Apartheid all'italiana

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Giulio Di Luzio

APARTHEID ALL’ITALIANA

Anti-fiaba dell’Italia accogliente

ProMosaik 2021

l mondo è diviso

tra coloro che non dormono

perché hanno fame

e coloro che non dormono,

perché hanno paura

di quelli che hanno fame.

(Paulo Freire)

I profughi sono rifiuti umani senza alcuna funzione utile nella terra dove arrivano e soggiornano e senza realistica possibilità di essere mai inseriti nel nuovo corpo sociale; dal luogo che occupano, la discarica, non vi è ritorno, se non verso luoghi ancor più remoti.

Fuori dai campi i profughi sono un ostacolo e un disturbo; dentro essi cadono nell’oblio. Non rimane null’altro che i muri, il filo spinato, i cancelli sorvegliati e le guardie armate.

Zygmunt Bauman

Prima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti combattono. Poi vinci.

M. Gandhi

I primi istogrammi

Ma chi saranno questi strani personaggi con singolari caratteri somatici e pelle nera, che suonano al citofono o sostano per ore in strada? L’interrogativo aleggia e comincia a imporsi verso la fine degli anni Settanta in Puglia, soprattutto nel Salento. Sono i tapì, ambulanti che vendono tappeti porta a porta o per le vie di paesi e città. Non disdegnano lavori agricoli e marginali, ma iniziano a occupare un piccolo segmento di mercato dell’ambulantato. Sono marocchini e senegalesi per la gran parte. Li chiameranno con quel bizzarro nomignolo, in bilico tra sberleffo e stereotipo, embrione di un lessico discriminatorio in formazione. Il simpatico appellativo sarà sostituito qualche anno dopo dal più noto e nazionale vu cumprà, per indicare gli immigrati ambulanti disseminati lungo la costa adriatica. È un’Italia troppo indaffarata con la fine di un decennio tanto pregnante per la sua storia più contemporanea, per degnare di attenzione quelle ombre esili che si affacciano con timore alle porte di un paese mite e accogliente, come essi credevano.

Alla fine del decennio i migranti sono 144.838, per diventare oltre 200 mila nel 1979 e toccare i 300 mila soggiornanti l’anno successivo. Nel 1981 il primo censimento Istat degli stranieri in Italia, ne calcola 321 mila. Seguiranno aumenti contenuti, per giungere nel 1984 a superare la soglia dei 400 mila. Un ulteriore incremento si registra tre anni dopo, quando si supera il mezzo milione, in seguito alla prima regolarizzazione del 1986.

Il nostro Dna, per gran parte della storia d’Italia dall’Unità in poi, parla di un popolo migrante e di un Paese di emigrazione, che ha visto gli italiani per più di un secolo prendere le vie dell’esodo con circa 28 milioni di espatri a partire dal 1867 e una punta massima nel 1913 di oltre 870 mila partenze. Ancora negli anni Cinquanta e Sessanta lasciano il Bel Paese in media 300 mila persone l’anno. Il fenomeno emigratorio comincia ad affievolirsi solo a partire dagli anni Sessanta, quelli del miracolo economico, fino a ridursi, negli anni Settanta, a 108 mila unità.

In particolare nel 1973 l’Italia registra per la prima volta un leggerissimo saldo migratorio positivo (101 ingressi ogni 100 espatri), caratteristica che si rafforzerà e diventerà una costante negli anni successivi. È da notare, tuttavia, che in tale periodo gli ingressi sono in gran parte costituiti da emigranti italiani che rientrano piuttosto che da immigrati. Sul finire degli anni Sessanta il nostro Paese è interessato da una prima immigrazione di giovani donne filippine, capoverdiane, somale, eritree, peruviane, argentine. Occuperanno la sfera dei servizi privati (colf) nelle grandi città, grazie al sostegno delle reti cattoliche. Ma bisognerà aspettare la fine del decennio successivo per registrare arrivi di una qualche consistenza. Gli anni Settanta resteranno immortalati nella memoria collettiva –ma anche nella debole coscienza civile degli italiani, del mondo politico e dell’informazione– come gli anni della curiosità e dell’indifferenza verso i nuovi arrivati, per un fenomeno di proporzioni ancora contenute. Il decennio successivo segna la fase delle buone intenzioni. Già sul finire degli anni Ottanta si va affermando una lettura dell’immigrazione schiacciata sull’emergenza e sulle corde dell’ordine pubblico. I primi flussi sono costituiti da lavoratrici domestiche, che presentano un basso tasso di visibilità sociale, e da richiedenti asilo di passaggio verso altri Paesi. C’è poca attenzione da parte degli studiosi al tema: gli italiani e l’accademia restano concentrati sull’Italia come Paese di emigranti. Ma i tempi stanno cambiando in fretta!

