Operazione Presidente

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CAPITOLO TRE

8:03 ora della costa orientale

Studio Ovale

Casa Bianca, Washington DC

“Che malefico bastardo,” disse qualcuno nella stanza. “Ha rubato, chiaro e semplice.”

Susan Hopkins era in piedi nel centro dell’ufficio e fissava il grande pannello televisivo piatto sulla parete. Era ancora intorpidita, quasi sotto shock. Anche se osservava con attenzione, aveva problemi a formare dei pensieri chiari. Era troppo da processare.

Era ben consapevole del completo che indossava. Era blu con una camicia elegante bianca. Era un po’ scomodo. Un tempo le era stato bene – anzi, era stato fatto su misura perché le andasse alla perfezione – ma oggi era chiaro che il suo corpo stava cambiando. Adesso l’abito le cadeva male. Le spalline della giacca erano troppo allentate, i pantaloni troppo stretti. Le spalline del reggiseno le pizzicavano la carne della schiena.

Troppi pasti a tarda notte. Troppo poco sonno. Troppa poca ginnastica.

Sospirò pesantemente. Quel lavoro la stava uccidendo.

Ieri, in quello stesso momento, appena aperti i seggi, lei era stata tra le prime persone degli Stati Uniti a votare. Era uscita dalla cabina elettorale con un gran sorriso in volto e un pugno in aria – immagine colta dalle telecamere e dai fotografi, e che era stata virale per tutto il giorno. Aveva cavalcato un’ondata di ottimismo fino al giorno delle elezioni, e gli exit poll della mattina precedente avevano fissato il supporto a lei a più del sessanta per cento di probabili votanti – una possibile vittoria schiacciante in corso.

E adesso questo.

Mentre guardava, il suo avversario, Jefferson Monroe, prese il palco nel suo quartier generale di Wheeling, Virginia Occidentale. Anche se erano le otto del mattino, c’era comunque una folla di supporter e addetti alla campagna. Ovunque le telecamere facessero una panoramica nella folla si vedevano alti cappelli alla Abramo Lincoln rossi, bianchi e blu – in qualche modo erano diventati l’emblema della campagna di Monroe. Quelli, e gli aggressivi cartelli divenuti il grido di guerra della sua campagna: L’AMERICA È NOSTRA!

Nostra? Che voleva dire? E contro chi? A chi altri doveva appartenere?

Sembrava chiaro: le minoranze, i non cristiani, i gay… i soliti. In particolare, era chiaro che si parlava dei cinesi immigrati in America, così come dei cinesi americani. Qualche settimana prima i cinesi avevano minacciato di chiedere il pagamento del debito e potenzialmente causare la bancarotta degli Stati Uniti. Ciò aveva permesso a Monroe di cavalcare un’ondata di paura cinese negli ultimi giorni della sua elezione. Monroe prosperava sulla paura – sulla paura cinese, in particolare. Stando a lui quella gente si comportava come il burattino segreto delle ambizioni imperialistiche del governo di Pechino e degli oligarchi cinesi che stavano acquistando ampi spazi di interessi commerciali e immobiliari americani. Stando a lui, se non ci facevamo duri i cinesi si sarebbero presi l’America.

La gente se l’era bevuta.

Gli arcinemici di Jefferson Monroe, e i nemici dei suoi supporter, erano i cinesi. I cinesi erano la grande nemesi dell’America, e quella testa vuota dell’ex modella alla Casa Bianca non aveva occhi per vederlo, o era una collaboratrice dei cinesi venduta.

Monroe fissò la folla con i suoi incassati occhi di ghiaccio. Aveva settantaquattro anni, i capelli bianchi, un viso rugoso e segnato dal tempo – un viso che sembrava molto più vecchio dei suoi anni. A giudicare dalla sua sola faccia, poteva avere cent’anni, o mille. Però era alto, e stava bello dritto. A detta di tutti dormiva tre o quattro ore a notte, ed era tutto quello che gli serviva.

