Buch lesen: «Anima Nera Anima Bianca»
Patrizia Barrera
Anima Nera Anima Bianca
Il vero volto del BLUES
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Copyright Patrizia Barrera 2021
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Prefazione
Quando si parla di cultura Americana inevitabilmente si cammina sul sangue di uno sterminio. Un eccidio di massa che è perdurato per ben tre secoli, partendo dal sud e culminando nel nord, iniziato nelle Americhe di Colombo intorno al 1500 coi Conquistadores Spagnoli e abbracciando infine tutta l’Europa.
L’America dei primi tempi era sicuramente un paese duro, spaccato a metà tra le grandi praterie, le assolate piantagioni e le città nascenti, in un clima ingrato e sconosciuto dove chi c’era avrebbe preferito non esserci, e chi c’è rimasto spesso si è perduto. I primi colonizzatori erano fuorilegge, ladri, stupratori e mercenari, abbacinati dal miraggio dell’oro che sembrava galleggiare nei fiumi dorati, e dove gli scassinatori di banche erano considerati un èlite.
Inglesi, ma anche Irlandesi, Olandesi, Spagnoli, Portoghesi, Norvegesi, Svedesi, Francesi e Italiani, che arrivavano in quella terra selvaggia con l’unico scopo di possederla. Gente della peggior specie che non si fermava davanti a niente, neanche all’omicidio. Gli Indigeni del luogo, i cosiddetti Pellerossa, sparsi per tutto il territorio in centinaia di tribù e idiomi diversi, furono sterminati, ingannati e spogliati della loro dignità, come prima era avvenuto con gli indigeni delle Americhe del sud. Condannati alla fame e spogliati di tutto, i Nativi morivano, portando nella tomba anche la loro atavica cultura. E questa aberrazione si fuse al traffico bisecolare degli schiavi Africani, colonna portante della neonata America.
La cultura Americana è nata così, in una mescolanza di sangue e di lingue che non ha paragone in nessuna parte del mondo, una eccezionalità della storia che non ha precedenti. I primi bianchi si erano ormai perduti: e se inizialmente era gentaglia che spadroneggiava su quelle terre desolate creandosi il proprio regno, quelli venuti dopo erano ex galeotti, contadini, operai e prostitute, povera gente che non sapeva dove andare per affrancarsi dalla fame e, complice il Governo Americano che li affascinava con la promessa della terra, sperava di trovare nel nuovo continente un posto in cui rifugiarsi. Fu così che popoli ed etnie completamente diversi tra loro e che in condizioni normali non si sarebbero mai sognati di frequentarsi, si trovarono a lavorare gomito a gomito per sopravvivere. E tutti, guardandosi attorno, non trovavano traccia del proprio passato, nessun appiglio a cui aggrapparsi, nessun ricordo da mantenere.
Era DAVVERO un nuovo mondo, pieno di idiomi, di fermenti, di novità e di esperienze, ma anche di emarginazione, di rabbia e di sangue che si fusero in una MUSICA bambina che racchiudeva TUTTO: il Blues.
Fu sulla matrice africana che s’innestarono le suggestioni europee: le ballads Inglesi, il folk Irlandese, i grandi compositori Italiani, il tango Argentino, la chitarra Spagnola e non ultima la magia Cubana, già pratica di mescolanze tra sacro e profano con la sua Santeria. E tutto venne a sua volta rielaborato e rimescolato al passo strascinato dei galeotti e al ritmo infernale della frusta nelle prigioni Statali, dove il Blues raggiunse vette di liricità assoluta poco prima di spegnersi. Un canto del cigno nel quale palpita tutta l’essenza della sua doppia anima: quella Nera e quella Bianca.
Questa è la sua storia, dalle origini alla sua morte, avvenuta in un’anonima stanza di una piantagione di cotone, quando Robert Johnson esalò da solo il suo ultimo respiro.
Dopo di allora l’oblio? No, certo. Perché il blues è storia. E’ la linfa vitale che scorre nelle vene del jazz, è la rabbia urlante del rock, è il ricordo sempiterno del linguaggio universale che ci accomuna tutti e dal quale dovremmo prendere esempio, per mantenere integra la nostra umanità.
E’ il battito del nostro cuore. E’ lì che si è nascosto il blues.
