La caccia di Zero

Text
0
Kritiken
Leseprobe
Als gelesen kennzeichnen
Wie Sie das Buch nach dem Kauf lesen
Schriftart:Kleiner AaGrößer Aa

“Grazie, John. Davvero.”

“Non ringraziami ancora. Abbiamo appena iniziato.” Il telefono di Watson gli vibrò nella tasca. “Deve essere Cartwright. Dammi un minuto.” Si ritirò in un angolo per rispondere alla chiamata a bassa voce.

Reid richiuse la borsa e il bagagliaio. Allo stesso tempo il meccanico grugnì, emettendo un suono tra un borbottio e un colpo di tosse.

“Ha… ha detto qualcosa?”

“Ho detto che mi spiace. Per le sue figlie.” L’espressione di Mitch era ben nascosta dalla barba folta e dal cappello, ma il tono della sua voce sembrava sincero.

“Sa già… di loro?”

L’uomo annuì. “Sono già apparse al telegiornale. Le loro foto e una linea verde da chiamare in caso qualcuno le avvisti.”

Reid si morse il labbro. Non aveva pensato alla stampa e alla pubblicità… e all’invariabile collegamento a lui. Subito pensò a Linda, la zia delle ragazze che viveva a New York. Quel genere di notizie si spargevano in fretta, e se fosse arrivata fino a lei sarebbe morta di spavento. Avrebbe cominciato a tempestarlo di telefonate per ricevere notizie, ma inutilmente.

“Abbiamo qualcosa,” annunciò Watson all’improvviso. “Il pick-up di Thompson è stato ritrovato in un’area di sosta a un centinaio di chilometri da qui sulla I-95. C’era il cadavere di una donna sulla scena. Le hanno tagliato la gola e rubato l’auto e la carta d’identità.”

“Quindi non sappiamo chi fosse?”

“Non ancora ma ci stiamo lavorando. Ho un tecnico che sta ascoltando le onde radio della polizia e tenendo d’occhio i satelliti. Non appena qualcuno saprà qualcosa, ci informeranno.”

Reid grugnì. Senza un documento d’identità non sarebbero riusciti a trovare il suo mezzo. Non era una gran pista, ma almeno era qualcosa e lui non vedeva l’ora di mettersi in strada. Aprì la porta della Trans Am e chiese: “Quale uscita?”

Watson scosse la testa. “Non andare là, Kent. Sarà pieno di poliziotti e sono sicuro che anche l’agente Strickland sia diretto sulla scena.”

“Farò attenzione.” Non si fidava della polizia e di quell’agente novellino. Avrebbe trovato più indizi di loro. Oltretutto se Rais voleva giocarsela come credeva, avrebbe potuto esserci un’altra traccia sotto forma di provocazione, un insulto inteso solo per lui.

Ripensò alla foto delle sue figlie, quella che Rais gli aveva mandato dal telefono di Maya, e gli tornò in mente una cosa. “Ecco, tieni questo per me.” Gli affidò il suo cellulare privato. “Rais ha il numero di Sara, e io ho dirottato le sue chiamate sul mio. Se dovessi ricevere qualsiasi cosa, voglio esserne informato.”

“Certo. La scena del crimine è all’uscita sessantatré. Ti serve altro?”

“Non dimenticarti di dire a Maria di chiamarmi.” Si accomodò dietro il volante dell’auto sportiva e gli fece un cenno di saluto. “Grazie per tutto l’aiuto.”

“Non lo sto facendo per te,” gli ricordò l’altro impassibile. “Lo faccio per quelle ragazzine. E Zero? Se mi scoprono, se la mia copertura venisse compromessa, o se capiscono che cosa sto facendo con te, mi tiro fuori. Hai capito? Non mi posso permettere di finire sulla lista nera dell’agenzia.”

La reazione istintiva di Reid fu uno scatto d’ira—qui si tratta delle mie bambine e lui ha paura di finire sulla lista nera?—ma lo soffocò in fretta. Watson era un alleato inaspettato in quella situazione, e stava rischiando grosso per aiutarlo. O meglio, non per aiutare lui ma due bambine che aveva incontrato solo brevemente.