Indossava una camicia bianca appena inamidata aperta sulla gola, senza cravatta – un altro suo marchio di fabbrica. Era miliardario, o quasi, ma era l’uomo della gente, per Dio! Un uomo venuto dal nulla. Povero in canna, originario delle montagne della Virginia Occidentale. Un uomo che, nonostante il recente benessere, aveva disprezzato i ricchi per tutta la vita. Un uomo che, più di tutto, disprezzava i liberali, soprattutto nordorientali, e in particolare i newyorkesi. Niente pantaloni costosi, abito da politicante di Washington DC e cravatta da conservatore per lui. In qualche modo era riuscito a mettere convenientemente in ombra il fatto di essere lui stesso il sommo politicante di Washington, avendo trascorso ventiquattro anni nel Senato degli Stati Uniti.

Susan pensava che ci fosse un pizzico di verità nei suoi scimmiottamenti. Aveva vissuto dei primi anni poverissimi nell’Appalachia – questo si sapeva. E si era fatto strada fuori di lì con le unghie e con i denti. Ma non era amico dell’uomo comune, né della donna. Per orchestrare la salita, fin dai primi tempi si era sempre allineato con gli elementi più arretrati della società americana. Era stato un teppista di Pinkerton da giovane, attaccava gli scioperi dei minatori di carbone con mazze e manici di mannaie. Aveva passato tutta la sua carriera nel taschino degli interessi dei maggiori produttori di carbone, sempre combattendo per una minore regolamentazione, meno sicurezza sul posto di lavoro, e meno diritti per i lavoratori. Ed era stato premiato meravigliosamente per i suoi sforzi.

“Ve l’avevo detto,” disse nel microfono.

La folla eruttò in esultazioni rauche.

Monroe le fece scemare con un gesto della mano. “Ve l’avevo detto che ci saremmo ripresi l’America.” Le esultazioni ricominciarono. “Io e voi!” urlò Monroe. “Ce l’abbiamo fatta!”

Adesso l’esultanza cambiò, trasformandosi gradualmente in uno slogan, uno slogan che a Susan era fin troppo familiare. Aveva una cadenza strana, quello slogan, come un valzer o una specie di botta e risposta.

“L’AMERICA È NOSTRA! L’AMERICA È NOSTRA! L’AMERICA È NOSTRA!”

Andò avanti all’infinito. Il rumore a Susan fece venire il mal di stomaco. Almeno non avevano cominciato con gli slogan ‘Sbattiamola fuori!’ che per un po’ erano stati popolari. La prima volta che li aveva sentiti era quasi arrivata alle lacrime. Sapeva che molte delle persone coinvolte probabilmente si stavano solo mettendo in mostra. Però almeno alcuni di quei pazzi volevano davvero appenderla, presumibilmente perché era una traditrice in lega con i cinesi. Il pensiero le lasciava dentro un vuoto.

“Basta fabbriche vuote!” urlò Monroe. Adesso fu il suo turno di sollevare in aria un pugno trionfante. “Basta città guidate dal crimine! Basta oscenità umane! Basta tradimenti cinesi!”

“BASTA!” rispose la folla all’unisono, un altro dei loro slogan preferiti. “BASTA! BASTA! BASTA!”

Kurt Kimball, frizzante, attento, grosso e forte come sempre, con una testa assolutamente calva, si mise davanti alla tv e usò il telecomando per togliere il sonoro.

Fu come se fosse stato rotto un incantesimo. Improvvisamente Susan fu di nuovo del tutto consapevole di ciò che la circondava. Era lì, nel salottino dello Studio Ovale con Kurt e la sua fidata assistente Amy, Kat Lopez, il segretario della Difesa Haley Lawrence e pochi altri. Quelli erano alcuni dei più fidati consiglieri di Susan.

Su un monitor a circuito chiuso c’era la vicepresidente di Susan, Marybeth Horning. Dopo il disastro di Mount Weather erano cambiati i protocolli di sicurezza. Marybeth e Susan non dovevano mai trovarsi nello stesso posto nello stesso momento. Ed era un peccato.

Marybeth era un’eroina per Susan. Era l’ex senatrice ultraliberale del Rhode Island che aveva tenuto corsi alla Brown per più di due decenni. Sembrava timida e fragile, con un caschetto di capelli grigi e occhiali dalla montatura rotonda da nonna.