Chi sono?

È l’autunno del 1989 quando la prima ricerca nazionale sul fenomeno immigratorio in Italia, realizzata dall’ISPES –Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali– stabilisce che la maggioranza degli immigrati giudica gli italiani “indifferenti, ostili e razzisti”. Si tratta di una ricerca attendibile e rigorosa condotta su un campione di 1200 persone, che scuoterà il perbenismo dell’opinione pubblica del Bel Paese di fronte al milione circa di immigrati stimati all’epoca in Italia. Soprattutto, per spiegarne i risultati, bisognerà fare un coraggioso passo indietro e scoprire gli elementi di un nascente e sommerso razzismo all’italiana. Una specie di sveglia improvvisa, che sconvolgerà la tranquillità dei nostri sogni, soprattutto di coloro i quali erano convinti che vivere in una Repubblica nata dalla Resistenza rappresentasse un valido antidoto alla deriva xenofoba. È uno sfondo triste quello che si delinea sul finire degli anni Ottanta. Racconta lo stillicidio di piccoli e grandi episodi di intolleranza e violenza diffusi un po’ in tutta la penisola ai danni di immigrati neri; episodi che tanto peso avranno sulla percezione della reale portata dell’immigrazione italiana e sulle sue prospettive future. Proprio in quegli anni si segnalano fatti di insofferenza, discriminazione più o meno velata o aperto razzismo nelle grandi e civili città italiane, da Verona a Firenze, da Rimini a Udine, da Milano a Pisa, fino a Torino. È proprio nel capoluogo piemontese che si costituisce addirittura una “Lega contro la droga e contro l’emigrazione irregolare del Terzo Mondo”. Le istanze autonomiste più rozze e apertamente xenofobe cominciano a farsi strada e a coagularsi come grumi proprio intorno al fenomeno immigratorio. Sono episodi che riguardano i vu cumprà della costa adriatica ma anche rapporti di lavoro con immigrati considerati con disprezzo da clienti di bar e aziende. Fino a convivenze ritenute difficili tra condòmini in presenza di neri. A Palermo nel gennaio ’89 viene aggredita la giovane poliziotta somala Dacia Valent, poi divenuta europarlamentare del Pci. A Udine, solo quattro anni prima, il fratello appena quindicenne era stato massacrato con sessanta pugnalate da due compagni di scuola, appassionati lettori del Mein Kampf. Sempre all’inizio del 1989 a Firenze viene pestato a sangue il giovane somalo Osman Ibrahim all’uscita da una discoteca, mentre a Napoli un gruppo di teppisti ferisce un etiope. Nella ricca Lombardia, nella Milano da bere di quegli anni Ottanta, spicca per brutalità il trattamento riservato al giovane senegalese Paap Khouma, picchiato dalla polizia italiana. La vulgata razzista non risparmia i terroni, esponenti di quella parte del Sud del mondo molto più vicina a noi: l’8 luglio dello stesso anno a Verona il maresciallo Achille Catalani, pugliese di 51 anni, è massacrato e ucciso di botte da due veronesi. È nel biennio 1983-1985 che l’Italia registra un rafforzamento dell’ondata immigratoria, ma è dall’87 –e soprattutto dall’anno successivo dopo le limitazioni agli ingressi adottate da Francia e Germania– che il fenomeno diviene massiccio, dunque visibile e ingombrante anche agli occhi di chi tarda a prendere atto della mutazione in atto in Italia da paese emigrante a terra di approdo. Il Trattato di Schengen verrà siglato nell’85 tra Germania, Francia, Lussemburgo, Olanda e Belgio con misure restrittive di dubbio valore umanitario. Al dicembre 1988 sono 600 mila gli immigrati censiti dal Viminale in possesso di permesso di soggiorno, ma il dato ne trascura altrettanti irregolari. Ogni etnia prenderà posto in uno spicchio ben definito del paese: i nordafricani –dice l’ISPES– in Sicilia, le capoverdiane, gli etiopi e i somali a Roma, i senegalesi nelle zone industrializzate del nord, soprattutto nel bresciano. Infine i centroafricani a Villa Literno, Castel Volturno e lungo il litorale domiziano, nel casertano. Sarà proprio Villa Literno l’indicatore più fedele dell’intolleranza in Italia in quella triste mappa, ma anche l’epicentro degli avvenimenti destinati a mutare il volto dell’immigrazione italiana.

