chiamando « si » il B, e « mi » l'E, e il G « sol ». Era un pandemonio.

Nancy divenne irosa e diffidente. In ogni parola che le si rivolgeva le pareva di fiutare una nuova trappola per introdurre in lei delle nozioni musicali. Non si fidava più di nessuno; e non voleva più parlare che col nonno o con Jim Brown.

Infine, un giorno che sua madre le disegnava degli omettini neri molto simpatici, e che questi d'un tratto si rivelarono essere non altro che delle aborrite semiminime, Nancy, cieca dall'ira, si cacciò la mano nei capelli e se ne strappò una ciocca. Valeria gettò un grido; prese ed aprì il piccolo pugno della sua bambina e vi vide il morbido arruffìo di capelli strappati.

– Oh! béby, béby! Che cosa orribile! – gridò. – Come puoi affliggere così la tua povera mamma?

Ma con ciò ebbe termine l'educazione musicale. Ogni volta che una nota ergeva il tondo capo nero sull'orizzonte di Nancy, ella alzava rapida la mano e si strappava una ciocca di capelli. Poi apriva il pugno e lo mostrava a tutti. Il pianoforte fu chiuso; i libri sull'Armonia, la Teoria e il Contrappunto furono messi via.

Non più la sera al suo lettino la Fräulein le cantava del Beethoven travestito da ninna-nanna. Ma bensì i suoi due vecchi amici, « Bel Popò » e « Menton Fleuri » tornarono al suo capezzale; e l'accompagnarono come di consueto alla buia e lontana Isola del Sonno. Con loro ella s'imbarcava, meno timida, sulla grande nave dei sogni che ogni sera con vele stellate l'aspettava, galleggiante sull'oscurità.

 
« Bel popò, fa la nanna, fa la nanna, bel popò…
Menton fleuri, menton fleuri, kikiriki, kikiriki! »
 
* * *

Fräulein Müller sedeva nel parco, leggendo. Nancy con una bambola in braccio, sedeva sull'erba ai suoi piedi; e la osservava, divertendosi a veder ballare sul cappello di Fräulein Müller due piume nere che oscillavano come su di un piccolo carro funebre, segnando il ritmo di qualche cosa che Fräulein leggeva.

– Che cosa leggi, Fräulein? – domandò Nancy.

Fräulein Müller continuò a nicchiare col capo e lesse forte, col suo esecrabile accento tedesco, il soave verso di Tennyson:

 
Shine out, little head, sunning over with curls!....
(Oh, testolina raggiante, affacciatevi,
Soleggiata di riccioli d'oro)!
 

– Che belle parole, – disse Nancy. – Leggile ancora.

Fräulein ripetè i dolci versi mattinali.

– Torna a leggere, – disse Nancy. – Leggi più lento.

Fräulein ricominciò. E la ragazzina ripetè i versi piano, tra sè.

Poi disse alla governante:

– Continua a dire quelle parole, sempre quelle, finchè ti dirò di smettere.

E Nancy chiuse gli occhi.

– Ma perchè? – disse Fräulein. – Cosa ti viene in mente? – Poi visto che la bimba non rispondeva nè apriva gli occhi, la mite Fräulein Müller, scrollando il capo, obbedì.

… Quella stessa sera Nancy litigò coi suoi amici Bel Popò e Menton Fleuri.

Fräulein, nella penombra della nursery, ripeteva quasi sonnecchiando quei blandi ritornelli, quando al sesto « kikiriki » vide Nancy rizzarsi a sedere nel letto, colle guancie accese e gli occhi saettanti.

– Non dirlo più, – proruppe. – Guai a te se lo dici ancora. Non voglio più sentire quelle stupide cose.

Fräulein, attonita, ammutolì.

– Canta qualcos'altro, – disse Nancy.

Ma Fräulein non sapeva che cos'altro cantare. Tentò due o tre canzonette, con poco successo. Nancy tornò a sedere nel letto:

– Non voglio più sentire quelle parole sciocche che tu dici. Non puoi cantare solo la musica, senza dire le parole?

Fräulein si accinse con le labbra socchiuse a modulare dei suoni incerti, e stava appunto per scivolare nel Beethoven, quando Nancy si rizzò ancora:

– Oh, Fräulein! non far così! Prova a dirmi delle parole senza far quei brutti suoni. Dimmi tante parole, ma che siano belle!, finchè mi addormento.

La povera Fräulein dopo essersi provata a dire tutte le parole che le parevano belle, andò a prendere da uno scaffale un volume di poesia del Lenau; e, aprendolo al « Waldlieder », lesse ad alta voce a Nancy, finchè questa si addormentò.

