Scherzi Del Futuro

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Scherzi Del Futuro
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MARCO FOGLIANI

Aggiornamento al: 03/07/2021

Indice

  INTRODUZIONE

  LA PARTITA INTERROTTA

  PAESAGGIO MOZZAFIATO

  IL PROGETTO PILOTA

  LA MISSIONE DELL'ULISSE VOLANTE

  L'AVARIA

  LA TERZA GENERAZIONE

  LA STRANA PIOGGIA

  UN MONDO NUOVO

  IL MORBO DI ... (Dramma Fanta-Farmacologico)

  IL RISVEGLIO (Dramma Fanta-Farmacologico)

  STORIA D'ALTRI TEMPI

  IO E ANNA

  BATTERIE A LUNGA DURATA

  I VIAGGI DI LILLIGET

  IL CALCIO DI OGGI NON E' PIU' COME PRIMA

  IL MECENATE DELLA SCIENZA

  LA LIBERTA'

  LA FINE DELLA LIBERTA'

  AI TEMPI DELLA SALUBRINA

  LA RETATA

  LA PENSIONE A CINQUE STELLE

  AGENTI MOLTO SPECIALI

  LO STATO LIBERO DI BAGHIRISTAN

  LO STRANO INCONTRO

INTRODUZIONE

Non mi piacciono le premesse. Però mi sento tenuto a spendere qualche parola su quanto ho scritto immaginandolo ambientato nel futuro.

Per cominciare devo avvertire che, essendo stati scritti nell'arco degli ultimi vent'anni, una parte della fantascienza originaria potrebbe essere andata perduta o, peggio ancora, divenuta obsoleta e ridicola; un po' come vedere oggi i film di fantascienza del secolo scorso ambientati nel 1999 o nel 2001.

Perciò, benché buona parte della mia fantasia sia sempre stata proiettata verso un futuro più o meno prossimo, ho cercato di raccogliere qui solo le storie più convincenti e ancora futuristiche. In questa raccolta ho inoltre cercato di concentrarmi più sulla "fantascienza" che sulla "fantapolitica" (anche se a volte il confine tra i due generi è labile).

Avverto infine che una parte degli "Scherzi del futuro" potrete trovarli a diverso titolo anche in altre mie raccolte: "Scherzi"; "Scherzi per il teatro", "Scherzi del calcio"; "Scherzi di medici, politici e scrittori"; "Sta scherzando commissario?"

LA PARTITA INTERROTTA

Allo stadio Olimpico di Roma la partita Roma-Juventus, 12-ma di ritorno del campionato italiano di calcio di serie A, era cominciata da circa venti minuti.

Una bella partita. Anche se non si erano ancora viste reti, il pubblico aveva già avuto modo di divertirsi in molte occasioni. Ed una bella giornata: un sole tiepido primaverile, quasi niente vento e niente nuvole, dopo una settimana che, meteorologicamente, alcuni avevano previsto come l’ultima invernale della stagione.

A me il sole dava quasi fastidio: troppo sparato sulla mia faccia. Avrei gradito volentieri una bella nuvola sopra lo stadio, anche per potermi togliere quel cappellino che, se permetteva alla mia testa pelata di non surriscaldarsi, comunque mi dava fastidio.

Ad un tratto, guardando il cielo sopra di me, notai qualcosa di strano. Non era un gabbiano, come mi era sembrato a prima vista, anche se di gabbiani in giro ce n’erano parecchi. Non sembrava neanche un palloncino, di quelli che i gruppi di tifosi organizzati lasciano andare all’inizio degli incontri in vivaci coreografie multicolori. Perché invece di salire, scendeva, almeno così mi pareva. Sì, doveva scendere, perché ora cominciavo a distinguere in quel coso una specie di paracadute. Come le caramelle o i salamini che, quando ero bambino, qualche aereo rumoroso ci gettava in dono sulle spiagge delle nostre vacanze.