Patrizia Barrera, 2021
Alle radici del Blues
Le Origini
Dura la vita per uno schiavo nero a cavallo tra la seconda metà dell’800 e l’inizio del nuovo secolo! Non che precedentemente fosse facile. Gli schiavi, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno sempre vissuto in condizioni disumane. Tuttavia in America la Guerra di Secessione non solo non aveva risolto il problema della schiavitù ma addirittura ne aveva creata un'altra, ancora più tremenda in quanto sommersa e istituzionalizzata. L’intera economia degli Stati del Sud si era basata per almeno due secoli sulla manovalanza degli schiavi i quali, tranne dovute eccezioni, si erano infine integrati nella realtà quotidiana costruendosi delle famiglie, e il rapporto col padrone bianco non era molto diverso da quello che OGGI l’intero universo industrializzato e fiorente stabilisce con gli extracomunitari, sottopagati e iper-sfruttati.
Finita la Guerra, immensi territori apparivano distrutti, le piantagioni bruciate e le proprietà confiscate: il Sud era in ginocchio e la povertà dilagava, tra i bianchi quanto tra i neri.
Ne va da sé che il capro espiatorio di tutta questa faccenda fossero appunto gli Afro-Americani, visti come la ragione prima della disperazione e della miseria collettiva. Benché gli stati del Nord li accogliessero benevolmente, sulla scia della politica del momento, pochissimi riuscivano ad abbandonare i luoghi natali: espatriare era una faccenda difficile, necessitavano soldi e viveri, e le famiglie abbondavano di donne e bambini che non potevano affrontare un pericoloso viaggio di intere settimane, con soli mezzi di fortuna! Accadde così che l’emigrazione interessò i pochi maschi che riuscirono a farlo, in genere padri di famiglia che speravano di sistemarsi al nord per poi chiamare presso di sé i propri cari. Un’utopia, un miraggio. Gli schiavi del sud superavano i 4 milioni di individui e il rapporto tra bianchi e neri era di un bianco ogni 50 neri: anche volendo, non ci sarebbe stato modo di sistemarli tutti. La maggioranza degli ex schiavi rimasero nelle terre poi messe all’asta dagli Stati dell’Unione e vendute al migliore offerente: vale a dire ai nordisti e a quei pochi sudisti che durante la guerra erano riusciti ad arricchirsi sulla pelle altrui. I neri, liberi e quindi abusivi a tutti gli effetti, furono tenuti come affittuari delle terre e, giacché non potevano pagarne l’affitto col denaro lo avrebbero fatto col lavoro. Ma non basta: su di loro fu caricato il pagamento del noleggio degli attrezzi agricoli, delle sementi e di tutto ciò che abbisognava per la cura delle nuove piantagioni. Debiti su a debiti che venivano saldati con l’accaparramento da parte del padrone del 70% dei frutti. Una nuova schiavitù che non aveva speranza di affrancarsi, in quanto perfettamente legalizzata: l'ex schiavo, malgrado non ancora cittadino Americano, godeva tuttavia di diritti civili pari a quelli degli altri uomini liberi e, come tutti, aveva il dovere di assumersi la responsabilità dei propri debiti. In questi casi, si sa, la Legge è sempre bianca. Ci si chiederà come sia possibile, almeno per consistenza numerica, che il nero non abbia deciso di ribellarsi, di affrancarsi da uno stato di cose che alla lunga lo avrebbe di certo annientato. La risposta risiede nella stessa natura dell’uomo di colore, capace di adattarsi e piegarsi come nessun altro, nella propria concezione della vita, nella sua ignoranza, nel forte credo religioso che lo avrebbe in seguito portato al vero riscatto e, purtroppo, alla nascita del Ku Klux Klan. Questa ignobile organizzazione nacque già nel 1865 per volere di ex ufficiali dell’esercito confederato come ”reazione e opposizione” al governo centrale, che si era completamente dimenticato delle vedove e degli orfani di guerra, concedendo però la libertà e il diritto di voto al nero, sgretolando in più le leggi segregazioniste che impedivano agli schiavi di espatriare. Fondatore fu il Generale Forrest, appellato poi Grande Mago recuperando se vogliamo l’odore di società segreta e massoneria. Gli infami individui spadroneggiavano per le piantagioni punendo i neri, colpevoli di essersi ribellati alla propria condizione ”naturale” di schiavitù. Picchetti di frontiera uccidevano senza controllo chi tentava di espatriare, e le violenze su donne e bambini ritornarono cose di tutti i giorni. Il Ku Klux Klan inoltre aveva pieno controllo sulla polizia locale, sui giudici e su una folta schiera di politici, a cui lo schiavismo faceva comodo. I pochi proprietari bianchi che osavano denunciare questo stato di cose al Governo Centrale venivano trattati alla stregua dei neri, soprattutto quando l’esercito dell’Unione abbandonò definitivamente il sud.
