La libertà negata tra religione e psichiatria

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La libertà negata tra religione e psichiatria
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Giulio Di Luzio

La libertà negata

tra religione e psichiatria

ProMosaik 2021

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Una pubblicazione di ProMosaik LAPH.

Diritti d’autore Giulio Di Luzio.

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EPUBLI

Prinzessinnenstraße 20

10969 Berlin

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Tutti i diritti riservati.

Sinossi

“Le prime vaghe irrequietezze delle nostre pubescenti,

che altrove il prudente confessore stornerebbe o

mitigherebbe coi digiuni e le astinenze del mese

Mariano o di quel che segue, qui in Puglia si

risolvono talvolta chitarra e tamburello”.

Giuseppe Chiaia – 1888

C’era qualcosa di imprevedibile e rituale al tempo stesso in paese nel mese di giugno. Il barbiere chiudeva la bottega e le donne si rintanavano in casa, aspettando i suonatori. La Felicia aveva scoperto di essere diventata donna, ma l’irriverente appellativo riservato a sua madre restava un mistero. All’epoca, sul finire degli anni Cinquanta, in quello spicchio di Salento li carusi portavano i pantaloni corti anche d’inverno e le caruse gonne rigidamente lunghe al ginocchio. Il menarca svelò un mondo di passioni emergenti ma precluse da una legge dura a morire. L’interrogativo si sciolse nel giugno del 1959, quando sua madre stette male e chiese li suoni. Nel suo basso giunse l’orchestrina de lu pisciapariti, barbiere ed apprezzato flebotomo, per il rito liberatorio. Zì Catanina era una pizzicata! La Felicia affrontò una realtà temuta e tuttavia attesa ogni anno, perché l’esorcismo della danza, dei suoni e dei colori sveleniva le braccianti pizzicate dal ragno durante i lavori sui campi di raccolta del tabacco. Anche per lei giunse il primo amore, ma irraggiungibile e contrastato perché lu principe, alto e bello, era il figlio di don Oronzo, il medico del paese. In cambio le venne proposto un giovane con lo stipendio fisso ma con un difetto fisico. Lei non accettò e cadde in uno stato di abbandono simile alla depressione. Soffriva e rischiava di morire. Venne così portata a scazzicare, a liberarsi cioè del dolore per l’amore negato attraverso il rito terapeutico della danza. La Felicia, ormai pizzicata come sua madre, iniziò a recarsi il 29 giungo di ogni anno nella chiesetta di Galatina, vicino Lecce, per ringraziare San Paolo della grazia ricevuta e bere l’acqua miracolosa del suo pozzo. Ma i tempi stavano cambiando e la Chiesa, dopo secoli di tolleranza, non accettava più di legare il rituale esorcistico alla fede per l’Apostolo delle Genti. Così con l’aiuto della scienza medica riuscì a sradicare nell’opinione delle braccianti il nesso simbolico tra il rito delle pizzicate e il Santo protettore dei morsicati da ragni, vipere e scorpioni. La medicina iniziò ad osservarle come malate ed esse divennero materia di interesse psichiatrico. Il paese e i nuovi costumi, che si andavano consolidando col boom economico degli anni Sessanta, non le tolleravano più, ma la Felicia continuò a cercare l’amore per lu principe, che quel paese le aveva negato. I suoi comportamenti vennero ritenuti licenziosi e incompatibili coi tempi, mentre la malattia diventò l’unica chiave di lettura per interpretare la sua voglia di libertà. La scelta estrema divenne l’ultima occasione per rivendicare quell’amore precluso, sia pur a costo di pagare il prezzo più alto tra le acque fresche e liberatrici.

Introduzione

Il Tarantismo è un fenomeno storico-religioso presente soprattutto in Salento fino a qualche decennio fa ma ora ridotto a episodi sporadici, trattati come folklore.

Tuttavia, è stato largamente studiato, non solo in Italia, con ricerche universitarie effettuate sul campo, in particolar modo nell’area geografica di Lecce in Puglia.

Ha origini molto antiche, che si fanno risalire all’età Greca.

Si racconta che durante la stagione estiva alcune braccianti raccoglitrici di tabacco venivano punte da un ragno, la tarantola, che provocavano una serie di sintomi, che andavano da uno stato di assenza psico-fisica, alla mancanza di appetito e desiderio sessuale, dall’astenia alla sindrome depressiva, insomma una forma di catalessi del corpo abbandonato a se stesso, che una larga parte dell’opinione pubblica paesana assimilava a persone disturbate mentalmente.

Le tarantate erano giovani contadine povere, che vivevano in casolari abbandonati di campagna senza luce e servizi igienici, umiliate dalle figure maschili della propria famiglia -fratelli, padri e mariti- e conducevano una vita di lavoro e di preclusioni sociali, affettive e sessuali.