In Italia nel 1989 il pentapartito è guidato da Andreotti. L’anno è aperto dai missili Usa sulla Libia e dall’annuncio della chiusura delle acciaierie di Bagnoli. A marzo Achille Occhetto esce vincente dal congresso che inabisserà il Pci. Si è votato per il Parlamento Europeo. Gli italiani protestano per l’introduzione dei ticket sanitari. Il mondo cambia. A fine anno cade il Muro di Berlino. In Cina la protesta pacifica degli studenti viene fiaccata a Tienanmen. In Palestina l’Intifada è al suo culmine e manca un anno alla prima stretta di mano tra Rabin e Arafat. In Sudafrica c’è l’apartheid di Stato. Nelson Mandela è in prigione da ventisei anni ma sarà liberato l’anno successivo. Nel nostro paese ci sono un milione e 200 mila immigrati.

 

La svolta, l’apartheid italiano

Grazie a intensi processi di bonifica che interessano l’intera area paludare del Volturno, a ridosso di Casal di Principe, Castel Volturno e Villa Literno (qui nasce l’espressione dialettale dei “mazzoni” per indicare quell’area), il territorio dà impulso in quegli anni a una ripresa dell’attività agricola, divenendo crocevia e punto di smistamento di forza lavoro per l’intera area. Il paesaggio agricolo tipico degli anni Settanta muterà aspetto. Le ricche coltivazioni di piante di pesco, le grandi distese di ortaggi e barbabietola da zucchero dovranno fare i conti rapidamente con l’assenza di impianti di trasformazione del prodotto, mentre la produzione del pomodoro, l’oro rosso, si estende inesorabilmente, forte della presenza di stabilimenti di lavorazione e di un mercato regolamentato dalla Cee e sostenuto dai contributi dell’Aima (Azienda per gli Interventi sul Mercato Agricolo del Ministero dell’Agricoltura), che pagherà fino a 250 lire ogni chilogrammo di pomodoro raccolto. Il costo del lavoro di un bracciante marocchino, tunisino o sudanese non supera le 40, 50 lire! La posta in gioco è troppo allettante. Il mercato è altamente competitivo, i braccianti del posto sono insufficienti e nessun giovane dell’aversano, che registra un tasso di disoccupazione tra i più alti dell’intera Campania, si sogna di accettare simili condizioni di sfruttamento. Ai pochi lavoratori locali, dunque, si aggiungono gli immigrati africani, fino a sostituirli del tutto negli anni seguenti. Il processo è esponenziale anno dopo anno, tanto più che l’agricoltura intensiva, in particolare la raccolta del pomodoro, ha esigenze di manodopera con punte molto elevate in un ristretto arco di tempo, al massimo un paio di mesi. Sicché la richiesta di braccia è urgente, ma le distanze per il pendolarismo bracciantile locale diventano impraticabili. L’unica soluzione è quella di far confluire in loco manodopera aggiuntiva, in modo da soddisfare le richieste per l’emergenza stagionale. Gli immigrati rappresentano la soluzione a portata di mano, tanto più che le decine di proprietari di seconde e terze case sulla costa domiziana si dicono pronti a fittarle agli africani, non fosse altro per sottrarle all’eventualità della requisizione in favore dei senzatetto del terremoto dell’80. Un pericolo, quello della requisizione, che si può scongiurare facendole trovare “occupate”, semmai da chi si potrà cacciare da un giorno all’altro, passata la nottata. Niente di cui meravigliarsi se i tanti africani aspiranti braccianti, diretti nel casertano, grazie a un efficiente sistema di passa-parola, vi giungeranno fin dai primi anni Ottanta con un foglietto ben stretto in mano e su scritto: Castel Volturno. È un andamento progressivo quello che in quegli anni porta migliaia di africani nell’agro aversano, lungo il litorale domiziano, Mondragone, Castel Volturno, fino a Villa Literno, per il lavoro nei campi. All’inizio vi giunge un consistente gruppo di ghanesi, che comincia a farsi strada nel mercato delle braccia del posto. Sono soprattutto uomini, che troveranno una qualche occupazione anche nel settore della ristorazione e nell’edilizia. Dall’84 arrivano anche le donne del Ghana: lavoreranno come colf. Ma è col lavoro stagionale della raccolta del pomodoro, che la presenza del bracciantato nero diventa di proporzioni considerevoli, raggiungendo punte di quattro-seimila unità nel comune di Villa Literno, che all’epoca conta circa diecimila abitanti. A partire da quei primi anni la presenza di africani sul territorio cresce con ritmi esponenziali. Fino a porre interrogativi sulla reale tenuta e sulle modalità di assorbimento da parte di paesini e di un tessuto sociale in condizioni di disagi strutturali.

