Grido d’Onore

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Aus der Reihe: L’Anello Dello Stregone #4
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Grido d’Onore
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Grido d’Onore
Grido d’Onore
Hörbuch
Wird gelesen Edoardo Camponeschi
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CAPITOLO NOVE

Erec galoppava sul suo cavallo lungo la Strada del Sud, avanzando più veloce che poteva e facendo del suo meglio per evitare le buche della strada nel buio della notte. Non si era mai fermato da quando aveva sentito del rapimento di Alistair, di lei venduta come schiava e portata verso Baluster. Non riusciva a smettere di biasimarsi. Era stato sciocco e ingenuo a fidarsi di quel locandiere, a credere che avrebbe mantenuto fede alla parola data e che avrebbe rispettato gli estremi del loro accordo liberando Alistair dopo la sua vittoria nel torneo. La parola di Erec era il suo onore e aveva creduto che anche quella degli altri fosse sacra. Era stato uno stupido errore. E Alistair ne aveva pagato il prezzo.

A Erec si spezzava il cuore a quel pensiero. Spronò il cavallo a galoppare più velocemente. Una donna così bella e raffinata, prima costretta a sopportare l’indegno compito di lavorare in una locanda, e ora venduta in schiava, nientemeno che nel mercato del sesso. Il pensiero mandava Erec su tutte le furie e non poteva fare a meno di sentirsi in qualche modo responsabile: se lui non fosse mai comparso nella sua vita, se non si fosse mai offerto di portarla via, forse il locandiere non avrebbe mai pensato a venderla.

Erec galoppava nella notte, il rumore degli zoccoli del suo cavallo rimbombava nel buio e gli riempiva le orecchie insieme al suono del suo respiro. Il cavallo era più che esausto ed Erec temeva che sarebbe potuto cadere a terra. Si era recato dal locandiere direttamente dopo il torneo e quindi non aveva avuto neanche una pausa, per cui era lui stesso esausto e sentiva che sarebbe potuto crollare a terra da un momento all’altro. Ma si sforzò di tenere gli occhi aperti, si sforzò di rimanere sveglio mentre cavalcava nel bagliore della luna, diretto verso sud, verso Baluster.

Erec aveva sentito raccontare di Baluster nel corso della sua vita, nonostante non ci fosse mai stato. Si diceva fosse un posto di gioco d’azzardo, oppio, sesso e qualsiasi altro vizio immaginabile nel regno. Era il luogo dove si riversavano da ogni parte dell’Anello i delusi e gli insoddisfatti per sfruttare ogni genere di oscuro divertimento conosciuto da mente umana. Quel luogo rappresentava l’esatto contrario di come era Erec. Lui non aveva mai giocato d’azzardo, e raramente beveva, preferendo trascorrere il suo tempo libero allenandosi e affinando le sue abilità. Non riusciva proprio a capire le persone che si dedicavano esclusivamente a pigrizia e bisboccia come facevano i frequentatori di Baluster. Andare in un posto del genere non era di buon presagio per lui. Non poteva venirne fuori niente di buono. Il pensiero di Alistair in quel luogo gli faceva male al cuore. Sapeva di doverla salvare in fretta e portarla lontano da lì, prima che le fosse fatto del male.

Quando la luna fu alta nel cielo e la strada si fece più larga e percorribile più agevolmente, Erec scorse il primo scorcio della città: l’innumerevole quantità di torce che ne illuminavano le mura la facevano apparire come un grande falò nel bel mezzo della notte. Erec non ne fu sorpreso: si diceva che i suoi abitanti stessero svegli a ogni ora della notte.

Spronò di più il cavallo e la città si fece più vicina fino a che si trovò ad attraversare un piccolo ponte di legno, sorvegliato da una sentinella mezzo addormentata che balzò in piedi quando Erec le passò accanto in fretta e furia. La guardia lo richiamò: “EHI!”

Ma lui neanche rallentò. Se l’uomo si fosse sentito tanto sicuro da inseguirlo – cosa che lui dubitava molto – allora si sarebbe assicurato che fosse l’ultima cosa che facesse.