Annuì serio. “Lo capisco.” Rivolto al meccanico solenne e di poche parole aggiunse: “Grazie, Mitch. Apprezzo il suo aiuto.”

L’uomo barbuto grugnì in risposta e premette un pulsante per aprire il portello del garage mentre Reid metteva in moto la Trans Am. Gli interni dell’auto erano in pelle nera, puliti e dall’odore gradevole. Il motore faceva le fusa sotto il cofano. Un modello del 1987, lo informò il suo cervello. Un motore V8 da 5.0 litri. Almeno duecentocinquanta cavalli.

Uscì dal Third Street Garage e si diresse verso l’autostrada, con le mani strette attorno al volante. Una ferrea determinazione aveva preso il posto degli orrori che gli avevano riempito la mente fino a poco prima. La polizia aveva creato un numero verde e stava indagando. La CIA era al lavoro per identificare il rapitore. Adesso lui stesso si era messo in moto per ritrovare le ragazze.

Sto arrivando. Papà sta venendo a prendervi.

E a occuparsi di lui.

CAPITOLO CINQUE

“Dovreste mangiare.” L’assassino indicò il cartone di cibo cinese d’asporto sul comodino accanto al letto.

Maya scosse la testa. Ormai il cibo si era raffreddato, e comunque non aveva fame. Era seduta sul materasso con le ginocchia sollevate, la sorella appoggiata a lei con la testa sul suo grembo. Le due ragazzine erano ammanettate insieme, il polso sinistro di Maya a quello destro di Sara. Lei non aveva idea da dove l’assassino avesse preso le manette, ma le aveva avvertite diverse volte che se una di loro avesse tentato di scappare o di far rumore, l’altra ne avrebbe subito le conseguenze.

Rais era seduto su una poltrona accanto alla porta. Erano in una squallida stanza di motel dai tappeti arancioni e le mura gialle. C’era odore di muffa e il bagno puzzava di candeggina. Erano lì da ore; il vecchio orologio appoggiato vicino al letto diceva in numeri rossi a LED che erano le due e mezza del mattino. La televisione era accesa, sintonizzata su un notiziario con il volume basso.

Una station wagon bianca era parcheggiata direttamente davanti alla porta, a un metro di distanza; l’assassino l’aveva rubata nella notte da un rivenditore di macchine usate. Era stata la terza volta che cambiavano auto quel giorno. Prima il pick-up di Thompson poi la berlina blu e ora a quel SUV bianco. Ogni volta che lo facevano, Rais cambiava direzione, prima andando a sud, poi tornando a nord, e infine girando a nord-est verso la costa.

Maya aveva capito che cosa stava facendo: era il gioco del gatto con il topo. Lasciava i veicoli rubati in posti diversi in modo che le autorità non avessero idea di dove stessero andando. La loro stanza di motel era a meno di quindici chilometri da Bayonne, poco distante dal confine con New Jersey e New York. Il motel stesso era un edificio lungo e basso talmente malconcio e disgustoso che passandoci davanti si aveva l’impressione che fosse chiuso da anni.

Nessuna delle due ragazze aveva dormito molto. Sara aveva schiacciato qualche pisolino tra le braccia di Maya, perdendo i sensi per venti o trenta minuti alla volta prima di svegliarsi di colpo con un singhiozzo, sfuggendo ai propri sogni per ricordarsi dove fosse in realtà.

Maya aveva lottato contro la stanchezza, cercando di rimanere vigile il più a lungo possibile. Sapeva che a un certo punto anche Rais avrebbe dovuto dormire, e ciò gli avrebbe lasciato qualche minuto prezioso per provare a scappare. Ma il motel era nel bel mezzo di una zona industriale. Quando si erano fermati si era accorta che non c’erano case vicine e a quell’ora di notte nessun negozio era aperto. Non era neanche sicura di aver visto qualcuno nell’ufficio dell’albergo. Non sarebbero potute andare da nessuna parte. Si sarebbero perse nella notte, rallentate dalle manette.