È lo scenario tipico di questo spicchio arretrato di Sud, quello che i nuovi arrivati si trovano di fronte: sistemi fognari ottocenteschi, acqua insufficiente erogata col contagocce in poche ore della giornata, che non giunge ai primi piani condominiali, assenza di marciapiedi, servizi sociali inesistenti, nessun presidio sanitario, viabilità del tutto inadeguata se non inesistente, trasporti pubblici e case notevolmente al di sotto delle esigenze dei residenti. Villa Literno e i suoi diecimila abitanti, strangolata dai debiti, dove non esistono elenchi di contribuenti né traccia di impianti sportivi o luoghi di cultura o cinema, se non per la consueta sala a luci rosse. Solo qualche coraggiosa parrocchia di frontiera, come quella di San Nicola di Bari a Casal di Principe, a due passi da Villa Literno, con alla testa il giovane parroco don Peppe Diana, guarda caso trucidato dalla camorra cinque anni dopo, il 19 marzo del ’94, per essersi spinto al di là della catechesi, con la sua denuncia puntuale e coraggiosa, che sottrae giovani alla rete soffocante e alla manovalanza della camorra. La presenza silenziosa e invasiva della criminalità organizzata controlla, infatti, ogni attività in un territorio colonizzato dai clan, in cui l’assenza del senso dello Stato annulla i diritti di cittadinanza e ogni speranza nel cambiamento.