Le sere seguenti lesse « Mischka »; e poi « L'Atlantica. » Quando ebbe finito il volume del Lenau, prese a leggere le ballate di Uhland. Poi lesse Körner; poi Freiligrath; poi Lessing.

Chi può dire ciò che Nancy udì? Chi sa quali visioni e fantasmi essa portò seco ogni notte? Sulla grande nave stellata dei suoi sogni ora non l'accompagnavano più – blandi e puerili – Bel Popò e Menton Fleuri; bensì salpavano con lei, grandi e strani, i vecchi poeti tedeschi, lungo-chiomati, dagli occhi torbidi, dal senso oscuro, dagli epiteti fulgenti.

Così, ogni sera, durante gli anni della sua puerizia, la piccola Nancy se ne partì per i suoi sonni con la scorta di liriche e madrigali, di sonetti e sirventesi, di odi ed elegie, cullata da ritmi cadenzati e da risonanti rime. E certo in una di quelle sere i poeti gettarono una malìa su di lei. Condussero la sua giovine anima così lontano, così lontano, che non le riuscì mai più di ritrovare la riva.

E Nancy non si svegliò mai completamente dai suoi sogni.

V

Una notte, nella sua casa a Milano, il vecchio architetto Giacomo Tirindelli – lo zio Giacomo di Valeria – mise sbuffando e brontolando le brevi gambe fuori del letto, e andò nella camera di suo figlio Antonio per vedere se c'era.

Non c'era. Già, suo padre se l'aspettava! Ma non per ciò fu meno indignato al cospetto della stanza vuota e e del letto intatto.

Accigliato e scrollando il capo andò alla finestra ed aprì le imposte. Milano dormiva. Deserta e silenziosa la via Principe Amedeo si stendeva davanti a lui; ogni alterno fanale spento indicava che la mezzanotte era passata. Un melanconico gatto traversò la via, rendendola più vuota con la sua presenza.

Lo zio Giacomo richiuse la finestra, e si diede a camminare in su e in giù nella stanza del figlio assente. Sulle pareti, sui tavoli, sul caminetto, sugli scaffali, stavano delle fotografie: Nunziata Villari, nella parte di « Teodora » in rigide vesti regali. Nunziata Villari nella « Cleopatra », vestita di soli gioielli. Nunziata Villari nella « Margherita Gauthier », in camicia da notte – o così parve ai torvi sguardi dello zio Giacomo. – La Villari da « Norah », la Villari da « Saffo », la Villari da « Francesca »… Più in là, in disparte, un ritrattino da ragazzetta guardava da una vecchia cornice, e sotto alla figuretta rigida, stava una dedica sbiadita: « Al caro Antonio, la sua cugina Valeria ».

Lo zio Giacomo si fermò con un sospiro davanti al ritratto della sua nipote prediletta, ch'egli aveva un giorno sperato di chiamare figlia.

– Stolta creatura, – brontolò, fissando il gaio visino vacuo, – stolta creatura che è andata a sposare quel pover'uomo d'inglese, quando poteva invece sposare quel cretino ingrato di mio figlio!

Qui un altro profilo di Nunziata Villari gli saltò agli occhi, e poi ancora Nunziata Villari tutta capigliatura e sorriso…

Egli ebbe il tempo di imparare a memoria ogni lineamento di quella strana faccia ardente, prima che il portone di casa si aprisse e i rapidi passi di suo figlio echeggiassero sulla scala.

Antonio, che già dalla strada aveva visto il lume in camera sua, entrò con baldo sorriso.

– Ciao, papà! Perchè non sei a letto?

Accolse l'inevitabile contro-domanda con una scrollatina di spalle e un gesto d'ambe le mani un po' meridionale (un gesto che piaceva tanto a Theodora!).

– Ma babbo mio! io ho ventitrè anni, e tu… no. – E battè con gesto affettuoso e irritante sulla spalla tonda di suo padre.

– « Jeune homme qui veille, vieillard qui dort, sont tous deux près de la mort », – citò suo padre, tetro e severo.

– Eh, babbo mio! – E Antonio rise (di quel suo riso arguto e sottile che Cleopatra trovava irresistibile!). – Se la vita è breve, che sia almeno bella! – E accese una sigaretta.

Giacomo fremeva. Aveva anche freddo ai piedi, e la sua veste da camera gli era stretta. Suo figlio, gaio e soddisfatto di sè, lo esasperava.

– Non ti vergogni? – disse additando drammaticamente le file di fotografie. – Quella vecchia commediante cinquantenne…

– Scusa, – trentottenne! – corresse Antonio, mettendosi a sedere nell'unica poltrona.