Ma l’abito, in quel caso, non faceva il monaco. Era anche una tempestosa aizzatrice per i diritti dei lavoratori, delle donne, dei gay e dell’ambiente. Era la mente dell’iniziativa di successo sulla sanità che aveva lanciato l’amministrazione di Susan. Marybeth era nello stesso tempo un modesto genio, una storica e una feroce lottatrice politica dai denti aguzzi.

Altra cosa triste: Marybeth viveva nella vecchia casa di Susan sulla proprietà dell’Osservatorio navale. Quella casa era uno dei posti preferiti di Susan al mondo. Sarebbe stato bello andarci una volta ogni tanto.

“È un problema,” disse Kurt Kimball indicando la tv muta.

Susan quasi rise. “Kurt, ho sempre ammirato il tuo dono per la minimizzazione.”

Jefferson Monroe aveva fatto la promessa in campagna elettorale – la promessa! – che si sarebbe presentato al Congresso a caccia di una dichiarazione di guerra contro la Cina nel suo primo giorno ufficiale di presidenza. Anzi, e la maggior parte della gente aveva difficoltà a prendere la cosa seriamente, aveva insinuato che la prima mossa dell’esercito americano sarebbe consistita in attacchi tattici nucleari contro le isole artificiali della Cina nel Mar Cinese Meridionale. Aveva anche promesso che avrebbe fatto erigere dei muri di sicurezza attorno alle Chinatown di New York, Boston, San Francisco e Los Angeles. Aveva detto che avrebbe chiesto ai canadesi di fare lo stesso a Vancouver e a Calgary.

I canadesi, naturalmente, si erano mostrati riluttanti.

“Il paese è impazzito,” disse Kurt. “E ci si aspetta che Monroe le chieda ancora di tenere il discorso della sconfitta, Susan.”

Kat Lopez scosse la testa. In quanto capo di gabinetto di Susan, Kat era maturata e si era fatta sicura di sé negli ultimi due anni. Era anche invecchiata di una decina d’anni. Quando era arrivata era una trentasettenne giovanile e bella in modo surreale – adesso dimostrava i suoi trentanove anni pieni, e anche qualcosa di più. Le erano apparse in volto delle rughe, il grigio stava invadendo il nero corvino dei capelli.

 

“Glielo sconsiglio, Susan,” disse. “Abbiamo prove di estesa soppressione del voto di minoranze in cinque stati del Sud. Abbiamo il sospetto di una vera e propria manomissione delle macchine elettorali in Ohio, in Pennsylvania e nel Michigan. Il conteggio in molti posti è ancora troppo vicino perché la partita si possa considerare chiusa – solo perché le stazioni televisive hanno dichiarato suoi questi stati, non significa che dobbiamo farlo anche noi. Possiamo trascinare questa cosa per settimane, se non per mesi.”

“E causare una crisi di successione,” disse Kurt.

“Possiamo fronteggiarla,” disse Kat. “Ne abbiamo viste di peggiori. L’insediamento non si terrà che il venti gennaio. Se ci vuole così tanto, che così sia. Guadagniamo tempo. Se ci sono stati brogli, i nostri analisti lo scopriranno. Se c’è stata soppressione del voto come pensiamo, ci saranno cause legali. Nel frattempo governiamo ancora noi.”

“Su questo sono d’accordo con Kat,” intervenne Marybeth dal monitor. “Io dico che combattiamo finché non cadiamo.”

Susan guardò Haley Lawrence. Era alto e robusto, con scarmigliati capelli biondi. Aveva il completo così spiegazzato che sembrava quasi che ci fosse svenuto dentro. Sembrava essersi svegliato appena dieci minuti prima da un incostante sonno pieno di incubi. Tranne che per l’altezza uguale, lui e Kurt Kimball nell’aspetto erano quasi agli antipodi.

“Haley, sei tu l’unico repubblicano della stanza,” disse Susan. “Monroe è del tuo partito. Voglio sapere che cosa pensi tu della cosa, prima di decidere.”