La politica non dimostra di essere all’altezza delle emergenze e delle priorità maturate in decenni di mediocre amministrazione di tanti Comuni del casertano. In pochi anni il territorio diviene un paradigma attraverso cui leggere l’impennata del fenomeno immigratorio in Italia, ma anche il fronte dei primi conflitti e delle prime contraddizioni. Villa Literno diventa in tal modo la capitale nazionale del bracciantato nero, la cui presenza, dall’estate dell’85 cresce a dismisura. Contestualmente si registrano episodi che, dalla semplice insofferenza, finiscono per scivolare nell’intolleranza prima e nell’aperta discriminazione poi. Il quadro si fa grigio. L’incomunicabilità comincia a serpeggiare tra gli immigrati e la gente di Villa Literno. Nelle sue campagne, infatti, se ne raccolgono a centinaia, fino a punte di cinquemila e oltre tra luglio e agosto durante la stagione del pomodoro. Stanno stipati in casolari abbandonati e fatiscenti, senza acqua, servizi igienici e luce, o in palazzine abusive sotto sequestro, rintanati in sottani destinati agli animali, in cantieri edili chiusi in agosto, oppure per strada, durante le poche ore di sonno che li dividono dall’inizio della giornata di lavoro, rannicchiati tra le lamiere di auto da rottamare o raccolti su se stessi tra i cartoni sulla piazza del paese. È un pugno nello stomaco per la civile Italia. Quella piazza, entrata nell’immaginario dei braccianti neri, è la Rotonda di Villa Literno, la cosiddetta piazza degli schiavi, come la ribattezzeranno quei media più attenti alla spettacolarizzazione degli eventi che alla reale comprensione del fenomeno o alla ricerca delle vie per uscirne. In realtà di piazza c’è ben poco. Lo spazio esistente è occupato dalla segnaletica stradale, ma l’appellativo dato a quel crocevia deriva dall’essere stato storicamente il luogo tradizionale di ritrovo del bracciantato locale, visto che Villa Literno rappresenta sul territorio un importante snodo viario e ferroviario. Da sempre vi giungono contadini dai paesi limitrofi, per poi dirigersi sui campi di lavoro. Ieri come oggi. Ma è cambiato il colore della pelle, sono mutati gli idiomi e i dialetti, le aree geografiche di provenienza. Un luogo, quindi, che si è sempre prestato alla funzione di raccolta delle braccia con la sua posizione strategica capace di collegare l’entroterra al mare, fino al capoluogo campano. Sarà qui che si daranno appuntamento alle prime ore dell’alba centinaia di immigrati per la conquista della giornata di lavoro. È il posto da cui si parte nottetempo con furgoni scassati zeppi di uomini neri alla volta dei campi, a volte distanti ore di viaggio. È il luogo simbolico del bracciantato africano nel Sud. Ma anche l’indicatore delle reali, disumane e inaccettabili per una società civile e una potenza industriale come l’Italia, condizioni di sopravvivenza di uomini in carne e ossa, di volti e corpi in cui puoi leggere la speranza, il dolore, l’aspirazione alla dignità e al rispetto, l’anelito a una vita affrancata dal giogo della miseria, dalla persecuzione nella propria terra e dalla discriminazione nel nostro paese. È il luogo in cui concretamente per anni saranno reclutati migliaia di immigrati senza alcuna garanzia, neanche della stessa paga. Non c’è, infatti, alcuna contrattazione e tutto avviene alla cieca, così come accadeva negli anni Cinquanta nel Sud Italia, in particolare in Puglia, ad opera dei caporali verso i braccianti di Brindisi o Lecce. Anche qui a fine giornata si confida sulla buona volontà dei caporali, personaggi minacciosi e armati, spesso collusi con la camorra, che di fatto autorizza, per così dire, l’attività di reclutamento.

Condizioni di sopravvivenza estreme, che porteranno alcune decine di loro a trovare riparo durante la notte finanche nei loculi del cimitero comunale di Villa Literno. La stampa starnazza ipocritamente il clamore della notizia, che in realtà non esiste. Le condizioni bestiali di vita dei braccianti neri sono note a tutti, se solo consideriamo che molti giovani immigrati nel periodo estivo dormono su pezzi di cartone direttamente sui marciapiedi della piazza. La circostanza farà inorridire la buona coscienza dell’opinione pubblica, la stessa che preferirà tuttavia non guardare la realtà e quel pugno nello stomaco. I carabinieri smentiscono ma il problema esiste. Anche gli episodi d’intolleranza vengono puntualmente minimizzati, se non sottovalutati o addirittura negati clamorosamente. Il caso raggiunge visibilità sulle pagine dei quotidiani nazionali. Intanto i lavoratori immigrati si attestano tra le sei e le ottomila unità tra Castel Volturno e l’agro aversano, pochi quelli in regola col permesso di soggiorno. Tra quelli che ne sono in possesso, una parte preferisce continuare il viaggio al Nord, per cercare lavoro nelle concerie toscane e venete o nelle fonderie e fabbriche metalmeccaniche lombarde.