Erec passò attraverso l’ampio cancello aperto che dava accesso alla città, costituita da una piazza circondata da basse e antiche mura di pietra. Quando fu entrato percorse le strette strade, perfettamente illuminate, fiancheggiate com’erano da torce. Gli edifici erano costruiti uno accanto all’altro e donavano alla cittadina un senso di chiusura quasi claustrofobica. Le strade erano completamente affollate di gente e sembravano quasi tutti ubriachi: barcollavano da una parte e dall’altra, gridavano a voce alta, scherzavano e si prendevano in giro. Era come una grande festa. E ogni edificio era adibito a taverna o sala da gioco.

Erec sapeva che si trovava nel posto giusto. Poteva percepire la presenza di Alistair. Deglutì sperando che non fosse troppo tardi.

Si avvicinò a quella che sembrava essere una taverna piuttosto grande nel centro della città, una moltitudine di persone girovagava all’esterno, e immaginò che fosse il posto adatto da cui iniziare la sua ricerca.

Smontò da cavallo e corse dentro, facendosi strada a gomitate tra la gente chiassosa per il troppo bere, fino a che raggiunse l’oste che stava in fondo alla stanza e scriveva i nomi delle persone, raccoglieva i loro posti e indicava loro la strada per le camere. Era un tipo dall’aspetto viscido, con un sorriso finto, il volto imperlato di sudore, continuamente impegnato a sfregarsi le mani una contro l’altra mentre contava le sue monete. Sollevò lo sguardo verso Erec con un sorriso plastico stampato in viso.

“Una camera, signore?” gli chiese. “O volete delle donne?”

Erec scosse la testa e si avvicinò all’uomo, con l’intenzione di farsi sentire in quel chiasso.

“Sto cercando un commerciante,” disse. “Un commerciante di schiavi. È venuto qui da Savaria suppergiù un giorno fa. Aveva con sé un carico prezioso. Un carico umano.”

L’uomo si leccò le labbra.

“Quella che cerchi è un’informazione preziosa,” disse l’uomo. “Te la posso fornire tanto facilmente quanto darti una camera.”

L’uomo allungò una mano e sfregò due dita, poi protese il palmo aperto. Guardò Erec e sorrise.

Erec era disgustato da quell’uomo, ma voleva quell’informazione e non aveva tempo da perdere, quindi infilò una mano nel suo sacco e mise una grossa moneta nella mano dell’uomo.

L’uomo sgranò gli occhi esaminandola.

“L’oro del Re,” osservò, impressionato.

Squadrò Erec da capo a piedi con espressione carica di rispetto e meraviglia.

“Quindi vieni direttamente dalla Corte del Re?” gli chiese.

“Basta,” rispose Erec. “Sono io quello che fa le domande qui. Ti ho pagato. Ora dimmi: dov’è il commerciante?”

L’uomo si leccò le labbra diverse volte, poi si chinò verso di lui.

“L’uomo che cerchi si chiama Erbot. Viene qui una volta alla settimana sempre con nuove partite di puttane. Poi le vende all’asta al miglior offerente. Dovresti trovarlo nel suo covo. Segui questa strada fino alla fine: l’edificio è lì. Ma se la ragazza che cerchi è di valore, sarà già stata probabilmente venduta. Le sue puttane non durano a lungo.”

Erec stava per andarsene quando si sentì afferrare al polso da una mano calda e appiccicaticcia. Si voltò, sorpreso di constatare che l’oste lo stava trattenendo.

“Se sono le sgualdrine che cerchi, perché non ne provi una delle mie? Sono buone quanto le sue, e vengono la metà del prezzo.”

Erec fece una smorfia all’uomo, disgustato. Se avesse avuto più tempo l’avrebbe probabilmente ucciso, liberando il mondo da un individuo del genere. Ma guardandolo bene valutò che non ne valeva la pena.

Liberò il braccio con uno strattone e gli si avvicinò.

“Mettimi le mani addosso un’altra volta,” lo avvisò, “e rimpiangerai di averlo fatto. Ora fai due passi indietro da me prima che trovi il posto giusto dove conficcare questo stiletto che ho in mano.”