A ridosso della stagione estiva -epoca del raccolto e del guadagno per la vendita dei frutti della terra, con cui onorare i debiti contratti durante l’anno- esse iniziavano a vivevano una trasformazione dei loro comportamenti.

In particolare, con l’avvicinarsi del 29 giugno, festività di San Paolo Protettore delle tarantate, le donne mostravano una inaspettata vitalità fisica, diventavano aggressive come mosse da un irrefrenabile bisogno motorio, desiderose di esprimere tutto il loro protagonismo –represso tutto l’anno- con atteggiamenti di tipo erotico e movimenti simili a quelli del ragno, come arrampicarsi sui mobili o strisciare per terra.

Alcuni suonatori si recavano nelle loro misere abitazioni, per effettuare un rituale musicale, che le faceva danzare per ore al ritmo dettato da fisarmonica, chitarra e tamburello.

Dopo alcuni giorni di questa forma di esorcismo esse riprendevano il sorriso e l’appetito e quindi venivano portate, come comandava la tradizione centenaria, su carretti trainati da cavalli, alla chiesa di San Paolo in un paesino vicino Lecce, Galatina, per ringraziarlo dell’avvenuta guarigione.

Qui, scapigliate e disadorne, vestite con lunghe gonne bianche e avvinte da uno stato di ebbrezza come ubriache, si esibivano salendo sull’altare, saltellando come grilli al comando del ritmo, dettato dai suonatori e come ipnotizzate dai colori accesi come il rosso e il celeste.

La musica martellante le induceva a movimenti sempre più violenti, che portavano alcune di esse a procurarsi ferite nelle cadute in chiesa o sul selciato del piazzale esterno, fino a richiedere l’intervento della forza pubblica.

Al termine di questa forma di ringraziamento, fatto di musica, colori e danza, esse bevevano l’acqua del pozzo della Chiesa di San Paolo e vomitavano il veleno iniettato tempo prima dalla puntura della tarantola sui campi di raccolta del tabacco.

Quindi ritornavano nei loro comportamenti abituali tra gli abbracci dei familiari.

Negli anni molte donne povere, vittime anche loro di una vita sottomessa alle figure maschili di riferimento, e alla sottocultura paesana, iniziarono a mostrare gli stessi sintomi, pur non lavorando nei campi di tabacco e quindi non essendo state morse dalla tarantola.

Come mai?

L’etnologo napoletano Ernesto De Martino, che a lungo studiò il fenomeno, parlò quindi morso virtuale del terribile ragno.

In altri termini esse si ribellavano alla condizione di povertà esistenziale, in cui tutto era loro negato, compresi gli affetti e la sessualità, ed entravano in una condizione di trance psichica allo stesso modo delle donne morse dal ragno.

Dunque riscattavano in quel periodo estivo tutte le restrizioni -emotive e fisiche- e gli stenti accumulati durante l’anno, esattamente come pagavano con la raccolta della terra i debiti accumulati.

Il racconto narra di una tarantata, che negli anni del boom economico italiano, gli anni Sessanta, si attarda ancora in condotte anacronistiche, non più tollerate dalla Chiesa e dal mondo medico, che quindi scelgono di sbarazzarsene, facendola passare per matta dopo un amore negato.

Zì Catanina e la Felicia

La condizione di figlia unica l’aveva fatta crescere in fretta tra dicerìe e commenti mormorati sul conto di sua madre. La piccola aveva capito che si trattava di argomenti, che la buona creanza impediva di discutere a cielo aperto. Tuttavia le domande si erano infittite, gli anni passavano e richiedevano risposte urgenti. L’inverno del 1958 fu particolarmente rigido in quello spicchio di Salento. I bracieri in rame brulicavano nelle misere abitazioni.

“Perché sparlano di voi?” chiese timidamente una sera, con gli occhi incantati sui carboni ardenti.

Stavano dirimpetto, chinate sulla conca ramata.

“Ce’ cunti*?” rilanciò la donna con meraviglia.

“Voi e la Peppina del paese -azzardò coi pugni stretti- e la Matilde di Cutrofiano** e …!”.

“…conosco solo la Peppina e nessun’altra- la interruppe contrariata- perché ti pigli pena?”.

I gusci secchi delle mandorle scoppiettavano. Zì Catanina afferrò un mandarino e ne lanciò la buccia tra i carboni. Con un palettino spostò i più ardenti al centro e sopra un recipiente d’acqua, per inumidire l’aria.

Ma la Felicia non intendeva rinunciare:

“Andate a Galatina** a giugno per ringraziare lu Santo Protettore” affondò con timore.

“Nun cuntare a minchia”*** tagliò corto sua madre.

“Io vado in chiesa per gratitudine a San Paolo, perché ci tiene in vita e in grazia di Dio e nient’altro”.

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