Le morti nere

In questo clima di approssimazione, che vede da un lato la speculazione mediatica e dall’altro la paralisi della politica e della cosiddetta società civile, capace solo di indignarsi, il 4 dicembre dell’86 la camorra uccide senza troppi complimenti due giovani immigrati, Thomas Quaye e Gorge Anang, trucidati a Castel Volturno e fatti ritrovare cadaveri nel centro del paese come chiaro ammonimento. La polizia parla di omicidi maturati nell’ambiente della tossicodipendenza, ma le circostanze non saranno mai chiarite. I presunti esecutori saranno arrestati qualche settimana dopo, ma saranno rilasciati per insufficienza di prove. È il primo fatto di sangue che si verifica ai danni di neri. Non sarà l’unico. Tanti altri ne seguiranno in un’area, il litorale domiziano, che negli anni futuri assumerà caratteri di terra di frontiera e area di extraterritorialità, impunità e illegalità diffuse, lungo quei ventisette chilometri che costeggiano il litorale, tra i cosiddetti mazzoni e un mare inquinato dagli scarichi dei caseifici di mozzarella di bufala. È il cuore della camorra, dove la domiziana non è solo un lunghissimo rettilineo anonimo ma una città che affianca Castel Volturno, un sobborgo di Napoli, un enorme quartiere dormitorio popolato dalla nuova miseria.

Immigrati e non solo, in un pezzo di terra sottratto a qualsiasi regola di convivenza, che non sia quella della camorra che controlla tutto: prostituzione, spaccio, latitanti, immigrati irregolari e tossicodipendenti in quel groviglio di villini a schiera uguali uno all’altro, abitati in estate da gente proveniente dalle periferie di Aversa e Napoli, camuffati in una grande pineta, che sembra fatta apposta per nascondere quell’umanità in fuga dalla povertà e dal dolore e finita lì, forse nell’ultima fermata di una carovana di dannati. I palazzoni anonimi e indifferenziati del Villaggio Coppola Pinetamare, sono il risultato della feroce speculazione edilizia degli anni Sessanta e Settanta. La relazione di quegli anni di Legambiente segnala il complesso edilizio come uno degli eco-mostri italiani. Decine di attività commerciali, palazzi e ristoranti sono stati costruiti su suoli del demanio pubblico. Il degrado, tra lidi balneari abusivi e case abbandonate, è il termometro con cui misurare questa città nella città di Castel Volturno. Il Villaggio Coppola Pinetamare, già occupato dai senza casa di Pozzuoli e Napoli in seguito al terremoto del 23 novembre 1980, dai primi anni Novanta ospiterà, nelle seconde case di casertani e aversani, i primi immigrati che si insedieranno e diverrà anche sicuro luogo in cui nascondere spacciatori e camorristi latitanti, bianchi e neri. Solo otto mesi dopo, nell’agosto dell’87, Fouad Khaimarouni, giovane manovale marocchino cade da una palazzina in costruzione a Villa Literno, in cui con tutta probabilità trova riparo durante la notte insieme ad altri immigrati. Le circostanze della sua morte non saranno mai chiarite. Lo spettro dell’intolleranza si appiattisce come un’ombra sinistra sul paesino casertano.

 

L’amministrazione locale, una giunta Dc-Pci, tenta una via d’uscita, chiedendo aiuto alla politica nazionale ma da Roma non giungono segnali: le vicende di Villa Literno sono percepite nella capitale ancora come deboli segnali di lamento. Una sottovalutazione dolosa che produrrà risultati sconvolgenti, drammaticamente. Intanto nel giugno dell’88 i braccianti immigrati di Villa Literno, Mondragone e Castel Volturno, coscienti del clima che si respira, corrono ai ripari e costituiscono coraggiosamente il primo embrione di autorganizzazione sindacale, il Coordinamento delle comunità africane. È un momento centrale per il nascente movimento bracciantile nero. Lanciano immediatamente un appello alla comunità bianca, un urgente messaggio, ma anche una denuncia civile sulle condizioni di vita e di lavoro, che chiameranno significativamente, ma anche profeticamente: “Prima che sia troppo tardi…”. Un segnale che, purtroppo, sarà ignorato:

«Noi africani delle comunità dell’area domiziana vogliamo restare per contribuire al futuro del vostro paese, per costruire insieme il vostro e il nostro benessere in un clima di pace, di solidarietà, di uguaglianza, di libertà e di giustizia sociale».