Però, nonostante quella specie di paracadute, questo coso sembrava scendere dritto, anche se lentamente. Senza ondeggiamenti, dritto e deciso verso il centro di metà campo.

Non avrei saputo dire quanto fosse grande, così lassù in mezzo al cielo. Forse era piccolo; ma più scendeva e più, ovviamente, si ingrandiva, e più le persone intorno si accorgevano della sua presenza. Tanto che, ad un tratto, mi resi conto che intorno a me erano forse più quelli che fissavano questo oggetto in aria di quelli che seguivano l’incontro.

Se ne avvide anche qualcuno a bordo campo, che attirò l’attenzione del terzo uomo e questi dell’arbitro, il quale fermò il gioco, convocò i due capitani e, senza troppe discussioni, ordinò che ci si spostasse tutti vicino alle panchine. Tempo pochi secondi ed il terreno di gioco si era svuotato. La partita sarebbe stata probabilmente sospesa; sicuramente per ora era stata interrotta. L’arbitro, gli allenatori ed altri personaggi continuavano a parlottare fittamente tra loro vicino a quelle specie di trincee delle panchine, osservando quel coso che scendeva. Ma qualche giocatore prese la via dello spogliatoio, per cui i più davano già la partita per sospesa.

“Ma non puoi sentire alla radio che cosa dicono? Tu che hai il telefonino speciale con 500 funzioni, possibile che non abbia anche la radio?”, chiese un mio vicino ad un suo amico.

“Ci sto provando. Credo un elicottero … a quanto pare … “

Non riuscii a capire di più, perché per l’appunto il rumore di un elicottero, proveniente dalla Tribuna Tevere, montò rapidamente facendosi in breve assordante.

Anzi, gli elicotteri erano due, dei carabinieri. Si disposero ciascuno di fronte ad una delle due porte, all’altezza del dischetto del rigore, quasi a fare da scorta all’atterraggio di quel coso; il quale proseguiva la sua discesa sempre senza fretta, come se avesse gravità nulla, ma senza deviare dalla verticale, come un ascensore.

Gli altoparlanti gracchiavano qualcosa, ma il rumore degli elicotteri copriva tutto. Per fortuna dalla radio, e dal gruppetto di tifosi con cui ero, sapevo tutto, e cioè: i cancelli d’uscita erano stati aperti; la partita era stata sospesa per ordine del prefetto, ed i giocatori erano già tutti negli spogliatoi; non c’era nessun pericolo per gli spettatori che quindi potevano anche rimanere fino a nuovo ordine, e comunque dovevano mantenere la calma, non ostacolare le attività del personale addetto alla sicurezza e seguire le indicazioni degli steward e delle hostess. Tutto il personale di ordine pubblico era appostato, e altri agenti erano in arrivo - lo credo, anche perché ormai l’ordine pubblico all’interno dello stadio era gestito quasi solo da hostess e non dalla polizia, che in genere era il bersaglio preferito dei tifosi violenti – ed erano attesi anche mezzi specializzati dell’esercito.

Infine sotto quella specie di paracadute grigio riuscì a distinguersi una struttura a forma di tetraedro, colore celeste metallizzato, quasi fosse ricoperta di pannelli solari.

“Un tetraedro? E che diavolo è?”

“È quello, non lo vedi?”

Sarà stato alto tre metri.

“Due metri abbondanti, dicono”

“Certo che se beccano chi ha combinato questo scherzo, glie la fanno pagare cara!”

“Ah sarebbe quello il tetraedro? Come le vecchie confezioni del latte?”

“Esatto, ogni lato un triangolo equilatero, anche se non mi sembra proprio equilatero.”

“Per me sono spie brasiliane, venute a spiare il gioco dei nostri campioni!”

Il tetraedro atterrò dritto e silenzioso, esattamente al centro del campo. Nessuno di noi parlava. Qualcuno aveva abbandonato gli spalti, ma la maggior parte degli spettatori era curiosa di vedere cosa sarebbe successo.