Alla fine aveva ceduto alla fatica e a malincuore si era addormentata. Dopo meno di un’ora si era svegliata di soprassalto, e poi aveva sobbalzato di nuovo quando aveva visto Rais seduto in poltrona a mezzo metro da lei.

La stava fissando con concentrazione, i suoi occhi sgranati. La fissava e basta.

Le fece accapponare la pelle… fino a quando non passò un intero minuto, e poi un altro. Maya lo fissò a sua volta, lo spavento mescolato alla curiosità. Poi capì.

Dorme con gli occhi aperti.

Non sapeva se trovava più inquietante quello o svegliarsi sotto il suo sguardo attento.

Ma poi Rais batté le palpebre e lei dovette trattenere un ennesimo sussulto, con il cuore che le batteva forte nel petto.

“Nervi facciali danneggiati,” spiegò l’uomo a bassa voce, quasi in un bisbiglio. “Ho sentito che può essere piuttosto destabilizzante.” Indicò il cartone dell’asporto cinese che aveva ordinato in camera ore prima e ripeté. “Dovresti mangiare.”

Lei scosse la testa, stringendosi Sara in grembo.

Alla televisione a basso volume stavano ripetendo le principali notizie della giornata. Un’organizzazione terroristica era stata ritenuta responsabile del rilascio di un ceppo letale del virus del vaiolo in Spagna e altre parti d’Europa. Il loro leader, insieme al virus e vari membri dell’organizzazione, era stato preso e ora era in custodia. Quel pomeriggio gli Stati Uniti avevano rimosso ufficialmente il divieto di viaggio internazionale verso tutti i paesi, a eccezione del Portogallo, la Spagna e la Francia, dove si continuavano a trovare casi isolati del vaiolo mutato. Ma tutti sembravano certi che la World Health Organization avesse la situazione sotto controllo.

Maya aveva sospettato che il padre fosse stato mandato ad aiutare in quel caso. Si chiese se fosse stato lui a catturare il capo dell’organizzazione, e se fosse già tornato nel paese.

Si domandò anche se avesse già trovato il corpo del signor Thompson e se si fosse accorto che erano state rapite. O se chiunque si fosse accorto della loro sparizione.

Rais non si muoveva dalla sua poltrona gialla. Aveva un cellulare appoggiato su un bracciolo. Era un modello vecchio, praticamente preistorico per gli standard attuali, che serviva solo a chiamare e a mandare messaggi. Un cellulare usa e getta, così Maya li aveva sentiti chiamare nelle serie televisive. Non aveva un collegamento a internet né un GPS. Le sue serie le avevano insegnato che ciò significava che poteva essere rintracciato solo con il numero, che quindi bisognava avere.

 

A quanto pareva l’assassino stava aspettando qualcosa. Una chiamata o un messaggio. Maya voleva disperatamente sapere dove stavano andando, o anche solo se avevano una destinazione. Stava cominciando a pensare che Rais volesse che suo padre li trovasse, li rintracciasse, ma in ogni caso quell’uomo non pareva avere fretta di fare la sua mossa. Qual era il suo gioco? Avrebbe continuato a rubare auto e a cambiare direzione, eludendo le autorità nella speranza che suo padre li trovasse per primi? Avrebbero continuato a muoversi da un posto all’altro fino allo scontro finale?

All’improvviso uno squillo monotono si alzò dal cellulare usa e getta accanto a lui. Sara sobbalzò leggermente tra le sue braccia al suono acuto.

“Pronto.” Rais rispose con tono piatto. “Ano.” Si alzò dalla poltrona per la prima volta in tre ore, passando dall’inglese a una lingua sconosciuta. Maya conosceva solo l’inglese e il francese, e sapeva riconoscere qualche altra lingua sentendo parole e accenti, ma quella le mancava. Era gutturale, ma non del tutto sgradevole.