– Una marionetta, un'arlecchina, che ogni facchino di piazza può andare a contemplare a piacer suo per cinquanta centesimi! Una donna di cui il marito, piuttosto che starle vicino, è scappato in capo al mondo…

– Scusa, in America, – interpose Antonio.

– … colla cuoca! – E lo zio Giacomo emise un grugnito d'indignazione.

– Temo infatti che Nunziata faccia una esecrabile cucina, – disse Antonio, inarcando le sopracciglia e sporgendo le labbra per soffiarne il fumo a cerchietti (nella maniera che Phaedra trovava così suggestiva!).

– Insomma, basta così, – disse suo padre. – Sono venuto per dirti che partiamo domani per l'Inghilterra. Régolati.

– Per l'Inghilterra? Domani? Ma cosa dici? – Antonio era scattato in piedi. – Ma tu sei matto, babbo mio! O fai per scherzo?

 

Come vide che suo padre aveva l'aria poco scherzosa, continuò, agitato:

– Ma cosa ti viene in mente di voler andare in Inghilterra?

Giacomo tentennò l'irta testa arruffata.

– Ho telegrafato avant'ieri; dopo un certo discorso che mi ha tenuto tua cugina Adele…

– Quella viperetta gelosa, – mormorò Antonio.

– … Sul conto di questa… Signora, – e Giacomo accennò col mento alle inconscie ed arridenti Nunziate Villari. – Ho telegrafato, come dico, a Hertfordshire, dicendo a tua cugina Valeria…

– Ah! Valeria! adesso capisco, – disse Antonio con un risolino sarcastico.

– Precisamente. Ho telegrafato a Valeria che venivamo a trovarla. Ed ella ha risposto che ne era felicissima, e che sua suocera ne era felicissima, e che tutti erano felicissimi. Dunque partiamo. E subito. E staremo in Inghilterra tre mesi, sei mesi, dieci anni, finchè non ti sarà passata questa mattana.

– Sì, sì; tu pensi ancora a Valeria, lo so, – disse Antonio ridendo. – Oh, babbo, babbo! sei un incorreggibile sognatore! Non è mai stato che un sogno quel tuo desiderio di tanti anni fa. Valeria era tutt'occhi per il suo Inglese, allora. Ed ora che è morto sarà tutta lagrime per lui. Vedrai! – Si avvicinò alla corta ed irata figura paterna e gli mise un braccio intorno al collo. – Sta qui, papà, sta qui. Pensa al viaggio, come è incomodo. Resta e goditi la tua buona vita calma.

Ma suo padre non voleva saperne di restare nè di godere. Afferrò il suo candeliere e se ne andò crollando la testa e perdendo per via una pantofola, e facendo sgocciolare la cera per tutto il tappeto nel chinarsi a raccoglierla. Offeso e sdegnato se ne tornò a letto. Oh, per dio Bacco, finalmente leggerebbe in pace il suo « Corriere »!

Ma tuttavia stava in ascolto per sentire se la porta di casa si riapriva ancora.

Si riaprì.

Battevano le due del mattino quando Antonio svoltò per la via Monte Napoleone; e il portinaio del 37 lo fece aspettare dieci minuti prima di aprirgli la porta.

E Marietta lo fece aspettare quindici minuti sul pianerottolo prima di aprirgli l'uscio. E la signora lo fece aspettare quindici eternità prima di comparire, leggiadra e spaventata, drappeggiata in raso bianco, e coi capelli puntati « n'importe comment » – o quasi – sulla graziosa testa.

Antonio le prese le mani baciandole, premendole sui suoi occhi, dicendole che partiva domani! No, non domani! oggi, oggi stesso! tra poche ore, per sempre! per l'Inghilterra! per l'orribile, gelida Inghilterra! E lei, che cosa farebbe? lo tradirebbe? Sì, certo, lo tradirebbe! Perchè era una infame, perchè era perfida, e lui lo sapeva! Ed era meglio morire subito tutt'e due, e farla finita!

Nunziata gettò il piccolo grido della « Lucrezia », terzo atto, e si scostò da lui col brivido del secondo atto della « Marguerite Gauthier ». E indietreggiò a scatti come nella « Fedora », e finalmente gli si precipitò sul petto come nella « Francesca ». Gli sussurrò all'orecchio cinque parole. Poi lo mandò a casa. Chiamò Marietta che le sciogliesse i capelli, e Marietta le rifece la treccia, e mise via il resto che non occorreva, e le diede la lanolina per la faccia. E la signora si mise a letto come Nunziata Villari d'anni trentotto. Antonio ancora non turbava i suoi sonni.