Bande del Ku Klux Klan metà 1800
La musica rimane per l’Afro-Americano l’unica ancora di salvezza: e lui se ne serve in duplice maniera. Da un lato la utilizza come riscatto morale, spirituale, gridandola in chiesa come l’appello di un’ anima tormentata al proprio Dio, a cui il dolore viene offerto come speranza di liberazione. Dall’altra, invece, si aggrappa al lato più oscuro dell’ anima Africana, si sposa al voodoo e alla magia nera e, utilizzando lo schema atavico del botta e risposta, diviene codice segreto di comunicazione tra gli individui. Il double talk (il doppio senso) già conosciuto al pubblico bianco nell’ambito dei MINSTRELS dove il nero diveniva parodia di se stesso, ORA assume un significato di comunicazione ad ampio raggio. Determinati vocaboli cominciarono ad acquisire significati occulti atti a favorire le riunioni collettive, informare delle condizioni di vita di chi espatriava e perfino a rivelare i luoghi in cui si nascondevano i neri ribelli. Piuttosto che di Musica si può quindi parlare di ”pratiche” musicali che tra il 1865 e il 1871 assunsero significato fondamentale per il cambiamento della società Afro-Americana.
Le primissime canzoni del nero liberato che utilizzano il double talk per esprimere la condizione sociale in cui viveva, senza timore di venire maltrattato per ciò che cantava, aveva lo stile delle vecchie ballate medioevali anglosassoni, ma con un sapore del tutto Africano. Tali canzoni ci sono arrivate già epurate del loro significato occulto, ma è possibile ancora trovarne qua e là alcune tracce: parlo di UNCLE RABBIT, oppure THE GREY GOOSE, in cui il bestiario umano veniva ”nascosto” in quello animale; ma mi riferisco soprattutto alle bellissime JOHN HENRY, BOLLWEAVILLE, STEWBALL e altre dello stesso periodo.
Abbandonato il banjo, divenuto ormai trofeo del Country, l’ex schiavo rivolge il proprio dolore e il proprio senso di solitudine alla chitarra e all’ armonica, strumenti semplici, economici e in grado di ricalcare l’abitudine Africana del botta e risposta. Ben presto quindi la ”ballata” lascia il posto ad un modo del tutto nuovo di interpretare la musica del silenzio, della disgregazione e dell’alienazione sociale. Un semplicissimo giro di DO, che poteva eseguire anche un bambino, accompagnava discretamente la vera arma della comunicazione tra ex schiavi: la voce e il suo delirio.
Molti degli Stati del Sud affermano di essere la patria del Blues. Tuttavia oggi è certo che la vera anima della musica che cambiò il mondo abbia visto i natali sul Delta del Mississippi, quelle fertili zone a ridosso dell’Arkansas e che ospitavano immani piantagioni di tabacco e cotone. Qui trovavano rifugio centinaia e centinaia di ex schiavi, che vi lavoravano 15 ore al giorno, mischiati alla feccia della popolazione bianca, quella fetta poverissima di immigrati provenienti per lo più dall’ Irlanda e che nessuno voleva assumere. All’epoca neri, zingari, Irlandesi e (ahimè) Italiani erano invisi alla civilissima società Americana, che li appellava ”straccioni, ubriaconi e rissosi ominidi di Oltreoceano”. Separati dagli altri i Cinesi, che comunque costituivano una comunità a sé, già oppressa dalla loro brutalissima Mafia. Negli Stati del Nord, se gli andava bene, tutta questa gente veniva confinata in ghetti dal nome grazioso, tipo Little Italy o China Town, o quartieri come il Bronx, dove ci si uccideva per nulla e dove prostituzione, alcool e assassinio era la semplice quotidianità. Chi voleva sperare di sopravvivere in queste realtà doveva soccombere e piegarsi ai soprusi di ogni genere, oppure auto-confinarsi negli Stati del sud, dove le immani opere di bonifica, costruzione di ferrovie, spaludamento di fiumi e piantagioni reclutavano continuamente gente. Qui la vita era un inferno: la malaria, il colera, le malattie polmonari, la sifilide mietevano vittime, la paga era irrisoria e il cibo uno schifo. L’alcool veniva fabbricato con le bucce di patate, l’ età media delle prostitute era di 12 anni e la speranza di vita non superava i 35. Tuttavia fortissimo era il senso di comunità, di aiuto reciproco tra diseredati e, per forza di cose, nulli erano gli ostacoli di natura razziale. Strimpellare due note e cantare le proprie disgrazie divenne una grande valvola di sfogo e tutti, senza eccezione alcuna, se ne servivano. In questi luoghi abbandonati da Dio la religione e la spiritualità contavano poco, e il blues di queste zone si riempie di carnalità, di depravazione, di rancore verso il potere e di speranza di ribellione. E, poiché Dio era assente, rimaneva comunque Satana. Attingendo a piene mani al proprio retaggio Africano, alla cultura animista, al rito del voodoo e di tutto il grande calderone di superstizioni, riti pagani e invocazioni agli spiriti superiori mischiati insieme, nacque una musica che era contemporaneamente un inno di ribellione e un grido di dolore. Accadde che bianco e nero non solo ”cantarono” ma ”partorirono” insieme una nuova lingua, di impatto così immediato e di tale facilità musicale che si allargò a macchia d’olio con la forza di un uragano. La fine dell’800 vede così uno sdoppiamento tra la società dei derelitti: da un lato chi abitava nelle città, frequentava la Chiesa e attingeva la propria forza di sopravvivenza dalla consapevolezza che gli uomini erano tutti uguali al cospetto di Dio; dall’altra i veri bluesman, gli emarginati tra gli emarginati, che vivevano in una realtà a parte e che Dio non solo non lo conoscevano affatto, ma neanche lo avrebbero voluto. Poiché se Dio esiste COME può non volgere gli occhi sulla sofferenza umana?
La spaccatura diviene evidente quando si affronta il contenuto delle blues songs. Accadde che la società nera "emancipata“, quella che svolgeva lavori umili ma integrati nella società bianca
(i facchini, gli scaricatori di porto, gli operai di bassa lega ma anche le donne delle pulizie, le cuoche, le balie, le serve) cominciò a servirsi del blues per narrare ad altri la propria quotidianità, un esperimento che riusciva ad inserirci la famiglia, l’amore, i fatti della propria vita e - perché no? - anche Dio. Canzoni alla portata di tutti, definite spesso Urban songs, diffuse da una folta schiera di uomini sia bianchi che neri che vivevano come zingari, viaggiavano clandestini sui treni e si sfamavano facendo lavoretti qua e là, narrando poi in musica le proprie avventure. Alla fine dell’800, quindi, si può dire che esistevano DUE tipi di blues, nettamente diverse tra loro e la cui linea di demarcazione era rappresentata dalla classe sociale di appartenenza. Da un lato un Blues popolare e decisamente ”annacquato“, pubblicizzato dalle varie organizzazioni di bianchi che ne avevano compreso il grande potere commerciale .Dall’altro il blues delle paludi, dei derelitti con la D maiuscola, che cantavano la rabbia dello schiavo nei confronti del padrone bianco e che, mischiando Satana nelle proprie canzoni, risultano invisi ai bianchi quanto ai neri. Un blues carnale e prepotente lasciato, insieme ai propri autori brutti, sporchi e cattivi, nel completo oblio fino alla sua riscoperta artistica alla fine degli anni ’50. Chiaramente di quest’ ultimo ”verace” blues non esistono registrazioni dell’epoca.
Sulle rive del Mississippi, 1870
I due blues ebbero sorti diverse: tra il 1870 e il 1890 il folk nero iniziò a diffondersi per le campagne grazie a dei teatrini improvvisati su carrozzoni ambulanti, gestiti da bianchi o da neri emancipati che si autodefinivano dottori o guaritori. Essi vendevano pozioni miracolose ( in genere erbe mischiate all’ alcool o ancora più spesso acqua e alcool) per curare ogni male i quali, per attirare più pubblico, obbligavano i propri lavoranti neri ad esibirsi in canzoni improvvisate strimpellate sulla chitarra o con l’armonica, che narravano di una semplice e fantasiosa quotidianità. Canzoni che, rivolgendosi a un pubblico eterogeneo ma che richiamava molti bianchi, era volutamente adattato ed epurato da significati oscuri. I primi artisti erano ex braccianti agricoli i quali, per mangiare, si piegavano anche alle regole dei Minstrels Show, accettando quindi di divenire parodia di se stessi. In seguito furono preferiti gli ex galeotti, i quali potevano attingere alle cosiddette Midnight Special, brani molto suggestivi nati in prigione e che erano musicalmente più articolati. In breve, a questi rurali artisti ne furono aggiunti altri: giocolieri, ballerine, maghi, che resero i carrozzoni una vera attrazione, tale da definirli Varietà neri. I primi ad organizzare un teatro stabile di questo tipo di blues furono due Italiani, i Fratelli Barrasso. Essi inaugurarono il loro locale a Memphis nel 1907,dando alla luce Il TOBA, una delle più schiaviste e famigerate Organizzazioni che si arricchirono letteralmente sulla pelle degli artisti neri, a cui veniva concesso solo di che vivere stentatamente. Un mercato in cui giravano fior di quattrini e che ben presto destò l’interesse delle prime grandi Case discografiche, le quali registrarono negli anni ’20 delle canzoni ”su misura” scritte da compositori specializzati come William Handy, il quale in breve sfornò 4 grandi successi. ST.LOUIS BLUES (1914), MEMPHIS BLUES e BEALE STREET BLUES (1917) e la famosa HARLEM BLUES (1923). Furono proprio le case discografiche ad appellare questo genere di musica nera “BLUES” (triste, malinconico), per distinguerlo dai Minstrels ancora abbastanza diffusi. Un grande giro d’affari, ma soprattutto un fortunato impatto emotivo che andava OLTRE la condizione sociale e le barriere di stampo razziale. Un pubblico gremito affollava i teatri dove si esibivano le Grandi Stelle del Blues, quelle pochissime cantanti nere che, grazie alla propria voce e alla capacità empatica di entrare direttamente nel cuore di tutti, riuscirono ad affrancarsi dalla povertà, entrando contemporaneamente nella Storia. Un successo economico e uno status sociale invidiabile raggiunti a caro prezzo: angherie inaudite e abusi sessuali di cui le stesse protagoniste non accettarono mai di parlare.
L’Anima Nera
Il blues è fango. E’ l’aria polverosa e sporca delle paludi, è il senso di abbandono e di solitudine dello schiavo nato libero; ma, soprattutto, è l’anima Africana che grida nel silenzio e che, a dispetto del padrone bianco, riporta a casa chi ha perduto la strada. A differenza di ciò che è capitato ad altre popolazioni nate e cresciute in America, come gli indios al sud e i Pellerossa a nord, il cui passato è morto con loro, l' Afro-Americano non ha mai perso la propria tradizione e la propria identità. Malgrado i secoli di schiavismo, i padri hanno continuato ad educare i propri figli alla pratica del ricordo, che in Africa è scuola di vita. E paradossalmente in tale pratica hanno goduto dell’aiuto involontario degli stessi negrieri, che hanno continuato l’importazione degli schiavi anche quando non solo in America ma in tutto il mondo lo schiavismo era stato definito illegale. Essi, nella loro cupidigia, avevano sottovalutato il fatto che lo schiavo che arrivava direttamente dall’ Africa era guerriero, cacciatore, sciamano. Catturato nel fiore degli anni, maschio o femmina che fosse, aveva già passato le fasi di iniziazione atte a forgiarlo alla durezza della vita, ed era ormai edotto in tutte le pratiche della narrazione orale, del canto liberatorio dell’anima e della fierezza nelle proprie tradizioni. Se l’importazione fosse terminata agli inizi dell’800 piuttosto che continuare illegalmente fino quasi al 1875 il nero d’America forse avrebbe in parte dimenticato l'origine Africana, in quanto già integrato nella società padronale bianca in un paese in cui d’ altra parte era nato. Invece la continua mescolanza di individui nati liberi con altri nati schiavi, in un periodo storico di fermenti che erano sotto gli occhi di tutti, ha permesso e stimolato negli Afro-Americani la ricostruzione di una identità ormai dimenticata. Generalmente si fa risalire agli inizi degli anni ’20 la ”nascita del Blues“, con le prime registrazioni di Charlie Patton e in certa misura di “Blind” Lemmon, nell’area definita ”il delta del Mississippi“. Ma il blues c’è sempre stato: è un retaggio Africano di cui non si può stabilire un' esatta data di inizio, in quanto NON è un genere musicale: furono i bianchi a definirlo tale, in un periodo in cui le prime case discografiche tentarono di appropriarsene a scopo di lucro.
In realtà il BLUES è una ”pratica collettiva di liberazione“, una ”medicina dello spirito“ e una educazione al riconoscimento della propria individualità in stretto equilibrio con l’ambiente. Esso fa parte dell’ Africa dalla notte dei tempi e aveva inizio dal primo vagito del bambino, benedetto ed educato dal Griot.
A metà strada tra sciamano e menestrello, il Griot è una figura predominante nella cultura Africana. Depositario della saggezza degli anziani, esperto delle condizioni di trance e in continuo rapporto con gli spiriti, egli utilizzava la musica per raccontare le gesta degli antichi e tramandare alle nuove generazioni il sapore del passato.
La ritmica era la sua arma principale: attraverso il suono del tamburo egli ” lanciava in alto il suo cuore“, facendolo ricadere nella terra dei sogni. Figura emblematica, il Griot accompagnava la sua arte con due strumenti musicali, la KOR A e l’HALAM .
Si tratta di una sorta di ”antenati” del banjo, a cui i Griot solevano affidare le proprie composizioni.
In Africa tuttavia la musica non era atto di Creazione bensì un MEZZO per arrivare allo spirito: cantare equivaleva a liberarsi, poiché questa vita non è che un passaggio da una dimensione all' altra, e una prova per fortificare la nostra anima..
L’abbinamento tra musica e magia verrà in seguito come evoluzione naturale di questo pensiero..
Entrambi Sciamani, il Griot e il Bluesman utilizzano la musica per guarire dalle malattie dell’ anima, ma con un’unica differenza: il contesto ambientale e socio- culturale in cui si muovevano.
In Africa la musica è rituale, partecipa ai fenomeni naturali ed è intrisa di acqua e vento. Parla alla collettività veicolandone le emozioni attraverso la tecnica del ricordo ed è spesso affidata alle cure degli uomini anziani che in essa trasferiscono tutta la saggezza accumulata negli anni. E' fonte di insegnamento per le nuove generazioni ed è anche un modo semplice e immediato per imprimere il bagaglio culturale della Tradizione negli adolescenti.
Il Bluesman, invece, sradicato dalla sua terra e privato del balsamo del ricordo, riconduce tutto alla propria interiorità, alla quale chiede disperatamente di ritrovare la strada che riporta a casa. Il Griot racconta, il Bluesman grida. Entrambi si affidano ad uno strumento musicale, che ne diviene l’inseparabile compagno e sul quale operano un vero e proprio transfert. Malgrado ciò entrambi rimangono soli… Il Griot non è un essere sociale; egli vive isolato e si accompagna agli altri unicamente quando gli viene richiesto, diffondendo la storia degli avi e la sua saggezza.
Per il resto del tempo si rifugia nella sua capanna o sale su alte colline, portando con sé la Kora o l’Halam a cui confida la propria solitudine. Ama il proprio popolo ma è asceta per scelta, al fine di elevarsi dalle passioni quotidiane e divenire un essere puro, in grado di portare agli altri aiuto e insegnamenti imparziali.
Anche il Bluesman è solo, ma per motivi diversi. La schiavitù lo ha privato della propria individualità e quindi non ha diritti. Non ricorda più le favole della sua terra e quindi disperatamente ne inventa di nuove per convincersi di essere ancora un uomo. Anche lui si accompagna quotidianamente ad uno strumento a corde, che non è quello Africano ma uno strumento legato alla terra in cui è schiavo e che lui chiama Banjo.
Non avendo ricordi da raccontare canta se stesso e il proprio quotidiano, utilizzando la musica come arma contro la solitudine e balsamo per guarire dalla rabbia e dalla frustrazione. Un tentativo inconscio di guarire l’anima e di tornare a casa. Esperimento spontaneo per il quale vengono utilizzati simbolismi ed archetipi che vengono dall’ inconscio e che pongono il Bluesman in diretto contatto con una natura Africana che egli non sa di possedere.
Come il Griot, l’Afro-Americano conia una musica sul battito del proprio cuore.