Chiedono l’applicazione della legge 943 dell’86 sulla regolarizzazione dei lavoratori immigrati – di fatto con la legge 943 si inaugurerà in Italia la stagione delle sanatorie – e invocano i diritti costituzionali in un paese che sconta i ritardi legati all’assenza di una normativa organica in tema di immigrazione. Un paese che scopre in quegli anni il fenomeno in tutta la sua portata e profondità, ma non dispone di strumenti con cui intervenire. Chiedono subito case e assistenza sanitaria. Sollecitano inoltre l’utilizzo dei container fermi nel campo di Capua, gli stessi da utilizzare in caso di calamità naturali.

«Questo è proprio impossibile» risponderà con solerzia il prefetto Agostino Stellato. «Se poi, Dio non voglia, ci fosse davvero una calamità, i senzatetto dove andrebbero a finire?».

Non solo, ma il vice-prefetto Giuseppe Urbani rincara la dose, affermando con toni illuminati: «Se si costruiscono delle strutture c’è anche il rischio che il fenomeno diventi più massiccio».

Parole sconcertanti in cui senza grande fatica è possibile scorgere un chiaro invito istituzionale all’indifferenza, se non all’intolleranza! Risultato? Gli episodi di intimidazione si ripetono. Il paesino casertano fatica a reggere il carico di migliaia di giovani braccianti in un’area che, solo per dare l’idea del vuoto di servizi sanitari, conta 80 mila abitanti tra sette comuni, compreso Villa Literno e dove l’Usl 19, competente all’epoca, non dispone né di ospedale, né di pronto soccorso, né di un telefono per la guardia medica, né di un medico scolastico. Una comunità del Sud dove, tra l’altro, i poliambulatori progettati non sono mai entrati in funzione. Intanto monta, tra spietato cinismo e guerra tra poveri, la cieca speculazione ai danni degli immigrati: dalla vendita di posti-letto in casolari di fortuna, la cosiddetta cuccia, alla doccia approntata in alcuni spazi sgangherati da un rosticciere di Villa Literno, che ne raddoppierà il prezzo tra luglio e agosto per gli africani. Ma si consolidano anche luoghi comuni razzisti, come l’abitudine dei baristi di fornir loro bevande in bicchieri di plastica, per timore della trasmissioni di malattie o il divieto di ingresso imposto in alcun esercizi commerciali. L’intolleranza diviene cieca umiliazione. Ma anche divertimento. Si diffonde il gioco dei birilli, l’abitudine di puntare i neri sulla strada con auto lanciate a tutta velocità. In tanti finiranno in ospedale. In questo clima il 30 settembre 1988 il giovane tanzaniano Juma Iddi Bayar viene trucidato a Mondragone. Secondo gli inquirenti si sarebbe trattato di una lezione, un monito rivolto ad altri immigrati, forse per l’utilizzo abusivo di casali e palazzine dismesse di campagna di proprietà di camorristi. Il controllo del territorio da parte della camorra è scientifico e capillare. Comincia a serpeggiare un clima di paura, a ragione.

L’estate 1989 è alle porte. Si annuncia un raccolto di proporzioni eccezionali per il cosiddetto oro rosso. La pressione di immigrati africani è molto forte, non meno di cinquemila. Anche la stampa gioca un ruolo nella vicenda di Villa Literno, ma più nel lanciare allarmi e cercare lo spettacolo mediatico per vendere qualche copia in più o alzare di qualche punto l’audience, che nel condurre inchieste serie e approfondite, in ciò corresponsabile nella definizione di quel clima di intolleranza, che si respira a Villa Literno. Solo per dare un’idea della qualità del lavoro svolto dai media, basti pensare alle cronache approssimative redatte in quei mesi da quegli stessi cronisti che per anni avevano ignorato le deboli voci di denuncia che da quelle terre si erano levate. Cronache spesso centrate su domande tanto banali quanto strumentali rivolte alle donne di Villa Literno presenti sulla Rotonda, la cosiddetta piazza degli schiavi:

«…Ma lei lascerebbe sposare sua figlia con un immigrato nero…?».