Ma Antonio rifece la sua strada per le vie notturne, ripetendo come in sogno le cinque magiche parole: « Londra – in maggio – dodici rappresentazioni! » – Ed era marzo!

– Basta! – pensava Antonio, – in qualche modo vivrò durante questi atroci due mesi. Aber fragt mich nur nicht wie, – aggiunse tra sè; perchè sapeva abbastanza il tedesco per poter citar Heine nell'originale. Aveva anche letto la « Jungfrau von Orleans » per poterne parlare con la Villari quando studiava quella parte. La Villari amava discutere le sue parti con lui e si divertiva a provare su di lui gesti ed atteggiamenti che le dovevano poi servire in teatro. Egli non se ne avvedeva, e vibrava a tutte le fantasticherie di lei come vibra un violino che si tiene tra le mani, al suono d'un altro violino. Quando ella imparava la « Maria Stuarda » egli fremeva tutto di eroiche aspirazioni. Egli si sentiva trasformato in Roberto Dudley e sognava una vita eroica e un'epica morte.

Quando Nunziata si preparava ad interpretare « Clorinda », studiandosi di adottare linea e posa di quella celebre avventuriera, Antonio fu d'un tratto scettico e corrotto, e per tre settimane suo padre tremò e soffrì, vedendolo passar le notti fuori di casa, e udendo dire che giocava come un forsennato alla « Patriottica ». E fu peggio quando la Villari studiò la « Messalina » assumendone, per esercitarsi, le teorie e le attitudini. Antonio ebbe allora un periodo di estrema demoralizzazione e di completo pervertimento. Ma durante le sei settimane in cui Nunziata cinse la sua mente dei candidi lini della « Samaritana », egli ridiventò spirituale e puro, rinunziò alla Patriottica, al gioco, alle notti scarlatte, e andò ogni mattina alla prima Messa in Duomo.

– Che strano figliolo siete voi! – gli disse la Villari. – Uno di questi giorni farete qualche grande sciocchezza. – Poi soggiunse, materna: – Perchè non lavorate?

– Non lo so, – replicò Antonio. – Forse perchè vivo in un ambiente falso. Non si ha tempo di far nulla. Dopo la trottata della mattina, è ora di colazione; e dopo colazione si legge, si fuma, si esce; poi è l'ora delle visite: la marchesa Dina vi aspetta ogni lunedì, la Navarro ogni martedì, la Della Rocca ogni mercoledì… e così via. Poi è l'ora di pranzo, e l'ora del teatro, e l'ora di andar a letto. Et voilà!

– Peccato! – disse la Villari, benevolmente materna, scordando per il momento di essere Messalina o Francesca o Fedora. – Non avete carattere. Siete buono; siete decorativo; non siete stupido. Ma avete, come si potrebbe dire, il naso fatto di pasta frolla, di pasta frolla cruda, che ognuno può prendere e far girare in qua e in là. Ahimè! Voi soffrirete molto; o farete molto soffrire. Ah sì, certo, farete soffrire… I nasi di pasta frolla, – soggiunse Nunziata gravemente, – sono fonti di pianto.

Lo zio Giacomo non era uno che avesse il naso di pasta frolla. Quindi, per quanto odiasse i viaggi, per quante cose perdesse nei treni e dimenticasse sui battelli, e per quanto la sua presenza fosse pressochè indispensabile nel suo studio dove si ammucchiavano progetti e disegni di ponti ed edifici, tuttavia egli aveva deciso di partire e partirebbe. Spedì sua figlia Clarissa, una personcina briosa e disinvolta, in un collegio a Bruxelles; disse addio alla sorella Carlotta e alla nipote Adele – e affannato e incollerito si arrampicò nel treno di Chiasso, seguito dall'imperturbabile Antonio.

Anzi Antonio pareva rallegrarsi del viaggio a tal punto, che suo padre, appena in treno, si chiedeva rabbiosamente perchè diamine fossero partiti! Che la storia narratagli da Adele riguardo all'infatuazione di Antonio per l'attrice fosse tutta una fandonia? Già le donne esagerano sempre! In ispecie Adele…

Giacomo osservava con ira crescente suo figlio.

Antonio dormiva, mentre lui stava sveglio. Antonio mangiava, mentre lui aveva nausea. Giunti a Folkestone, Giacomo, che non sapeva d'inglese che « rosbif » e « The Times », era frastornato e affranto. Ma Antonio, ilare e baldo, arricciandosi i baffetti, faceva occhi lunghi e languidi alle ragazze inglesi, che con rapido sorriso lo guardavano, e poi passavano in fretta, fingendo di non averlo veduto.

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