L’oste abbassò lo sguardo, gli occhi sgranati per la paura, e indietreggiò.

Erec si voltò e corse fuori dalla stanza, colpendo e urtando gli avventori per farsi strada più in fretta. Attraversò in fretta e furia la doppia porta d’ingresso. Non era mai stato tanto disgustato da degli esseri umani.

Montò sul suo cavallo, che stava scalpitando e sbuffando per la presenza di alcuni passanti ubriachi che lo stavano guardando, sicuramente – pensò Erec – con il pensiero di rubarlo. Si chiese se avrebbero realmente tentato se lui non fosse tornato così in fretta, e si convinse di legarlo meglio la prossima volta si fosse fermato. Il livello di vizio di quella cittadina era impressionante. Eppure il suo cavallo, Warkfin, era un potente cavallo da battaglia, e se qualcuno avesse tentato di rubarlo lo avrebbe probabilmente calciato a morte.

Erec spronò Warkfin e lo lanciò lungo la stretta via, facendo del suo meglio per evitare la moltitudine di gente. Era notte fonda, eppure le strade sembravano farsi sempre più fitte di persone, con uomini di ogni razza che si mescolavano in gruppi di vario genere. Alcuni beoni ubriachi gli urlarono dietro quando passò loro accanto troppo velocemente, ma ad Erec non importava. Sentiva che Alistair era lì da qualche parte e non si sarebbe fermato davanti a nulla fino a che non l’avesse raggiunta.

La strada terminava contro un muro di pietra e l’ultimo edificio sulla destra era una taverna pericolante, con i muri di argilla bianca e il tetto di paglia che sembrava aver visto giorni migliori. Dall’aspetto delle persone che entravano e uscivano, Erec sentì che si trattava del posto giusto.

Scese da cavallo, lo assicurò alla posta ed entrò con impeto. Lì si fermò paralizzato dalla sorpresa.

Il posto era illuminato a malapena: una grande stanza con poche torce baluginanti appese alle pareti e un fuoco che si stava spegnendo nel caminetto d’angolo. Ovunque erano sparsi tappeti sui quali giacevano decine di donne vestite in modo succinto e legate tra loro con delle spesse corde assicurate alle pareti. Sembravano tutte sotto l’effetto di droghe: Erec poteva sentire l’odore dell’oppio nell’aria e vide un pipa che veniva passata di mano in mano. Alcuni uomini ben vestiti si aggiravano per la stanza, calciando e colpendo i piedi delle donne qua e là, come per testare la mercanzia e decidere quale comprare.

 

Nell’angolo più lontano della stanza un uomo sedeva solo su una piccola sedia ricoperta di velluto rosso. Indossava abiti di seta e aveva delle donne incatenate a entrambi i lati. In piedi accanto a lui si trovavano degli uomini grossi e muscolosi, i volti ricoperti di cicatrici, più alti e robusti di Erec, con l’aspetto di chi si sarebbe esaltato all’idea di poter uccidere qualcuno.

Erec studiò l’intera scena rendendosi perfettamente conto di ciò che stava accadendo: era un bordello, quelle donne erano lì in affitto, e l’uomo nell’angolo ne era il fulcro, l’uomo che aveva agguantato Alistair, e con ogni probabilità anche tutte le altre donne che si trovavano lì. Erec pensò che pure Alistair poteva trovarsi in quella stanza.

Scattò in azione, muovendosi freneticamente attraverso le file di donne e osservandole in volto. Ce n’erano diverse decine in quella stanza, alcune morte, e l’ambiente era così buio che era difficile procedere. Stava guardando ogni viso, camminando tra le file, quando improvvisamente una grossa mano lo fermò colpendolo al petto.

“Hai già pagato?” chiese una voce burbera.

Erec sollevò lo sguardo e vide un uomo enorme che gli si era parato davanti guardandolo con espressione accigliata.

“Vuoi guardare le donne, paga,” tuonò la voce bassa dell’uomo. “Queste sono le regole.”

Erec fece una smorfia, sentendo l’odio che gli ribolliva dentro, poi, più veloce di un battito di ciglia, lo colpì dritto all’esofago con la base della mano.

L’uomo sussultò con gli occhi sgranati, poi cadde in ginocchio tenendosi la gola. Erec lo colpì quindi con una gomitata alla tempia e lo fece crollare con la faccia a terra.

Erec continuò a percorrere velocemente le file, osservando disperatamente i volti alla ricerca di Alistair, ma non la vide da nessuna parte. Non era lì.

Il cuore gli batteva all’impazzata mentre correva verso l’angolo della stanza in direzione del vecchio che stava seduto lì a sorvegliare tutto.

“Hai trovato qualcosa che ti piace?” gli chiese l’uomo. “Qualcosa su cui vuoi puntare?”

“Sto cercando una donna,” iniziò Erec con la voce fredda come l’acciaio, cercando di mantenere la calma, “e ho intenzione di dirlo solo una volta. È alta, ha i capelli lunghi e biondi e gli occhi verde-blu. Si chiama Alistair. È stata presa a Savaria solo uno o due giorni fa. Mi hanno detto che è stata portata qui. È vero?”

L’uomo scosse lentamente la testa sorridendo.

“Temo che la proprietà che cerchi sia già stata venduta,” disse l’uomo. “Un bell’esemplare devo dire. Hai buon gusto. Scegline un’altra, e ti farò lo sconto.”

Erec ribollì di una rabbia che non aveva mai provato prima.

“Chi l’ha presa?” ringhiò.

L’uomo sorrise.

“Santo cielo, sembri proprio fissato con quella schiava.”

“Non è una schiava,” ribatté Erec furente. “È mia moglie.”

L’uomo lo guardò scioccato, poi improvvisamente spinse la testa indietro ed eruppe in una fragorosa risata.

“Tua moglie! Questa è buona. Non più, amico mio. Ora è il giocattolino di qualcun altro.” Poi il volto dell’uomo si fece cupo e assunse un cipiglio malvagio. Facendo un cenno ai suoi scagnozzi aggiunse: “Ora sbarazzatevi di questo pezzo di pattume.”

I due uomini ricoperti di muscoli si fecero avanti e con una rapidità che sorprese Erec si protesero entrambi verso di lui per afferralo al petto.

Ma non avevano idea di chi stavano affrontando. Erec era più veloce di loro e li evitò afferrando il polso di uno dei due e piegandogli il braccio all’indietro fino a che l’uomo cadde sulla schiena. Allo stesso tempo Erec colpì l’altro con una gomitata alla gola, poi fece un passo avanti e schiacciò la trachea dell’uomo che era a terra, finendolo. Diede infine una testata all’altro che ancora si teneva la gola, e mandò al tappeto anche lui.

I due uomini rimasero a terra privi di conoscenza ed Erec si avvicinò al vecchio che ora tremava sulla sua sedia, gli occhi sgranati per il terrore.

Erec lo afferrò per i capelli, gli tirò indietro la testa e gli premette il pugnale contro la gola.

“Dimmi dov’è, e potrei decidere di lasciarti vivere,” gli ringhiò contro.

L’uomo balbettò.

“Te lo dirò, ma stai sprecando il tuo tempo,” rispose. “L’ho venduta a un signore. Ha la sua forza armata di cavalieri e vive nel suo castello. È un uomo molto potente. Il suo castello non è mai stato invaso. E oltretutto ha un intero esercito di riserva. È un uomo molto ricco: ha un esercito di mercenari pronti a rispondere ai suoi ordini in ogni momento. Si tiene tutte le ragazze che compra. Non c’è modo che tu riesca mai a liberarla. Quindi tornatene da dove sei venuto. L’hai persa.”

Erec tenne il pugnale pressato contro la gola dell’uomo fino a che iniziò a sanguinare, e l’uomo gridò.

“Dov’è questo signore?” chiese Erec ormai al limite della pazienza.

“Il suo castello si trova a ovest della città. Prendi il cancello occidentale e procedi fino alla fine della strada. Da lì vedrai il castello. Ma è una perdita di tempo. Ha pagato una bella cifra per averla… più di quanto valesse.”

Erec ne ebbe abbastanza. Senza esitazioni squarciò la gola di quel mercante del sesso uccidendolo. Il sangue si riversò ovunque mentre l’uomo si accasciava nella sua sedia, morto.

Erec guardò il corpo morto, gli scagnozzi privi di conoscenza e provò un senso di nausea per quel posto. Non poteva credere che esistesse un luogo del genere.

Attraversò la stanza e iniziò a tagliare le corde che legavano le donne, recidendo ogni cima e liberandole una alla volta. Molte di loro balzarono in piedi e corsero verso la porta. Presto nella stanza regnò il caos e si creò un fuggi fuggi generale. Alcune erano troppo intontite per muoversi, ma vennero aiutate dalle altre.

“Chiunque tu sia,” disse una delle donne ad Erec, fermandosi sulla porta, “che tu sia benedetto. E ovunque tu stia andando, che Dio ti aiuti.”

Erec apprezzò la gratitudine e la benedizione, ed ebbe la triste sensazione che, ovunque stesse andando, ne avrebbe avuto bisogno.

CAPITOLO DIECI

Era l’alba e la luce filtrava attraverso le finestrelle della casa di Illepra illuminando gli occhi di Gwendolyn, chiusi, svegliandola lentamente. Il primo sole, di un arancio opaco, la accarezzava e la destava pian piano nel silenzio della prima mattina. Gwen sbatté le palpebre diverse volte, chiedendosi dove si trovasse. Poi ricordò: Godfrey.

Si era addormentata sul pavimento della casetta, stesa su un giaciglio di paglia, accanto al letto di suo fratello. Anche Illepra dormiva vicino a lui ed era stata una lunga notte per tutti e tre. Godfrey si era lamentato, si era scosso e rigirato, e Illepra si era presa cura di lui ininterrottamente. Gwen era rimasta lì per aiutare in ogni modo le fosse possibile, portando stracci bagnati, strizzandoli, mettendoli sulla fronte di Godfrey e passando a Illepra le erbe e gli unguenti che lei chiedeva. Era stata una notte interminabile: molte volte Godfrey aveva urlato e lei si era sentita certa che sarebbe morto. Più di una volta lui aveva chiamato il nome di loro padre, facendola rabbrividire. Sentiva forte la presenza di suo padre tra di loro. Non sapeva se suo padre volesse che Godfrey vivesse o meno, la loro relazione era sempre stata così carica di tensione.

Gwen aveva dormito a casa di Illepra anche perché non sapeva dove altro andare. Non si sentiva sicura a tornare al castello, a stare sotto lo stesso tetto con suo fratello Gareth. Si sentiva protetta lì, sotto le cure di Illepra, con Akorth e Fulton di guardia davanti alla porta. Sapeva che nessuna sapeva dove si trovasse, e le andava bene così. Inoltre si era particolarmente affezionata a Godfrey negli ultimi giorni: aveva scoperto il fratello che non aveva mai conosciuto, e soffriva al pensiero che potesse morire.

Gwen balzò in piedi correndo accanto a Godfrey, il cuore che le batteva nel petto, chiedendosi se fosse ancora vivo. Una parte di lei sentiva che se si fosse svegliato quella mattina, allora ce l’avrebbe fatta. Se non si fosse destato sarebbe significato che era finita. Anche Illepra si alzò e si avvicinò in fretta. Doveva essersi addormentata a qualche ora della notte e Gwen non poteva certo biasimarla.

Rimasero entrambe inginocchiate accanto a Godfrey mentre la casupola si riempiva di luce. Gwen mise una mano sul polso del fratello e lo scosse, mentre Illepra gli posava invece una mano sulla fronte. Chiuse gli occhi e inspirò, e improvvisamente gli occhi di Godfrey si aprirono. Illepra ritrasse la mano sorpresa.

Anche Gwen era stupita. Non si aspettava che Godfrey aprisse gli occhi così di colpo. Lui si voltò a guardarla.

“Godfrey?” gli chiese.

Lui strizzò gli occhi, poi li riaprì. Poi, con loro grande sorpresa, si sollevò appoggiandosi a un gomito e le fissò.

“Che ore sono?” chiese loro. “Dove mi trovo?”

La sua voce aveva un tono vivace, sano, e Gwen provò un immenso sollievo. Sorrise di cuore e Illepra fece lo stesso.

Gwen si chinò verso di lui e lo abbracciò con forza, poi si scostò.

“Sei vivo!” esclamò.

“Certo che sono vivo,” disse. “Perché non dovrei esserlo? Chi è lei?” chiese voltandosi verso Illepra.

“La donna che ti ha salvato la vita,” gli disse Gwen.

“Che mi ha salvato la vita?”

Illepra guardava il pavimento.

“Ho solo dato un piccolo aiuto,” disse umilmente.

“Cosa mi è successo?” chiese con agitazione a Gwen. “L’ultima cosa che ricordo è che stavo bevendo alla taverna, e poi…”

“Sei stato avvelenato,” gli rispose Illepra. “Un veleno molto raro e potente. Non lo incontravo da anni. Sei fortunato ad essere vivo. A dirla tutta sei l’unico che abbia visto sopravvivere a quel veleno. Dev’esserci qualcuno che ti guarda dall’alto.”

A sentire quelle parole, Gwen si sentì certa che si trattasse della verità, e il suo pensiero corse subito al padre. Il sole penetrava attraverso le finestre, più forte, e lei percepì la sua presenza tra loro. Aveva deciso che Godfrey vivesse.

“Ti sta bene,” gli disse Gwen sorridendo. “Avevi promesso che avresti dimenticato la birra. E guarda cos’è successo.”

Lui le rispose con un sorriso. La vita era tornata a coloragli le guance e Gwen ne era immensamente sollevata. Godfrey era tornato.

“Mi hai salvato la vita,” le disse con sincerità.

Si voltò poi verso Illepra.

“Entrambe mi avete salvato la vita,” aggiunse. “Non so come potrò mai sdebitarmi.”

Mentre Godfrey guardava Illepra Gwen notò qualcosa, c’era qualcosa nel suo sguardo, qualcosa che significava ben più che gratitudine. Si voltò a guardare Illepra e la vide arrossire e abbassare lo sguardo. Era evidente che si piacevano.

Illepra si voltò velocemente a attraversò la stanza, dando loro le spalle e mettendosi a lavorare indaffarata a una pozione.

Godfrey guardò Gwen.

“Gareth?” le chiese con tono improvvisamente serio.

Gwen annuì, capendo ciò a cui alludeva.

“È una fortuna che tu sia ancora qui,” disse. “Firth invece è morto.”

“Firth?” esclamò Godfrey sorpreso. “Morto? E come?”

“Impiccato sulla forca,” gli rispose. “E tu dovevi essere il prossimo.”

“E tu?” le chiese Godfrey.

Gwen scrollò le spalle.

“Ha programmato di darmi in moglie fuori dal regno. Mi ha venduta a un Nevareno. Pare che stiano venendo a prendermi.”

Godfrey si mise a sedere furente.

“Non lo permetterò mai!” esclamò.

“Neanche io,” confermò lei. “Troverò il modo di oppormi.”

“Ma senza Firth non abbiamo più nessuna prova,” disse. “Non abbiamo modo di buttarlo giù dal trono. Gareth rimarrà libero.”

“Troveremo un modo,” rispose Gwen. “Troveremo…”

Improvvisamente la casa si riempì di luce: la porta si era aperta ed Akorth e Fulton entrarono.

“Mia signora,” iniziò Akorth, ma poi si voltò vedendo Godfrey.

“Brutto figlio di puttana!” gridò colmo di gioia. “Lo sapevo! Hai sempre fregato tutti in vita, figurarsi se non fregavi anche la morte!”

“Sapevo che nessun boccale di birra avrebbe mai potuto portarti nella fossa!” aggiunse Fulton.

Akorth e Fulton gli si avvicinarono, Godfrey saltò giù dal letto e tutti e tre si abbracciarono.

Poi Akorth si voltò serio verso Gwen.

“Mia signora, mi spiace disturbarti, ma abbiamo scorto un contingente di soldati che avanza all’orizzonte. Stanno venendo da questa parte.”

Gwen lo guardò allarmata, poi corse all’esterno, seguita da tutti, abbassando la testa passando sotto l’uscio e strizzando gli occhi per l’accecante luce del sole.

Il gruppetto rimase fuori e Gwen scrutò l’orizzonte vedendo un piccolo gruppo dell’Argento che si dirigeva verso la casa di Illepra. Cinque o sei uomini galoppavano a massima velocità e non c’era dubbio che stessero andando proprio verso di loro.

 

Godfrey si apprestò a sguainare la sua spada, ma Gwen gli pose una mano rassicurante sul polso.

“Quelli non sono uomini di Gareth, ma di Kendrick. Sono certa che vengono in pace.”

I soldati li raggiunsero e, senza esitazione smontarono da cavallo e si inginocchiarono davanti a Gwendolyn.

“Mia signora,” disse il primo soldato. “Vi portiamo grosse novità. Abbiamo respinto i McCloud! Vostro fratello Kendrick è salvo e mi ha chiesto di portarvi questo messaggio: Thor sta bene.”

Gwen scoppiò in lacrime alla notizia, sopraffatta dalla gratitudine e dal sollievo. Abbracciò Godfrey che ricambiò stringendola con affetto. Si sentiva come se la vita avesse ricominciato a scorrerle nelle vene.

“Torneranno tutti oggi,” continuò il messaggero, “e ci saranno grandi festeggiamenti nella Corte del Re!”

“Una notizia veramente magnifica!” esclamò Gwen.

“Mia signora,” disse un’altra voce profonda che Gwen riconobbe come quella di un rinomato guerriero, Srog, vestito di rosso, colore caratteristico dell’occidente, un uomo che lei conosceva da quando era bambina. Era stato vicino a suo padre. Si inginocchiò davanti a lei e Gwen si sentì imbarazzata.

“La prego, signore,” gli disse, “non inginocchiatevi davanti a me.”

Era un uomo famoso, un signore potente che aveva migliaia di soldati ai suoi comandi e che governava la sua città, Silesia, la roccaforte dell’Occidente, una città singolare, costruita in cima a una scogliera, affacciata sul Canyon. Era praticamente impenetrabile. E Srog era uno dei pochi uomini di cui suo padre si fidasse.

“Sono venuto fin qui con questi uomini perché ho sentito che si stanno verificando grossi cambiamenti nella Corte del Re,” disse dando a vedere di sapere il fatto suo. “Il trono è instabile. È necessario eleggere un nuovo governatore, qualcuno di fermo e sincero. Mi è giunta voce del desiderio di vostro padre che foste voi a regnare. Vostro padre era come un fratello per me, e la sua parola mi è sacra. Se questo era il suo desiderio, allora è anche il mio. Sono venuto per farvelo sapere. Se sarete voi a regnare, allora i miei uomini vi giureranno alleanza. Vi consiglio di agire in fretta. Gli eventi di oggi hanno dato prova che la Corte del Re ha bisogno di un nuovo capo al più presto.”

Gwen rimase ferma, stupita, non avendo idea di cosa rispondere. Si sentiva estremamente imbarazzata, ma provava anche un senso di orgoglio ed era soprattutto frastornata.

“Vi ringrazio signore,” rispose. “Vi sono grata per queste parole e per la vostra offerta. La considererò con serietà. Per ora desidero solo dare il benvenuto a mio fratello, e a Thor.”

Srog chinò la testa e si udì risuonare un corno all’orizzonte. Gwen sollevò lo sguardo e vide la nuvola di polvere: un enorme esercito stava apparendo all’orizzonte. Lei sollevò una mano per schermare la luce del sole e il cuore le si fermò. Anche da lì era chiaro di chi si trattasse. Era l’Argento. Erano gli uomini del Re.

E lanciato al galoppo davanti a loro, a guidarli, c’era Thor.

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