Non accadde nulla. Però quella specie di paracadute era rimasto là rigido in aria, come un grazioso ombrellino che riparava dal sole la sottostante struttura a tetraedro.

Non accadde nulla forse per quasi un minuto. Poi, all’improvviso, dagli schieramenti di poliziotti in tenuta antisommossa partirono insieme dei potenti getti d’acqua. Quattro potenti idranti spararono in contemporanea contro quell’affare. Gli diedero una bella lavata forse per un minuto, facendo diventare il cerchio di centrocampo un’enorme pozza. Poi si fermarono. Suppongo che avessero finito l’acqua a loro disposizione; o forse semplicemente pensavano di averlo lavato per bene. E poi non accadde niente per un bel po’. Gli elicotteri fermarono i motori. Gli altoparlanti invitarono il pubblico, per motivi di sicurezza, ad abbandonare lo stadio con calma e con ordine, recandosi all’uscita più vicina, rassicurando che i biglietti sarebbero stati validi per la ripetizione della gara o rimborsati. Alcuni mezzi blindati militari arrivarono fino alla pista di atletica, e poi anche due elicotteri da trasporto dell’esercito con dell'attrezzatura sofisticata.

 

Il deflusso del pubblico fu lento ed ordinato. Circa dieci minuti dopo noi eravamo ancora ai nostri posti quando, preceduto da uno sbuffare che ricordava un po’ una pentola a pressione, le tre facce del tetraedro all’improvviso si aprirono. Dal suo interno rotolarono fuori una gran quantità di sfere azzurrine grandi ciascuna quanto un pallone da calcio; e probabilmente leggere come palloncini dal momento che, di tanto in tanto, cominciavano a rimbalzare, ciascuna per suo conto, ma sempre lentamente e seguendo una direzione rigorosamente verticale.

Il cordone di poliziotti in tenuta antisommossa ebbe un sussulto, forse indeciso se utilizzare di nuovo gli idranti oppure no.

Chi, come noi, ancora non era uscito dallo stadio, a questo punto voleva rimanere, per vedere se succedeva ancora qualcosa: infatti più di un cronista era del parere che si trattasse di uno spettacolo organizzato ad arte, probabilmente da uno degli sponsor delle due squadre. Uno spettacolo artistico e mediatico unico, di grande effetto, organizzato senza badare a spese in diretta televisiva, e con una cortina di mistero che sarebbe stata svelata solo dopo qualche giorno.

Visto che la gente era restia ad allontanarsi, l’altoparlante ripeté nuovamente e più volte il precedente invito ad abbandonare lo stadio.

Era buffo vedere questi palloncini che continuavano a rimbalzare l’uno indipendentemente dall’altro e senza mai scontrarsi, spinti da chissà cosa; buffo vedere quella specie di robotttino militare telecomandato avvicinarsi a quel coso, agitare per aria le sue braccia metalliche e poi ritornare dal suo padroncino; buffo anche vedere un cane addestrato che, legato ad un lunghissimo guinzaglio, si avvicinava a quei palloncini per annusarli, ma senza che gli fosse concesso di toccarli o di giocare con essi. Chissà che cosa si aspettavano che facesse!

Insomma, lo spettacolo era stato anche abbastanza interessante e divertente, ma alla lunga si era fatto piuttosto monotono e noioso.

Perciò, quando la calca all’uscita si fu rarefatta, decidemmo che era giunto anche per noi il momento di uscire e ritornammo a casa tranquillamente, pensando a cosa organizzare per riempire quel pezzo di pomeriggio rimasto inaspettatamente libero.

E allora, cosa accadde quel famoso pomeriggio allo stadio? Beh, ancora non mi è chiaro neanche adesso, a distanza di molti anni.

Sicuramente lo stadio rimase inagibile per almeno tre settimane, perché ricordo che la successiva partita della Roma si giocò in campo neutro.

Dicono che lo stadio, in quel periodo, sia stato presidiato da uomini e mezzi militari, neanche fosse una caserma o una postazione strategica; e che quegli oggetti misteriosi siano stati trasferiti in segreto e che si trovino oggi in una base NATO.

Ma di tutto quanto riguarda l’intera faccenda non è mai trapelato nulla di certo, nonostante le interpellanze parlamentari, le inchieste giornalistiche ed i dibattiti televisivi, perché il governo ha imposto su di essa il segreto di Stato. Voci tante, naturalmente, ma secondo me nessuna degna di credito. Se non quella, che ho letto qualche mese fa su una rivista seria di divulgazione scientifica, secondo cui sarebbe stato appurato che sia i materiali che la tecnologia impiegati in tutti quegli oggetti sarebbe comunemente accessibili nella società occidentale, con l’unica eccezione di quella specie di paracadute rigido che scendeva leggero leggero come un ascensore, e di cui fior di scienziati stanno tuttora tentando di capire il funzionamento.

PAESAGGIO MOZZAFIATO

“E adesso chiudi gli occhi, e mi raccomando: non li riaprire finché non te lo dico io”, le disse lui.

Lei così fece, pregustando non sapeva bene quale gradita sorpresa. Si lasciò prendere per mano e guidare lentamente per qualche passo, in attesa fiduciosa di chissà cosa.

O meglio, lei una precisa speranza su cosa potesse accadere lei ce l'aveva; ma le venne anche in mente il racconto del primo bacio tra sua mamma e suo papà, e nel frattempo cominciava ad udire inatteso il rumore del mare, dapprima appena in sottofondo, poi sempre più fragoroso. Rumore di onde spumose che si infrangono con forza sulla scogliera.

In realtà non aveva la minima idea di quello che l'aspettasse.

“Siediti pure qui se vuoi, e mettiti comoda, ma sempre senza aprire gli occhi”.

Lei fece come le era stato detto, meravigliandosi di trovare ad accoglierla sotto di sé una specie di morbido tappeto anziché sassolini o qualche rocciosa sporgenza appuntita.

Il rumore del mare, ora leggermente attenuatosi, era comunque piacevole e rilassante, non disturbato dai versi, portati dal vento quasi a intermittenza, di alcuni gabbiani che andavano e venivano in volo. Anche quell'arietta fresca sulla faccia, una brezza leggera che sapeva di salsedine e di libertà, dava una sensazione piacevole. E dalle palpebre chiuse filtrava una luce di un bel colore che era una specie di rosa rossastro aranciato.

“Adesso puoi riaprire gli occhi.”

Di fronte a lei, come uno smisurato affresco animato del più grande artista che si sia mai conosciuto, stava il paesaggio mozzafiato di un tramonto sul mare, Qualcosa di più che solo una mirabile visione, perché ad un tratto le giunsero anche dei leggeri spruzzi d'acqua fresca sulla faccia e sul vestito.

“Non preoccuparti, è soltanto acqua”, la tranquillizzò lui. “Ma se vuoi … ”

“No, no … è bellissimo … incredibile … ”

Rimasero un po' seduti una accanto all'altro in silenzio, in contemplazione di quanto si presentava ai loro occhi.

“Ti piace?”

Lei fece cenno di sì col capo.

Poi dopo un po', all'improvviso, lei parve risvegliarsi, e consultò il suo orologio al polso.

“Però, ad essere sincera, quando mi hai invitato a provare il tuo nuovo impianto 3D stereo sensisurround con special-Eff io ho pensato subito istintivamente alla partita del campionato del mondo. Non so perché ti sia venuto in mente che io sia un tipo incline alle romanticherie. Non è che potresti cambiare canale e mettere la partita, che sta per cominciare?”

“Va bene.”

Lui un po' controvoglia raccolse il telecomando, ed in un attimo si trovarono seduti in panchina di fianco all'allenatore, all'interno di uno stadio con un tifo d'inferno.

“Grazie, sei davvero un amico”, gli disse lei gridando per riuscire a farsi sentire.”

IL PROGETTO PILOTA

Sono proprio contento che, circa un mese or sono, sia stata accolta la mia richiesta di partecipare attivamente al cosiddetto “progetto pilota”. Più nel dettaglio, si tratta di un gruppo di studio sul telelavoro avanzato, che è poi uno dei settori trainanti della mia azienda (una multinazionale di prodotti elettronici di vario genere ma sicuramente leader nel campo dei sistemi di comunicazione aziendale e per teleconferenze). Sarà in pratica il collaudo in casa propria, con conseguenti perfezionamenti e migliorie, di quello che nelle intenzioni dovrebbe diventare il prodotto di punta della sua categoria, ricco di soluzioni innovative e spesso rivoluzionarie sotto diversi aspetti.

Ci tenevo molto a questo incarico, di grande prestigio e responsabilità. Se ho avuto la meglio su altri manager più quotati è stato forse per la dimestichezza acquisita nel collaborare con colleghi delle filiali straniere, grazie al mio carattere e soprattutto alla mia ottima conoscenza di 4 lingue (tra cui il greco); ma forse anche per via del mio vivo e sincero interesse per la materia. Sono un manager, ma mi sento anche un po' un tecnico: non come molti dirigenti che a trattare di pesce o di automobili è la stessa cosa. Mi sono ormai quasi specializzato, e a cambiare ramo mi troverei spaesato, ma soprattutto sarei sprecato.

Sono uno che crede fermamente nell'importanza e negli sviluppi del lavoro a distanza. In particolare da quando l'azienda, per motivi logistici, ha deciso di trasferire la sua filiale di Roma in prossimità dell'aeroporto internazionale di Fiumicino, aggiungendo altri quaranta chilometri agli altrettanti che già separavano la mia abitazione dalla vecchia sede. Così io, che per le giustificate resistenze di mia moglie non ho potuto avvicinare la residenza all'ufficio, ho conosciuto in prima persona i disagi di lavorare lontano da casa; ma soprattutto ho capito, e poi sempre tenuto presente, le potenzialità economiche del poter ridurre questi disagi. Insomma, sono sempre stato quello che vedeva nel telelavoro possibili sviluppi e guadagni dove quasi nessun altro li immaginava.

Solo con il passaggio del progetto alla fase operativa, cioè quando sono venuti a casa per montarmi la cabina, ho avuto un attimo di incertezza e preoccupazione per avervi aderito. Ero a conoscenza delle dimensioni del box, ma non mi ero reso conto che avrebbe in pratica più che dimezzato lo spazio del mio studio. Poco male: perché una volta installato capii presto che lo studio avrebbe perso quasi tutta la sua importanza. Con le sue apparecchiature d'avanguardia, quel sofisticato gabbiotto ha mandato completamente a riposo il computer, il fax e il telefono che usavo prima; con un certo beneficio anche sulla bolletta, dato che i costi di esercizio della cabina, che sostituiva in tutto e per tutto la mia vecchia postazione di lavoro, erano completamente a carico dell'azienda.

Altre preoccupazioni erano legate alla nuova attività recentemente intrapresa da mia moglie, attività che insieme al giardino e alle comodità di casa nostra era stata il principale impedimento a trasferirci. Già: con una certa sorpresa ma anche orgoglio da parte mia, Rita si era all'improvviso trasformata da casalinga in imprenditrice. Sfruttando la sua innata capacità di resistere ai bambini, gli incentivi economici previsti dalle nuove normative nonché il giardino e gli ampi spazi a disposizione in casa nostra, l'aveva trasformata in una specie di asilo di quartiere. Così poteva rimanere sempre vicino a nostro figlio, e al tempo stesso sentirsi realizzata ed economicamente autonoma.

Solo se dovrò lavorare da casa, pensavo, avrò l'impatto con la confusione ed il rumore di questo viavai infantile. Ed invece no: la cabina era insonorizzata alla perfezione. Qualunque cosa fosse successa all'esterno, fosse stato anche un temporale o un terremoto, credo proprio che non me ne sarei accorto. Se avessi voluto, neanche il bussare alla porta mi avrebbe disturbato: potevo fare in modo che, se qualcuno voleva entrare, doveva premere un pulsante e io sarei stato avvertito della sua presenza da un apposito segnale luminoso o acustico. Potevo allora, prima di aprire, azionare la telecamera esterna per vedere chi fosse, o inviare un messaggio, acustico o video, personalizzabile (in funzione anche del riconoscimento semi-automatico della persona).

Insomma i pochi timori che avevo si rivelarono infondati, anche perché mia moglie, con cui avevo messo bene in chiaro a priori che quando ero là dentro era a tutti gli effetti come se fossi in ufficio, non mi disturbò mai per nessun motivo, se non per segnalarmi quando passavo troppo oltre l'ora del pranzo. E vi assicuro anche che, specialmente i primi tempi, era davvero bello pranzare a casa con la mia famiglia.

Sui vantaggi che ho ricevuto dalla partecipazione al progetto pilota potrei spendere pagine e pagine, anche se certo altre persone del progetto saprebbero farlo meglio di me che li scopro di giorno in giorno sul campo, mano a mano che mi trovo ad affrontare nuovi problemi e situazioni lavorative.

Entrando in quel box, in un istante è come se mi trovassi altrove: sempre nel mio ufficio, ma alle volte anche ad Atene, a Monaco o in altre sedi della compagnia. Il tutto senza mai dover prendere la macchina, il treno o l'aereo, sempre restando a casa mia. In effetti, il nostro è l'unico progetto intra-nazionale per cui la nostra azienda non prevede spese di trasferte.

Talvolta però sfrutto la potenzialità della cabina - l'insonorizzazione, la comodità della poltrona, la possibilità di regolare le luci e di gestire il sottofondo musicale - per prendermi delle pause di relax o di riflessione (Queste voci includono anche quella, assolutamente vietata nel lessico del manager, di schiacciare un pisolino). L'importante è attivare nel modo opportuno, o disattivarli completamente a seconda del caso, gli “allarmi di chiamata”. Per questi allarmi è disponibile anche un praticissimo ricevitore portatile che mi consente, tra l'altro, di prendermi di tanto in tanto una pausa nel nostro bellissimo giardino, o di essere reperibile anche a tavola durante il pranzo.

 

Insomma, massima flessibilità e comodità.

La mia nuova vita col telelavoro mi permetteva, ogni giorno, di alzarmi con molta calma, e ciononostante arrivare in ufficio prima di tutti gli altri. Aperta la porta della cabina, la luce all'interno si accendeva gradualmente, dando in pochi istanti forma e contorno alla mia scrivania. La temperatura, l'umidità e l'ossigenazione erano ideali, regolate da sofisticate apparecchiature secondo i valori raccomandati.

Era come se fossi là, nell'open space. Certo, avrei voluto che ci fosse anche una telecamera per poter osservare i miei collaboratori, capire esattamente cosa facevano e soprattutto quanto lavoravano; ma mi rendo conto che sarebbe stata una violazione troppo palese della loro privacy, e avrebbe necessariamente richiesto il loro consenso. Comunque sapevo benissimo chi di loro lavorava e chi no, chi in ufficio adoperava la propria testa e chi invece veniva a scaldar la sedia e a rubarsi lo stipendio.

Probabilmente una telecamera non sarebbe passata inosservata, anche se oggigiorno le fanno così piccole! Però quel bottoncino sul retro del loro nuovo computer… (sono stati molto contenti che gli fosse sostituito con questo modello recentissimo)… Basta un niente per pigiarlo accidentalmente, potrebbero benissimo essere stati loro senza accorgersene, o le addette alle pulizie. E invece sono stato io, di soppiatto, l'ultima volta che sono passato di là. Tanto nessuno ancora sa a cosa serva - se non quei pochi, tra cui io, che conoscono il progetto pilota a un certo livello di dettaglio!

Accendendo il computer così predisposto, le immagini del video vengono inviate sulla rete ai terminali remoti abilitati all'ascolto, come il mio, che vengono aggiornati continuamente. Insomma, non li vedi in faccia ma puoi vedere il loro schermo, quello che fanno e con che lena. Così so che Mario è tra i primi ad arrivare ed a mettersi al lavoro, mentre Carlo, che a detta della mia segretaria è sempre il primo a timbrare, resta ad oziare ogni mattina per quasi tre quarti d'ora. Se vada a prendersi un caffè, o a trovare un'amica o semplicemente legga il giornale non fa poi tanta differenza.

Per non correre il rischio di farmi un'opinione sbagliata ne studio uno solo alla volta, metodicamente (sono del parere che nella vita bisogna sempre concedere almeno una seconda possibilità), e ogni quattro o cinque giorni cambio il soggetto delle mie attenzioni. E a questa attività, sempre che non abbia altre faccende urgentissime da sbrigare, posso arrivare a dedicare anche mezz'ora ogni mattina: la reputo di una certa importanza, come avere con loro una conversazione, perché mi aiuta a capirli meglio. Per esempio, non avrei mai sospettato che il ragionier Rosi fosse così in gamba. Sempre interessato a tutto; sempre in fermento anche nelle pause dall'attività lavorativa. Si aggiorna continuamente su internet su argomenti più o meno di attualità, ma sempre molto interessanti, navigando su siti di altissimo livello culturale, di cui ignoravo completamente l'esistenza; ed io mi documento insieme a lui, in remoto, dispiaciuto solo quando non mi lascia il tempo di finire di leggere una pagina.

Il Renati invece è un vero lavativo. Uno che per non lavorare ce la mette proprio tutta! Non solo passa le ore a giocare col computer (una specie di solitario con le carte), ma poi è sempre il primo a parlare di sfruttamento proletario, angherie dei padroni, scioperi e rivoluzioni. Sono le uniche cose che sa fare, giocare e contestare: perché quando gli si affida un incarico, che naturalmente non può che essere semplice, a sentir lui sembra sempre difficilissimo e gli ci vuole una vita per portarlo a termine. Farò di tutto perché venga licenziato. Non sarà facile, perché ha anche delle conoscenze nel sindacato: ma sto pensando che la prossima volta andrò in sede senza preavvisare nessuno, entrerò di soppiatto e lo coglierò in flagrante mentre gioca. E anche se non lo sorprenderò sul fatto mi comporterò allo stesso modo: andrò all'ufficio sorveglianza e sicurezza a denunciare l'accaduto, chiedendo nei suoi confronti una sanzione disciplinare, o per lo meno che lo mettano sotto osservazione, in modo che la sanzione scatti alla prima occasione successiva.

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Quel giorno ero su di giri. Non volevo collegarmi troppo presto per non dare l'impressione che ci tenessi troppo; allora feci delle cosette di poca importanza ma comunque rilassanti, come riordinarmi la scrivania e, udite udite, spolverarla!! D'altronde se queste cose non le faccio io non le fa nessuno (non lascio né lascerò mai che nessuno entri nella cabina, se non personale qualificato per la manutenzione).

Ero su di giri perché stava per arrivare il clou della giornata e anche della settimana, forse l'aspetto più piacevole di tutto il progetto pilota: la signorina Kanakis. Penso che sia signorina: non gliel'ho mai chiesto per paura della delusione di saperla sposata, anche se quello che provo per lei è puramente platonico e senza possibilità di arrivare a sbocchi concreti. Ma c'è qualcosa in quella donna che trovo irresistibilmente attraente. Non sono solo i suoi vispi occhi neri, con quella espressione di sottintesa malizia che invece non traspare mai dalle sue parole; non sono neanche la sua bellissima capigliatura mora ondulata, né le sue forme sinuose che ricordano in qualche modo un favoloso paesaggio greco, fatto di onde increspate, sole rilucente e spiagge di morbida sabbia finissima. Non è solo la sua sicurezza, nel parlare ma soprattutto nel muoversi; il suo modo naturale di affrontare qualunque situazione, senza paura, senza complessi, con il sorriso di chi sa godersi la vita in tutti i suoi aspetti.

Forse è tutto questo insieme; forse qualcos'altro che non riesco ad afferrare; che mi sfugge ma che non mi lascia sfuggire in nessun modo al suo fascino.

Come mi aspettavo, lei era già pronta per il collegamento.

“Buongiorno dottore”, mi salutò mentre un'ombra intimorita di fianco a lei sgattaiolava via. Quelle due stanze lontane in un attimo si unirono, entrarono una nell'altra condividendo la parete che ci stava di fronte.

“Buongiorno signorina Kanakis: che piacere rivederla! La trovo ancora più elegante del solito, ed in ottima forma.”

“Sì, sì. In ottima forma. Questo fine settimana ho fatto delle splendide nuotate in mare. Sono i primi bagni della stagione, e questa è sempre una cosa bellissima. Voglio dire … in mare è tutt'altra cosa che in piscina.”

“Avrei voluto essere lì a nuotare con lei. Anche per vederla in costume, naturalmente. Lei è sempre molto elegante, ma qualche volta potrebbe mettersi anche qualcosa di meno austero, più giovanile … diciamo una bella scollatura, ecco.”

“È piuttosto freddo qua dentro.”

“… ma può regolare la temperatura!”, le suggerii. “Se vuole posso spiegarle come funziona.”

“Questo coso, qui in azienda, lo usa anche qualcun altro. Non mi permetterei di metterci le mani; e poi sono proprio negata per queste cose. Comunque, quando vorrà raggiungermi per farsi con me una bella nuotata nel nostro bellissimo mare, ne sarò felicissima. Sarà il benvenuto.”

Era una proposta tanto allettante quanto inattesa: davvero non avrei potuto sperare di meglio. “Naturalmente anche sua moglie”, aggiunse poi con un sorriso genuinamente ingenuo.

“Naturalmente anche mia moglie” ripetei io. “Anche mio figlio, magari”, aggiunsi io tornando coi piedi sulla terra, avendo afferrato l'involontaria ironia nelle sue parole.

“Naturalmente”, fu d'accordo anche lei col suo solito, splendido sorriso. “Bene. Se adesso vuole posso cominciare ad illustrale quella relazione di cui avevamo parlato la volta scorsa, dottore.”

Si accomodò su una sedia di fronte a me. Avevo notato già altre volte la disparità della nostra posizione: io su una comoda poltrona, riparato dietro a una protettiva scrivania; lei su una semplice seggiola, esposta verso di me come una studentessa di fronte alla commissione d'esame. L'unico lato positivo della situazione era che così potevo ammirare anche le sue bellissime gambe, stupendamente tornite e abbronzate. Ma capivo che in questo modo la scrivania si frapponeva tra noi come una ulteriore barriera, oltre alla differenza di fuso orario e al nostro diverso ruolo aziendale, mentre il mio intendimento era quello di eliminare le distanze tra noi, e non aumentarle.

“Aspetti, signorina: perché non viene a sedersi anche lei qui dietro alla scrivania, di fianco a me?”

Lei mi guardò con un'espressione come a dire: questo è proprio fuori di testa. Ma io sapevo benissimo quello che stavo per fare. Mi ero ben documentato, e l'avevo provato più di una volta: era una mossa ben studiata, con cui sorprenderla e fare colpo su di lei.