Russo? pensò. No. Polacco, forse. Non aveva senso tirare a indovinare. Non poteva esserne sicura, e saperlo non l’avrebbe aiutata a capire quello che stava dicendo.

Lo stesso origliò, notando l’uso frequente di suoni “z” e “-ski”, cercando di captare parole simili all’inglese, anche se non sembravano essercene.

Riuscì a identificare solo un nome, che le fece gelare il sangue nelle vene.

“Dubrovnik,” disse l’assassino, in tono d’assenso.

Dubrovnik? La geografia era una delle sue materie preferite; Dubrovnik era una città nel sud-ovest della Croazia, un porto famoso e una popolare destinazione turistica. Ma la cosa più importante era ciò che quella parola implicava.

Voleva dire che Rais aveva intenzione di portarle fuori dal paese.

“Ano,” ripeté (che sembrava una conferma; Maya intuì che fosse un “sì”). E poi: “Port Jersey.”

Durante tutta la conversazione udì solo quelle due parole inglesi, oltre a “pronto”, e le riconobbe facilmente. Il loro motel era già vicino a Bayonne, a un tiro di schioppo dal porto industriale chiamato Port Jersey. Lo aveva visto diverse volte, mentre attraversava il ponte per andare verso il Jersey da New York o viceversa. Era un vasto spazio pieno di container colorati per il trasporto merci, impilati uno sopra l’altro. Li aveva osservati svanire nella stiva buia delle grandi navi che li avrebbero trasportati dall’altra parte dell’oceano.

Il cuore le batté all’impazzata contro le costole. Le voleva portare fuori dagli Stati Uniti, caricandole a Port Jersey per un viaggio fino alla Croazia. E da lì… non aveva idea, e non l’avrebbe avuta nessun altro. Non avrebbero più potuto ritrovarle.

Non poteva permettere che accadesse. La sua determinazione a lottare si rafforzò; la decisione di ostacolare quella situazione tornò alla vita con un ruggito.

Il trauma causato dall’immagine di Rais che tagliava la gola alla donna nel bagno dell’area di sosta persisteva; lo rivedeva accadere ogni volta che chiudeva gli occhi. Lo sguardo morto e vuoto. La pozza di sangue che le arrivava quasi ai piedi. Ma poi toccò i capelli della sorella e capì che avrebbe accettato lo stesso destino se significava allontanare Sara da quell’uomo.

Rais continuò la sua conversazione nella lingua straniera, pronunciando frasi brevi e secche. Si voltò per scostare leggermente le pesanti tende, solo di un centimetro o due, per sbirciare fuori verso il parcheggio.

Le stava dando la schiena, forse per la prima volta da quando erano arrivati allo squallido motel.

Maya allungò una mano ed estrasse con molta attenzione il cassetto del comodino. Era l’unica cosa che riusciva a raggiungere, ammanettata alla sorella e senza alzarsi dal letto. Spostò nervosamente lo sguardo dalla schiena del suo rapitore al cassetto.

Dentro c’era una Bibbia, un volume vecchio con il dorso spaccato e quasi staccato. E vicino c’era una semplice biro blu.

La prese e chiuse subito il cassetto. Quasi nello stesso momento Rais si rigirò. Maya si paralizzò, stringendo la penna nel pugno chiuso.

Ma l’uomo non le stava prestando attenzione. Sembrava annoiato dalla telefonata, e ansioso di chiuderla. Qualcosa alla televisione attirò il suo sguardo per qualche secondo e la ragazza si nascose la biro nell’elastico in vita dei suoi pantaloni in flanella.

L’assassino grugnì un saluto poco entusiasta e spense il cellulare, buttandolo sul cuscino della poltrona. Si voltò verso di loro, studiandole una per una. Maya fissò dritta davanti a sé, con occhi più vacui possibile, fingendo di guardare il notiziario. Apparentemente soddisfatto, lui riprese posto in poltrona.