Lawrence si prese un lungo momento prima di rispondere. “Non penso che Jefferson Monroe sia davvero un repubblicano. Le sue idee sono molto più radicali che conservatrici. Si circonda di gang di giovani teppisti. Ha trascorso l’ultimo anno facendo leva sulle più ingenue e basilari nozioni della gente rabbiosa e risentita. È un pericolo per la pace mondiale, per l’ordine sociale e per gli stessi ideali sui quali è stato fondato questo paese.”

Haley fece un respiro profondo. “Odierei vedere lui e i tipi come lui occupare questo ufficio e questo edificio, anche se si scopre che ha vinto davvero. Se fossi in lei, lo ostacolerei il più a lungo possibile.”

Susan annuì. Era quello che voleva sentire. Era ora di prepararsi alla battaglia. “Ottimo. Non terrò il discorso della sconfitta. Non ce ne andiamo da nessuna parte.”

Kurt Kimball sollevò una mano. “Susan, sarò d’accordo con qualsiasi cosa lei voglia fare, fin quando avrà presente le potenziali conseguenze di queste azioni.”

“Quali sono?”

Cominciò a enumerarle sulle dita, in quello che non sembrava un ordine specifico, come se fosse pronto a descriverne ciascuna come gli venivano in mente.

“Non sostenendo volontariamente la carica, sta rompendo una tradizione di due secoli. Verrà chiamata traditrice, usurpatrice, aspirante dittatrice, e probabilmente di peggio. Infrangerà la legge, e alla fine potrebbero esser mosse contro di lei delle accuse formali. Se non sorgono prove di brogli elettorali, lei farà la figura della vanesia e della sciocca. Potrebbe danneggiare il suo posto nei libri di storia – in questo momento ha una reputazione eccellente.”

Adesso sollevò la mano Susan.

“Kurt, comprendo le conseguenze,” disse, e fece un respiro profondo.

“E io dico, portiamole in scena.”

CAPITOLO QUATTRO

11 novembre

16:15 ora della costa orientale

Cimitero di Mount Carmel

Reston, Virginia

Una sola rosa rossa, appena recisa, giaceva sull’erba marrone. Luke fissò il nome e l’epitaffio incisi sul marmo nero luccicante.

REBECCA ST. JOHN

Vivere, ridere, amare.

La tetra giornata uggiosa stava già svanendo e arrivava la sera. Sentì un brivido attraversalo. Era stanchissimo per il lungo viaggio di ritorno all’est. Si era anche rasato, aveva i capelli corti – non era più protetto dal freddo dalla criniera ispida. Distolse lo sguardo dalla pietra e guardò il cimitero, righe su righe di lapidi che coprivano i pendii tondeggianti in una zona tranquilla dei sobborghi di Washington DC.

Sollevò lo sguardo sul cielo grigio piombo. Quando si erano sposati, Becca aveva preso il suo cognome. Apparentemente aveva scelto di scendere nella tomba con il suo cognome da nubile. La cosa lo aveva bruciato, nel profondo. La loro rottura era stata completa. Quasi agitò il pugno contro il cielo, contro Becca, ovunque si trovasse adesso.

La odiava? No. Però lo aveva fatto arrabbiare moltissimo. Lo aveva incolpato di tutto ciò che era andato male nel loro matrimonio, fino a includere la sua stessa morte di cancro.

Sulla strada del cimitero, appena giù dalla collina a un centinaio di metri di distanza, una limousine nero corvino accostò di fronte all’anonima berlina a noleggio di Luke. Mentre osservava, un autista con giacca e berretto neri aprì la portiera posteriore.

Ne emersero due figure. Una era un giovane, che si stava facendo alto quanto il padre. Il ragazzo indossava jeans, sneakers, una camicia e una giacca a vento. L’altra figura era un’anziana, appena piegata, con addosso un lungo e pesante cappotto di lana contro l’aria umida dell’autunno. Luke non doveva indovinare chi fossero – lo sapeva già.

Luke aveva imbrogliato. Certo che lo aveva fatto. Quindici minuti prima aveva seguito quella stessa limousine. Quando aveva capito dove stavano andando, aveva deciso di batterli sul tempo. I due che adesso procedevano lentamente su per il sentiero, a braccetto, erano Audrey, la madre settantaduenne di Becca, e Gunner, il figlio tredicenne di Luke e Becca.