Dove l’immigrato non è l’uomo d’affari dell’aristocrazia nera americana o il divo delle cronache patinate, circostanza che avrebbe portato a ben altre risposte, bensì il paradigma del povero Cristo, quel bracciante che dorme tra i cartoni o nei casolari sudici delle campagne o sulla stessa piazza, senza servizi igienici, luce, acqua…! Le prevedibili risposte saranno poi utilizzate come indicatori di razzismo con titoli a sei colonne, una vera e propria operazione di sottocultura concepita tra copioni mediatici e categorie etnocentriche, che non gioverà al buon nome della stampa e dell’informazione del nostro paese. L’intera vicenda sarà una brutta pagina per il giornalismo italiano, più propenso ad agitare le scuri del razzismo che a fare inchiesta su aree degradate sottratte alla legalità e prive di essenziali servizi sociali. Interi paesi con una presenza invasiva della camorra nel tessuto sociale, dove i ragazzi giocano a impallinare con le loro rivoltelle i segnali stradali, dove alle otto di sera è arduo avventurarsi per le strade e una rapina è motivo di vanto per i giovani. Il piccolo comune è isolato. Molti giornali lo definiranno razzista, ma quella semplificazione non gioverà alla comprensione del fenomeno e alle sue dinamiche in atto a Villa Literno. Né all’ipocrisia di un’opinione pubblica nazionale che rassicurerà i suoi impulsi civili pensando a un paesino meridionale e arretrato in un’Italia tutto sommato solidale. Né alla classe politica romana per cui il problema, semplicemente, non esiste. E le migliaia di giovani braccianti neri? Ufficialmente non esistono! Villa Literno si divide sulle modalità di accoglienza e su quel poco che è possibile fare nel vuoto strutturale di servizi. Nel ritardo di interventi il 6 aprile del 1989 Ben Alì Hassen, giovane tunisino di 26 anni, viene massacrato in un circolo ricreativo di Casal di Principe, comune del casertano ad alta densità camorristica. Il movente non sarà mai chiarito. Gli inquirenti parlano di traffico di immigrati.

Una convivenza possibile?

Il 29 aprile del 1989 l’Amministrazione Comunale di Villa Literno organizza un convegno dal tema: L’immigrazione di colore in un comune meridionale, con la partecipazione di esponenti della Caritas Italiana, del sindacato, del mondo politico. L’occasione serve per rilanciare l’idea di un progetto di accoglienza, da sostenere grazie all’art. 23 della finanziaria. Il progetto, una vera e propria goccia in un mare di bisogni, prevede un centro con tre sale dormitorio, diciotto posti letto, una mensa, uno spazio per le attività teatrali, una piazzetta e un campo da gioco con le bocce, per una spesa di due miliardi di vecchie lire. L’obiettivo in realtà, al di là dei pochi posti letto, è quello di rendere visibile all’attenzione della Regione Campania e delle istituzioni l’esistenza del caso Villa Literno. L’idea incontrerà una vasta area di opposizione e porterà il mese successivo a una raccolta di firme dal contenuto chiaramente xenofobo: Via i negri dalle nostre case. Alla testa ci sono i fascisti della sezione “Folgore” del Msi e qualche esponente locale del Psi, tra cui l’ex sindaco e segretario della sezione locale, Vincenzo Tavoletta, lo stesso che ritroveremo i primi di febbraio del ’90 sul palco di una manifestazione del Msi dichiaratamente razzista, indetta con la parola d’ordine: Fuori i neri da Villa Literno, a tessere le lodi del “camerata Abbatangelo” – così dirà – presente alla manifestazione. L’idea del centro di accoglienza, l’albergo dei neri, come verrà subito ribattezzato dai promotori della petizione anti-immigrati, non troverà consensi e cadrà nel vuoto. Non solo, ma si accentua il clima da caccia al nero che porterà in quei mesi diversi immigrati a scappar via da Villa Literno, mentre i tanti rimasti passeranno notti insonni di fronte all’impennata di rapine e aggressioni. Un clima che punterà anche a identificare tout court la presenza degli immigrati con lo spaccio di droga e la prostituzione, giungendo finanche a contestare l’azione di accoglienza della Caritas Italiana di Castel Volturno. Un’operazione di spietata omologazione che non richiede commenti! Qualche sindacalista incappa nella vulgata xenofoba, fino a dire, attraverso le parole di un esponente della federazione edile: