La Legge Delle Regine

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Aus der Reihe: L’Anello Dello Stregone #13
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CAPITOLO OTTO

Dario camminava lentamente lungo il sentiero di terra battuta, Loti al suo fianco, l’aria colma della tensione del loro silenzio. Nessuno dei due aveva detto una sola parola dal loro incontro con il supervisore e i suoi uomini e nella mente di Dario vorticavano milioni di pensieri mentre le camminava accanto riportandola verso il villaggio. Dario avrebbe voluto metterle un braccio attorno alle spalle, dirle quanto felice era che fosse viva, che lui l’aveva salvata ma anche lei l’aveva fatto, quanto determinato era a non permettere mai più che gliela portassero via. Voleva vedere i suoi occhi pieni di gioia e sollievo e voleva sentirle dire che per lei contava tantissimo che lui avesse rischiato la propria vita per salvarla, o almeno che era felice di vederlo.

Ma mentre camminavano in quel profondo e impacciato silenzio, Loti non diceva nulla e non lo guardava neppure. Non gli aveva detto una parola da quando lui aveva scatenato la valanga e non aveva neppure incrociato il suo sguardo. Il cuore di Dario batteva chiedendosi cosa lei stesse pensando. Lo aveva visto usare i suoi poteri, aveva visto la frana. In quel momento lo aveva guardato sconvolta e poi non gli aveva più rivolto un solo sguardo.

Forse, pensava Dario, dal suo punto di vista lui aveva infranto un tabù sacro del suo popolo utilizzando la magia, un elemento che la sua gente screditava più di qualsiasi altra cosa. Forse era spaventata da lui o ancora peggio forse non lo amava più. Forse pensava che lui fosse qualcosa di strano.

Dario si sentiva spezzare il cuore mentre camminavano lentamente verso il villaggio e si interrogava sulle cause di quel comportamento. Aveva appena rischiato la propria vita per salvare una ragazza che non lo amava più. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poterle leggere nel pensiero. Ma lei non parlava neppure. Era scioccata?

Dario avrebbe voluto dirle qualcosa, qualsiasi cosa per spezzare quel silenzio, ma non sapeva da dove cominciare. Aveva pensato di conoscerla, ma ora non ne era più tanto certo. Una parte di lui si sentiva anche indignato, troppo orgoglioso per parlare data la sua reazione. Ma d’altro canto provava anche vergogna. Sapeva l’opinione che il suo popolo aveva riguardo all’uso della magia. L’uso dei suoi poteri era una cosa così terribile? Anche se le aveva salvato la vita? Lo avrebbe detto agli altri? Se gli abitanti del villaggio l’avessero saputo, ne era certo, lo avrebbero sicuramente esiliato.

Continuarono a camminare e Dario arrivò al limite, non potendosi più trattenere: doveva dire qualcosa.

“Sono certo che la tua famiglia sarà felice di rivederti sana e salva,” le disse.

Loti, con sua delusione, non colse l’opportunità per guardare verso di lui. Rimase invece impassibile mentre continuavano a camminare in silenzio. Alla fine, dopo un lungo momento, scosse la testa.

“Forse,” disse. “Ma mi viene da pensare che saranno preoccupati. Tutto il nostro villaggio lo sarà.”

“Cosa intendi dire?” le chiese Dario.

“Hai ucciso un supervisore. Abbiamo ucciso un supervisore. Tutto l’Impero ci starà cercando. Distruggeranno il nostro villaggio. La nostra gente. Abbiamo fatto una cosa terribile ed egoista.”

“Una cosa terribile? Ti ho salvato la vita!” le disse Dario esasperato.

Loti scrollò le spalle.

“La mia vita non vale tutte le vite della nostra gente.”

Dario era furente e non sapeva cosa dirle mentre camminavano. Stava iniziando a rendersi conto che Loti era una ragazza difficile, dura da capire. Era stata troppo indottrinata con il rigido pensiero dei suoi genitori, del suo popolo.

“Allora mi odi,” le disse. “Mi odi perché ti ho salvata.”

Lei si rifiutò di guardarlo e continuò a camminare.

“Anche io ti ho salvato,” ribatté con orgoglio. “Non ricordi?”

Dario arrossì: non riusciva a capirla. Era troppo orgogliosa.

“Non ti odio,” aggiunse infine. “Ma ho visto cosa hai fatto. Ho visto in che modo l’hai fatto.”

Dario si trovò a tremare dentro, ferito dalle sue parole. Erano venute fuori come un’accusa. Non era giusto, soprattutto dopo che le aveva salvato la vita.

“Ed è una cosa così brutta?” le chiese. “Qualsiasi sia il potere che ho usato?”

Loti non rispose.

“Sono quello che sono,” le disse Dario. “Sono nato così. Non l’ho chiesto io. Io stesso non mi capisco interamente. Non so quando arriva e non so quando sparisce. Non so neanche se sarò mai capace di usarlo un’altra volta. Non volevo usarlo. È come se… esso avesse usato me.”

Loti continuò a tenere lo sguardo basso, senza rispondere e senza incrociare il suo sguardo e Dario provò una tremenda sensazione di rifiuto. Aveva fatto un errore a salvarla? doveva vergognarsi di ciò che era?

“Avresti preferito morire che vedermi usare… quella cosa che ho usato?” le chiese.

Di nuovo Loti non rispose mentre camminavano e la delusione di Dario si fece più radicata.

“Non parlarne con nessuno,” gli disse. “Non dobbiamo mai parlare di cos’è successo qui oggi. Verremmo esclusi entrambi.”

Svoltarono un angolo e il loro villaggio apparve alla vista. Percorsero il sentiero principale e vennero quindi scorti dagli abitanti che lanciarono forti grida di gioia.

In pochi momenti si scatenò il caos e gli abitanti si riversarono fuori dal villaggio per accoglierli: erano centinaia e correvano verso Loti e Dario per abbracciali.

Si fece strada tra la folla la madre di Loti, seguita dal padre e da due dei suoi fratelli, uomini alti e con le spalle ampie, i capelli corti e i volti fieri. Guardarono tutti Dario studiandolo. Accanto a loro si portò il terzo fratello di Loti, più piccolo degli altri e zoppo da una gamba.

“Amore mio,” disse la madre di Loti correndo tra la folla e abbracciandola, stringendola forte a sé.

Dario rimase indietro, insicuro sul da farsi.

“Cosa ti è successo?” le chiese la madre. “Pensavo che l’Impero ti avesse portato via. Come hai potuto liberarti?”

Gli abitanti si fecero tutti seri mentre gli occhi si voltavano verso Dario. Rimase lì, non sapendo cosa dire. Sarebbe dovuto essere, lo sentiva, un momento di grossa gioia e celebrazione per quello che aveva fatto; un momento di cui sentirsi fiero, un momento per cui avrebbero dovuto accoglierlo come un grande eroe. Dopo tutto lui solo aveva avuto il coraggio di tutti loro messi insieme per andare a salvare Loti.

Invece si stava rivelando un momento di confusione per lui. E forse anche di vergogna. Loti gli lanciò un’occhiata molto esplicita, come a metterlo in guardia di non rivelare il loro segreto.

“Non è successo nulla, madre,” disse. “Nell’Impero hanno cambiato idea. Mi hanno lasciata andare.”

“Ti hanno lasciata andare?” le chiese lei strabiliata.

Loti annuì.

“Mi hanno liberate lontano da qui. Mi sono persa nella foresta e Dario mi ha trovata. Mi ha riportato qui.”

Gli abitanti, in silenzio, guardarono scetticamente prima Dario e poi Loti. Dario sentiva che non credevano alla loro versione dei fatti.

“E cos’è quel segno che hai in faccia?” le chiese il padre facendo un passo avanti e strofinando il pollice sulla sua guancia, voltandole la testa per esaminare.

Dario guardò e vide un grosso ematoma nero e blu.

Loti guardò il padre insicura.

“Sono… inciampata,” disse. “Su una radice. Come ho detto sto bene,” insistette con tono di sfida.

Tutti gli occhi si voltarono verso Dario e Bokbu, il capo del villaggio, fece un passo avanti.

“Dario, è vero?” gli chiese con tono cupo. “L’hai riportata indietro in modo pacifico? Non ti sei scontrato con l’Impero?”

Dario rimase fermo con il cuore che gli batteva, mentre centinaia di occhi lo fissavano. Sapeva che se avesse detto dello scontro, avesse raccontato ciò che aveva fatto, avrebbero avuto tutti paura della rappresaglia che ne sarebbe conseguita. E non aveva modo di spiegare come avesse potuto ucciderli senza fare cenno alla magia. Sarebbe stato escluso e così sarebbe successo anche a Loti. Non voleva scatenare il panico nei cuori di tutta la sua gente.

Dario non voleva mentire, ma non sapeva cos’altro fare.

Quindi fece un cenno di assenso rivolto agli anziani, senza dire parola. Lasciò loro interpretare ciò che volevano.

Lentamente a gente, sollevata, si voltò e guardò Loti. Finalmente uno dei fratelli si fece avanti e le mise un braccio attorno alle spalle.

“È salva!” gridò spezzando la tensione. “Questo è ciò che conta!”

“Si levò un forte grido nel villaggio e la tensione si dipanò. Loti venne abbracciata dalla sua famiglia e dagli altri.

Dario rimase a guardare, ricevendo alcune deboli pacche sulla schiena, mentre Loti se ne andava insieme alla sua famiglia facendo ritorno di corsa al villaggio. La guardò andarsene, aspettando e sperando che si voltasse a guardarlo, solo una volta.

Ma il cuore gli si strinse vedendola scomparire, avvolta dalla folla senza mai girarsi.

CAPITOLO NOVE

Volusia si trovava fiera sulla sua portantina dorata a bordo di un vascello pure d’oro che scintillava al sole e percorreva lentamente lungo i corsi d’acqua di Volusia con le braccia aperte, accogliendo l’adulazione del suo popolo. Migliaia di persone erano venute fuori e si erano portate vicino ai corsi d’acqua riempiendo strade e vicoli e gridando il suo nome da ogni direzione.

Mentre percorreva gli stretti canali che si snodavano in mezzo alla città, Volusia poteva quasi arrivare a toccare la sua gente mentre tutti lodavano il suo nome, piangendo e gridando in adulazione e lanciavano frammenti di carta di ogni colore che luccicavano alla luce e piovevano su di lei. Era il più grande segno di rispetto che la gente potesse offrirle. Era il loro modo di accogliere un eroe che tornava.

 

“Lunga vita a Volusia! Lunga vita a Volusia!” cantavano facendo riecheggiare le loro voci lungo le vie mentre lei passava tra le masse e le correnti la spingevano nel mezzo della sua magnifica città fatta di strade ed edifici d’oro.

Volusia si godeva tutto, emozionata per aver sconfitto Romolo, per aver massacrato il comandate supremo dell’Impero e aver ucciso anche il suo contingente di soldati. La sua gente era tutt’uno con lei e si sentivano rinfrancati quando lei si sentiva rinfrancata. Non si era mai sentita più forte in vita sua, non da quando aveva ucciso sua madre.

Volusia guardava la sua meravigliosa città, i due pilastri torreggianti che facevano da accesso e brillavano di oro e verde al sole. Osservava l’interminabile schiera di antichi edifici eretti al tempo dei suoi antenati, tutti datati di centinaia di anni, tutti decorati magnificamente. Le strade splendenti e immacolate erano gremita da migliaia di persone, c’erano guardie a ogni angolo e i precisi canali si inserivano disegnando angoli perfetti e collegando ogni punto. C’erano piccoli ponti pedonali sui quali si potevano vedere passare cavalli che trainavano carri e gente vestita delle migliori sete e di preziosi gioielli. Tutta la città aveva dichiarato giorno di festa e tutti erano usciti per salutarla, invocando il suo nome. Era più di un capo per loro: era una dea.

Cosa di ancora migliore auspicio era che quel giorno coincideva con una festa, la Giornata delle Luci, il giorno in cui tutti si inchinavano ai sette dei del sole. Volusia, in quanto capo della città, era sempre quella che dava inizio ai festeggiamenti e mentre navigava due immense torce dorate bruciavano accanto a lei, più luminose del giorno stesso, pronte ad accendere la Fontana Grande.

Tutta la gente la seguiva, correndo lungo le strade e inseguendo la sua barca: sapeva che l’avrebbero accompagnata per tutto il percorso, fino a che avrebbe raggiunto il centro dei sette cerchi della città. Qui sarebbe sbarcata e avrebbe dato fuoco alla fontana demarcando il giorno di festa e i sacrifici. Era un giorno glorioso per la sua città e per il suo popolo, un giorno di lode ai quattordici dei, quelli che si diceva accerchiassero la città e facessero da guardiani dei quattrodici accessi contro invasori indesiderati. La sua gente li pregava tutti e quel giorno, come tutti i giorni, erano tenuti a ringraziare.

Quell’anno la sua gente era incappata in una sorpresa: Volusia aveva aggiunto una quindicesima divinità per la prima volta dopo secoli, da quando la città era stata fondata. E quella divinità era lei stessa. Aveva fatto erigere una torreggiante statua d’oro rappresentante se stessa al centro dei sette cerchi e aveva dichiarato quel giorno essere il suo giorno, la sua festa. Quando l’avessero svelata, la sua gente l’avrebbe vista per la prima volta e avrebbero tutti capito che Volusia era molti più di sua madre, più di un semplice capo, più di un misero umano. Era una dea che meritava di essere lodata ogni giorno. Avrebbero pregato e si sarebbero inchinati a lei insieme a tutti gli altri. L’avrebbero fatto o lei avrebbe avuto il loro sangue.

Volusia sorrise tra sé e sé mentre la barca si avvicinava sempre più al centro della città. Non vedeva l’ora di vedere le loro espressioni, di vederli onorarla e pregarla proprio come gli altri quattordici dei. Non lo sapevano ancora, ma un giorno lei avrebbe distrutto le altre divinità, una alla volta, fino a lasciare solo se stessa.

Volusia, eccitata, controllò alle proprie spalle e vide dietro di lei un’infinita schiera di vascelli che la seguivano: tutti trasportavano tori, capre e buoi che si muovevano rumorosi al sole, tutti in preparazione del sacrificio del giorno agli dei. Lei stessa avrebbe macellato il più grosso e migliore di fronte alla propria statua.

Finalmente la barca di Volusia raggiunse il canale aperto verso i sette cerchi, ciascuno più largo del successivo. Ampi spiazzi dorati separati da cerchi d’acqua. La barca si fece strada lentamente lungo i cerchi, sempre più vicina al centro, passando accanto a ciascuno dei quattordici dei. Il cuore le batteva trepidante in petto. Ogni divinità troneggiava su di loro al loro passaggio, ogni statua era di oro scintillante ed era alta oltre cinque metri. Al centro di tutto, nello spiazzo che era sempre stato tenuto vuoto per sacrificio e incontri, ora si ergeva un piedistallo dorato in cima al quale si trovava una struttura alta quindici metri, ricoperta da un panno di seta bianca. Volusia sorrise: solo lei tra tutta la sua gente sapeva cosa c’era là sotto.

Volusia sbarcò e i suoi servitori accorsero per aiutarla a scendere mentre raggiungevano lo spiazzo più interno. Vide che un altro vascello veniva portato avanti e il toro più grosso che avesse mai visto venne fatto scendere e condotto da lei da una decina di uomini. Ognuno teneva una spessa fune e conducevano la bestia con estrema attenzione. Questo era un toro speciale, preso dalle Province inferiori: era alto quasi cinque metri, aveva la pelle rossa brillante e un aspetto fortissimo. Era anche infuriato. Faceva resistenza, ma gli uomini lo tenevano saldamente mentre lo conducevano verso la statua.

Volusia sentì il rumore di una spada che veniva sguainata e si voltò vedendo Aksan, il suo boia personale, accanto a lei con una spada cerimoniale in mano. Aksan era l’uomo più leale che lei avesse mai incontrato, intenzionato a uccidere chiunque lei gli ordinasse di eliminare. Era anche sadico e questa era una cosa che lei apprezzava. In questo modo si era guadagnato il suo rispetto. Era una delle poche persone che avevano il permesso di stare al suo fianco.

Aksan la guardò con il suo volto infossato e butterato, le corna visibili dietro i fitti capelli ricci.

Volusia allungò un braccio e prese la lunga spada cerimoniale dorata con la lama lunga quasi due metri e la tenne stretta con due mani. Un subitaneo silenzio calò tra il popolo mentre si voltava, sollevava in alto la spada e la calava sul collo del toro con tutte le sue forze.

La lama, affilatissima e sottile come pergamena tagliò perfettamente e Volusia sorrise udendo il soddisfacente suono del metallo che lacerava la carne. La lama scese del tutto e il sangue caldo le spruzzò il viso. Schizzò ovunque e una grossa pozza si formò ai suoi piedi. Il toro barcollò, senza testa, e cadde alla base della statua ancora ricoperta. Il sangue scorse sulla seta e sull’oro, macchiandoli mentre la folla esultava.