Luke distolse lo sguardo un attimo mentre si avvicinavano, scrutando l’orizzonte come se là fuori lo interessasse qualcosa. Quando si voltò di nuovo erano quasi arrivati. Li osservò arrivare. Audrey si muoveva lentamente, studiandosi i piedi con cautela quando toccavano terra – dimostrava più anni di quanti ne aveva. Gunner camminava goffamente con lei, sostenendola. Il lento passo sembrava che gli avrebbe fatto perdere l’equilibrio – era come un giovane puledro intrappolato in una stalla, tutto energia frustrata, smanioso di sprigionare la sua velocità e il suo potere.

Gunner guardò Luke interrogativamente, ma solo per qualche secondo. Erano passati quasi due anni dall’ultima volta che si erano visti – un’immensa quantità di tempo alla sua età – e per un attimo fu chiaro che non sapeva chi fosse Luke. Il volto gli si oscurò quando si accorse di guardare suo padre. Poi guardò a terra.

Audrey seppe subito chi era Luke.

“Posso aiutarti?” disse prima ancora di raggiungere la lapide.

“Tu no,” disse Luke. Audrey e suo marito Lance non lo avevano mai accettato come genero. Erano stati un’influenza tossica nel suo matrimonio da ben prima che lui e Becca si scambiassero i voti. Luke a Audrey non aveva niente da dire.

“Che ci fai qui, papà?” disse Gunner. Adesso aveva la voce più profonda. Sulla gola aveva la sporgenza del pomo d’Adamo – prima non c’era.

“Sono stato chiamato qui dalla presidente. Ma volevo prima vedere te.”

“La tua presidente ha perso,” disse Audrey. “Si è rintanata nella Casa Bianca come una pazza, rifiutandosi di ammettere la sconfitta. Ho sempre saputo che aveva qualcosa di sospetto. Adesso è sotto gli occhi di tutto il mondo. Sperava di diventare imperatrice?”

Luke guardò Audrey, con calma, esaminandola. Aveva occhi infossati con le iridi così scure da sembrare quasi nere. Aveva un naso aguzzo, come un becco. Aveva le spalle curve, e le mani erano incredibilmente fragili. Le ricordava un uccello – un corvo, o magari un avvoltoio. Un mangiatore di carogne, comunque.

“Ha perso,” disse di nuovo Audrey. “Deve farsene una ragione e prepararsi a consegnare il potere al vincitore.”

“Gunner?” disse Luke, ora ignorando Audrey. “Possiamo parlare?”

“Avevo detto senza mezzi termini a Rebecca di non sposarti. Le avevo detto che sarebbe finita in modo disastroso. Ma non avevo mai neanche immaginato che si sarebbe arrivati a questo.”

“Gunner?” ripeté Luke, ma adesso il ragazzino guardava altrove. Luke vide una lacrima scendergli giù per il viso. Il ragazzino deglutì a fatica.

“Voglio solo scusarmi.”

Le parole gli uscirono sbagliate. Scusarsi? Le scuse non bastavano. Luke lo sapeva. Ci sarebbe voluto ben più delle scuse per sistemare di nuovo la situazione, se mai fosse stato possibile. Voleva dirlo a Gunner. Voleva dirgli che avrebbe fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, se solo gli avesse permesso di tornare nella sua vita.

Aveva commesso un errore terribile. Avrebbe trascorso il resto della vita su quello. Lo avrebbe sistemato.

Gunner lo guardò, ora piangendo apertamente. Le lacrime gli scendevano a fiumi giù per il viso. “Non voglio parlarci con te.” Scosse la testa. “Non voglio vederti. Voglio solo dimenticarti, non lo vedi?”

Luke annuì. “Ok. Ok, lo rispetto. Ma sappi che ti voglio bene e che sono sempre aperto a sentirti. Hai ancora il mio numero? Puoi chiamarmi se cambi idea.”

“Non ho il tuo numero,” disse Gunner. “E non cambierò idea.”

Luke annuì di nuovo. “In questo caso, ti lascio stare.”

La voce di Audrey seguì Luke giù per il sentiero. “Mi pare una buona idea,” disse. “Lascia stare il ragazzo.” Poi rise, un gracchio folle che sarebbe sembrato un tossire se Luke non lo conoscesse già.

“Lasciaci stare con la nostra morta.”

Luke andò alla sua auto, ingranò la marcia e fu quasi ai cancelli del cimitero prima di cominciare a piangere anche lui.

CAPITOLO CINQUE

16:57 ora della costa orientale

Bubba’s Lounge

Chester, Pennsylvania

Nessuno ricordava chi fosse Bubba.

La piccola taverna si trovava a un angolo di strada all’estremità sudorientale di Chester, vicino al fiume, da dopo la seconda guerra mondiale. In vari momenti dieci diverse persone ne erano state i proprietari, e si era sempre chiamata Bubba, per quanto ci si ricordasse. Ma nessuno sapeva perché.

“Immagino che getterà la spugna,” disse un uomo al bar.

“È solo questione di tempo,” disse un altro.

Oggi al bar c’era Marc Reeves. Marc era un veterano, sessantasette anni. Da venticinque anni di tanto in tanto spillava birra in quel bar, e ormai era sopravvissuto a tre titolari. Aveva visto la città fallire completamente, da quel bar. In una città dove praticamente tutto era stato sprangato o presto lo sarebbe stato, il Bubba era un successo. Però nessuno lo teneva a lungo.

Il locale era anche andato in fallimento – questo era il problema. Non perdeva soldi, non faceva soldi. Era meglio lavorarci, o venirci a bere, che esserne il proprietario. Almeno ti tornava qualcosa per i fastidi.

C’era un grosso e vecchio televisore a colori montato su una barra di ferro dietro al bar. A quell’ora del pomeriggio il locale aveva quattro o cinque bevitori giornalieri allineati sul bancone per buttar via gli assegni della previdenza sociale e ciò che rimaneva del fegato. Di solito la televisione era sintonizzata su una partita qualsiasi. Oggi però era diverso. Oggi la presidente teneva la prima conferenza stampa da quando aveva perso le elezioni.

Marc l’aveva guardata con scetticismo quando aveva assunto la carica, soprattutto considerando le circostanze, ma aveva cominciato a piacergli. Pensava che avesse fatto un buon lavoro, tutto sommato. Lei, e il paese, avevano fronteggiato molte tempeste. Quindi il giorno precedente aveva fatto una cosa che faceva raramente – aveva votato per lei. Erano dodici anni che non metteva piede in un seggio elettorale.

Non tutti erano d’accordo con la sua decisione.

“Il nuovo mi piace,” disse uno grasso lungo il bancone. Tutti lo chiamavano Skipper. Probabilmente non aveva mai visto una barca in vita sua. “Che cos’ha mai fatto Susan Hopkins per Chester, Pennsylvania? È questo che voglio sapere. Comunque è ora che qualcuno metta un freno a questa invasione di cinesi.”

“E che ci ridia il lavoro, visto che ci sei,” disse un uomo che si chiamava Steve-O. Steve-O era così magro da essere come uno di quei scovolini per pipa fatti a forma di omino. Entrava lì a bere birra e bourbon ogni singolo giorno. Marc non aveva mai visto Steve-O mandar giù un boccone. Sembrava sopravvivere di solo alcol.

Marc stava asciugando i bicchieri da birra appena usciti dalla lavastoviglie. “Steve-O, hai la disabilità da vent’anni.”

 

“Non intendevo dire il mio lavoro,” disse Steve-O.

Qualcuno rise.

In tv apparve un podio vuoto. Era fiancheggiato da bandiere americane.

“Signore e signori,” disse una voce sommessa, “la presidente degli Stati Uniti.”

Susan Hopkins salì sul palco da destra. Indossava un tailleur con pantalone marrone chiaro, i capelli in un corto caschetto biondo. Bellissima. Marc se la ricordava ai tempi in cui faceva la modella, in particolare una certa edizione in costume da bagno di Sports Illustrated di venticinque anni prima. All’epoca stava raggiungendo la mezza età, era sposato con figli. C’era qualcosa che spezzava il cuore in quello scatto – lei era eterea, irraggiungibile, di un altro mondo. Non aveva parole per quello che era. E, comunque, adesso era anche meglio – più terra terra, più matura. A Marc piacevano le donne con un certo chilometraggio.

“Levatelo, tesorino!” disse Steve-O strappando qualche risata agli altri.

Marc aveva servito a Steve-O sei shot e sei birre nelle ultime due ore. Adesso avrebbe detto che Steve-O era visibilmente ubriaco. E stava cominciando a dargli sui nervi. “Adesso basta, Steve-O.”

Steve-O lo guardò. “Cosa?”

“Chiudi la bocca o va’ a casa. È questo che sto dicendo.”

Marc tornò a voltarsi verso lo schermo televisivo. La Hopkins non aveva ancora detto nulla. Sembrava trattenere un’emozione. Era la fine, allora. Stava per fare il discorso della sconfitta. Era sembrata popolare, però alla fine era stata una presidente da una sola legislatura – e nemmeno completa.

“Miei connazionali americani,” disse.

Il bar ammutolì. La stanza da dove parlava era quasi silenziosa – Marc riusciva a sentire il ronzio e gli scatti delle macchine fotografiche.

“Esporrò i miei commenti con brevità. È stata una campagna elettorale combattuta a fatica tra due visioni dell’America molto diverse. Una visione è di ottimismo, comprensione e orgoglio per ciò che abbiamo compiuto come nazione. L’altra è un’oscura visione di pericolo, disperazione, risentimento e paranoia, persino, che vede la nostra nazione come un paesaggio rovinato che può essere salvato attraverso gli sforzi di un solo uomo. E promette violenza – violenza contro il nostro partner commerciale più importante, così come violenza contro le nostre comunità, i nostri vicini, e i nostri amici.

“Sono sicura che sapete quale visione abbraccio io. Non posso accettare una visione del mondo basata su razzismo, pregiudizio e diffidenza. Eppure, nonostante i miei timori, in circostanze normali ora avrei il compito di congratularmi con l’apparente vincitore di questa gara, e di dare il benvenuto al presidente eletto, preparandomi graziosamente per il pacifico trasferimento di potere che costituisce un tratto caratteristico della nostra democrazia.”

Fece una pausa. “Ma queste non sono circostanze normali.”

Marc si tirò dritto. Sentì un fremito lungo la spina dorsale. Guardò gli uomini allineati al bar. Ciascuno di loro adesso era incollato al televisore. Ciascuno di loro improvvisamente era attento, come un animale prima di una tempesta in avvicinamento. Che stava dicendo?

“La mia campagna ha scoperto prove di irregolarità nelle elezioni in almeno cinque stati, inclusa soppressione di voto, ma anche aperta manomissione e potenziale hackeraggio delle macchine elettorali. Abbiamo ragione di credere che le elezioni siano state rubate, non solo alla nostra campagna, ma al popolo americano. Abbiamo già contattato l’FBI e il dipartimento di Giustizia per queste nostre preoccupazioni, e intendiamo assistere a una piena e imparziale indagine. Finché questa non sarà completata – per quanto ci voglia – non posso e non riconoscerò i risultati delle elezioni, e continuerò a svolgere i doveri di presidente degli Stati Uniti, portando a termine il mio giuramento di proteggere e sostenere la Costituzione. Grazie.”

In tv, la presidente Hopkins si spostò verso destra e uscì dallo schermo. Ci fu un balbettio di voci mentre i reporter urlavano, gareggiando gli uni con gli altri per avere la sua attenzione. Scoppiarono i flash. Il televisore passò a una telecamera diversa, questa concentrata sulla presidente che veniva fatta uscire di fretta da una porta laterale dietro a un mare di grossissimi agenti dei servizi segreti. Non aveva risposto a una singola domanda.

“Che significa?” disse Steve-O. “Può farlo?”

Nessuno disse una parola.

Marc continuò ad asciugare i bicchieri di birra. Nemmeno lui conosceva la risposta a quella domanda.