Non c’è armonia nelle sue note ma solo senso ritmico, a cui egli aggiunge un eccezionale e personalissimo strumento: la sua voce. In Africa le distanze sono enormi. Ogni uomo o donna sa utilizzare la propria voce come mezzo di comunicazione ad ampio raggio, sia che viva da solo o in collettività. Unita alla ritmica delle danze tribali la voce acquisisce potere taumaturgico, e permette di guarire le malattie del corpo quanto quelle dell’anima. I parossismi vocali permettono l’estasi, attraverso cui l’essere umano si libera dalle proprie catene e parla direttamente con gli spiriti. E' l'unico modo in cui l' individuo può chiedere il loro aiuto, nel bene quanto nel male. Come cassa di risonanza egli utilizza dei rudimentali strumenti musicali, che hanno il compito di riprodurre i suoni della natura: tamburi (il cuore umano), zufoli ( l’aria, il soffio vitale) e gli strumenti a corde, che rappresentano la spinta dell' anima verso il cielo. Condotto a forza in America, lo schiavo era messo a lavorare nei campi, dove rimaneva costantemente in compagnia di altra gente ma in pratica era solo, in quanto il suo padrone gli vietava di stringere reali rapporti con i suoi simili. Ogni attività sociale era strettamente controllata dalla frusta dei sorveglianti, che impedivano qualsiasi forma di aggregazione. Gli era stato sottratto anche il prezioso tamburo, strumento eccezionale di comunicazione per il deportato Africano. Le uniche attività concesse dal padrone bianco ai suoi schiavi erano la danza e il canto. E l'Afro-Americano le utilizza egregiamente entrambe.
Neri ai lavori forzati, 1880
Lo schiavo sbarcherà in America con il suo Spiritual, una sorta di grido accusatorio nei confronti del padrone bianco e una vera e propria richiesta di aiuto a Dio, dal quale però non viene ascoltato. Lo Spiritual d’origine è un canto di umiliazione e di sconfitta, che si tramuterà in canto di liberazione solo molto tempo dopo, quando il nero d’Africa sposerà la religione Cristiana. Lo schiavo trascinato in catene tuttavia non si arrende. Si adatta alle angherie della vita ma NON SOCCOMBE alla nuova realtà. Cerca disperatamente un nuovo codice di comunicazione che gli permetta di mantenere viva nel cuore il sapore della propria terra e di entrare in contatto con i fratelli di sventura. Ci riesce quasi subito, attraverso la creazione delle Work Songs. Si trattava di arie improvvisate basate su un botta e risposta apparentemente innocuo e tale da non destare sospetti, ma che in definitiva contenevano codici nascosti di comunicazione. Per i negrieri le Work Songs rappresentavano una valvola di sfogo atta a mantenere il ritmo di lavoro degli schiavi, e per questo non furono mai vietate. In realtà esse permisero all’ Afro-Americano di mantenere deste dentro di sé le tradizioni della propria terra e l'abitudine al ricordo. Nel tempo, egli le utilizzò per comunicare ai compagni piani di fuga o riportare notizie di confratelli altrimenti vietate: ciò alimentò una sorta di comunione spirituale tra gli individui che, a dispetto dell’opera di disgregazione messa in atto dai padroni bianchi, stimolò nello schiavo il sentimento di rivalsa e fomentò la sua speranza di tornare a casa.
Parallelamente a questi canti collettivi ci sono poi quelli solitari, chiamati Hollers. Intonati dagli schiavi che lavoravano nei campi in solitudine o da quelli tenuti isolati nelle proprie celle di fango, questi canti iniziavano con un richiamo ad effetto, molto spesso un grido o un suono acuto che fendeva l'aria e destava l’attenzione di chi ascoltava. Anch’esso retaggio dell' Africa, dove questa tecnica permetteva di ritrovarsi empaticamente anche a grande distanza e di abbattere le barriere dello spazio, l’Holler NON aveva il fine di liberarsi ma quello di ”trasferire" le proprie pene all’anima di chi ascoltava. Lo schiavo Afro-Americano lo utilizzava con una duplice valenza: colpevolizzare il padrone bianco e nel contempo commuovere e indignare il fratello nero. In seguito la mescolanza tra Spirituals, Work Songs e Holler, unitamente alle suggestioni della musica Europea, partorì ciò che viene definito comunemente Blues. Prendendo origine da codici nascosti, truci passioni e richiami costanti alla parte oscura dell' individuo, tali da negare anche l'esistenza di Dio, il Blues acquistò ben presto un significato negativo e malefico, soprattutto poi quando si legò ai rituali voodoo e alla Magia Nera.