“Un grandioso presagio, mia signora,” disse Aksan.

Le cerimonie avevano avuto inizio. Tutt’attorno a lei risuonarono le trombe e centinaia di animali vennero portati avanti mentre i suoi ufficiali li macellavano da ogni parte. Sarebbe stata una lunga giornata di uccisioni, violenze e abbuffate di vino e cibo. E tutto si sarebbe ripetuto per un altro giorno e poi per un altro ancora. Volusia si sarebbe accertata di parteciparvi, avrebbe preso del vino e degli uomini per sé e avrebbe tagliato loro la gola come sacrificio ai suoi idoli. Non vedeva l’ora che si dispiegasse quella lunga giornata di sadismo e brutalità.

Ma prima c’era ancora una cosa da fare.

La folla fece silenzio mentre Volusia saliva sul piedistallo alla base della sua statua e si voltava a guardare la sua gente. Dall’altra parte salì Koolian, un altro fidato consigliere, uno stregone di magia nera con indosso un mantello con cappuccio nero. Aveva occhi verdi e scintillanti e il volto pieno di verruche. Era la creatura che l’aveva aiutata e condotta all’assassinio di sua madre. Era stato lui, Koolian, ad avvisarla di costruire quella statua per sé.

La gente la guardava più in silenzio possibile. Lei attese assaporando la tensione del momento.

“Grande gente di Volusia!” disse con voce tonante. “Vi presento la statua della vostra nuova e più potente divinità!”

Con un gesto plateale Volusia tirò il panno di seta e la folla sussultò.

“La vostra nuova dea, la quindicesima dea, Volusia!” gridò Koolian.

La gente sussurrò in contemplazione guardando la statua con meraviglia. Volusia rivolse uno sguardo alla statua d’oro scintillante, alta il doppio delle altre, che la rappresentava perfettamente. Attese nervosa per vedere come avrebbe reagito il suo popolo. Erano secoli che nessuno introduceva nuove divinità e lei era curiosa di vedere se il loro amore per lei era così forte quanto lei aveva bisogno che fosse. Non aveva solo bisogno che la amassero: voleva che la adorassero.

Con sua grande soddisfazione la gente, tutta insieme, si inchinò all’unisono con il volto a terra, adorando l’idolo.

“Volusia,” cantarono con voce pregna di sacralità, ripetendo più volte il suo nome. “Volusia, Volusia.”

Volusia rimase lì in piedi con le braccia aperte in fuori, godendosi il momento. Era abbastanza da rendere soddisfatto qualsiasi essere umano. Qualsiasi capo. Qualsiasi dio.

Ma non era ancora abbastanza per lei.

*

Volusia camminava attraverso l’ampio arco di ingresso al suo castello, passando tra colonne di marmo alte trenta metri e atri accerchiati da giardini e guardie, soldati dell’Impero che stavano sull’attenti con le loro lance dorate in mano. Se ne vedevano a perdita d’occhio. Camminava lentamente facendo risuonare i tacchi d’oro dei suoi stivali accompagnata da Koolian da una parte – il suo stregone – da Aksan dall’altra – il suo assassino – e da Soku, il comandante del suo esercito.

“Mia signora, se posso fare solo una parola con voi,” le disse Saku. Era tutto il giorno che cercava di parlarle, ma lei lo aveva ignorato. Non era interessata nelle sue paure, nelle sue fissazioni sulla realtà. Lei aveva la sua realtà e si sarebbe rivolta a lui quando le sarebbe stato comodo.

Volusia continuò a camminare fino a che raggiunse l’accesso a un altro corridoio, questa volta ricoperto da perle di smeraldo. Immediatamente accorsero dei soldati che aprirono i portoni per permetterle di passare.

Quando fu all’interno i canti, le grida e i festeggiamenti delle cerimonie sacre che si stavano svolgendo all’esterno divennero più soffusi. Volusia aveva avuto una lunga giornata di uccisioni, bevute, violenze e festeggiamenti e ora voleva un po’ di tempo per sé. Si sarebbe ricaricata e poi sarebbe tornata alla carica.

Entrò nella stanza solenne, buia e pesante, illuminata solo da poche torce. Ciò che illuminava di più la camera era la sfumatura di luce verde che scendeva dall’apertura in alto al centro del soffitto alto trenta metri, apertura che si trovava proprio sopra l’unico oggetto posizionato al centro della stanza.

La lancia di smeraldo.

Volusia vi si avvicinò in ammirazione. Era lì ormai da secoli e puntava dritta verso la luce. Con la sua asta di smeraldo e la punta pure di smeraldo, luccicava al sole, puntata verso il cielo come a sfidare gli dei. Era sempre stato un oggetto sacro per il suo popolo, un oggetto che si credeva sostenesse la città. Si fermò davanti ad essa ammirandola, osservando il vortice di particelle di luce verde attorno ad essa.

“Mia signora,” disse Soku a voce bassa che riecheggiò comunque nel silenzio. “Posso parlare?”

Volusia rimase ferma a lungo dandogli la schiena, esaminando la lancia e ammirando la maestria della sua fattura come aveva fatto ogni giorno della sua vita. Alla fine si sentì pronta per le parole del suo consigliere.

“Puoi,” gli disse.

“Mia signora,” disse. “Hai ucciso il comandante dell’Impero. Sicuramente la voce si è diffusa. Ci saranno eserciti in marcia verso Volusia già adesso. Eserciti enormi, talmente grossi da non poterci difendere contro di essi. Dobbiamo prepararci. Qual è la tua strategia?”

“Strategia?” gli chiese Volusia senza ancora guardarlo, seccata.

“Come pensi di concordare la pace?” insistette il generale. “Come intendi arrenderti?”

Lei si voltò e lo guardò con freddezza negli occhi.

“Non ci sarà nessuna pace,” gli disse. “Fino a che non li vedrò arrendersi e giurare la loro fedeltà a me.”

Lui la guardò con la paura stampata in volto.

“Ma mia signora, sono in sovrannumero rispetto a noi di almeno cento a uno,” disse. “Non abbiamo nessuna possibilità di difenderci contro di loro.”

Lei si voltò nuovamente verso la lancia e lui fece un altro passo avanti, disperato.

“Mia imperatrice,” insistette. “Hai ottenuto una vittoria considerevole nell’usurpare il trono di tua madre. Non era amata dal popolo, mentre tu lo sei. Ti adorano. Nessuno verrà mai a parlarti con franchezza. Ma io sì. Sei circondata da gente che ti dice ciò che vuoi sentirti dire. Hanno paura di te. Ma io ti dico la verità, la realtà della situazione. L’Impero ci circonderà. E noi verremo annientati. Non rimarrà nulla di noi e della nostra città. Devi agire. Devi concordare una tregua. Pagare il prezzo che vogliono prima che ci uccidano tutti.”

 

Volusia sorrise continuando a guardare la lancia.

“Sai cos’hanno detto di mia madre?” gli chiese.

Soku rimase fermo a guardarla con occhi vuoti e scosse la testa.

“Dicevano che era la prescelta. Dicevano che non sarebbe mai stata sconfitta. Dicevano che non sarebbe mai morta. Sai perché? Perché nessuno solleva questa lancia da sei secoli. E lei invece l’ha sollevata con una mano sola. E l’ha usata per uccidere suo padre e prendere il trono.”

Volusia si girò verso di lui con gli occhi brillanti di storia e destino.

“Dicevano che la lancia sarebbe stata sollevata solo una volta. Dal prescelto. Dicevano che mia madre sarebbe vissuta migliaia di secoli, che il trono di Volusia sarebbe stato suo per sempre. E sai cos’è successo? Io stessa ho preso la lancia e l’ho usata per uccidere mia madre.”

Fece un respiro profondo.

“Cosa ti dice questo, signor comandate?”

Lui la guardò confuso e scosse la testa frastornato.

“Possiamo vivere all’ombra delle leggende della gente,” disse Volusia, “o possiamo creare le nostre.”

Si chinò verso di lui con sguardo torvo, guardandolo con furia.

“Quando avrò annientato tutto l’Impero,” disse, “quando tutti nell’universo si saranno inginocchiati davanti a me, quando non sarà rimasta una sola persona in vita che non conosca e gridi il mio nome, allora capirai che sono l’unica e sola sovrana, e l’unica e sola dea. Il sono la prescelta. Perché l’ho scelto io stessa.”

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