La ragazza accarezzò i capelli della sorella con la mano libera, mentre Sara fissava la televisione, o forse il vuoto, con gli occhi socchiusi. Dopo l’incidente nel bagno della stazione di servizio le erano servite ore per smettere di piangere, ma ormai giaceva immobile, con sguardo sperso e appannato. Sembrava svuotata.

Le mosse la mano su e giù per la schiena, tentando di consolarla. Non potevano comunicare. Rais aveva detto esplicitamente che non avevano il permesso di parlare, a meno che non avesse fatto loro una domanda. Non aveva modo per riferirle un messaggio e creare un piano.

Anche se… magari non dobbiamo per forza comunicare verbalmente, pensò.

Maya smise di toccarle la schiena per un istante. Quando ricominciò, usò il dito indice per tracciare la forma di una lettera tra le sue scapole, una grande S.

Sara alzò incuriosita la testa per un momento, ma non guardò verso la sorella né disse niente. Maya sperò disperatamente che avesse capito.

T, disegnò allora.

Poi una R.

Rais era seduto in poltrona nella visione periferica della ragazza. Non spostò mai lo sguardo su di lui per paura di attirare i suoi sospetto. Invece fissò dritta davanti a sé, come aveva fatto fino a quel momento, e disegnò le lettere.

I. N. G. I.

Mosse il dito con lentezza e deliberazione, fermandosi per un paio di secondi tra ogni lettera e cinque tra ogni parola, fino a tracciare tutto il suo messaggio.

Stringimi la mano se hai capito.

Maya non la vide nemmeno muoversi. Ma avevano le mani vicine, essendo ammanettate insieme, e sentì le sue dita fredde e bagnate chiudersi con forza sulle proprie per un istante.

Aveva capito. Aveva ricevuto il suo messaggio.

Ricominciò di nuovo, spostandosi il meno possibile. Non c’era fretta, e doveva essere certa che la sorella comprendesse ogni parola.

Se riesci, scrisse, scappa.

Non girarti.

Non aspettarmi.

Trova aiuto. Trova papà.

Sara rimase ferma, in silenzio e immobile, per tutto il messaggio. Mancava un quarto alle tre quando Maya finì. Poi percepì il tocco freddo di un dito sottile sul palmo della sua mano sinistra, nascosta in parte sotto la guancia della sorella. Il dito tracciò un disegno sulla sua pelle, la lettera N.

Non senza di te, disse Sara.

Maya chiuse gli occhi e sospirò.

Devi farlo, rispose a sua volta. O nessuna di noi avrà una chance.

Non lasciò alla sorella il modo di rispondere. Una volta finito il messaggio, si schiarì la gola e disse piano: “Devo andare in bagno.”

Rais sollevò le sopracciglia e indicò il bagno aperto all’estremità della stanza. “Prego.”

“Ma…” Maya alzò il polso ammanettato.

“Quindi?” domandò l’assassino. “Portala con te. Hai una mano libera.”

Lei si morse il labbro. Sapeva che cosa stava facendo; l’unica finestra del bagno era stretta, a malapena grande abbastanza perché riuscisse a passarci attraverso e del tutto impraticabile con la sorella ammanettata al braccio.

Si alzò lentamente dal letto, sospingendo Sara perché si muovesse con lei. La ragazzina più piccola si spostò in maniera meccanica, come se si fosse dimenticata l’uso degli arti.

“Avete un minuto. Non chiudete a chiave la porta,” le avvertì Rais. “Se lo fate la tirerò giù a calci.”

Maya si avviò e accostò la porta del minuscolo bagno, angusto per la presenza di entrambe. Accese la luce—abbastanza certa di aver visto uno scarafaggio correre a nascondersi sotto il lavandino—e attivò la ventola, che ronzò rumorosamente.

“Non lo farò,” bisbigliò quasi subito Sara. “Non andrò senza di…”

Maya si portò in fretta un dito alle labbra per segnalarle di fare silenzio. Per quel che ne sapevano, Rais era dall’altra parte della porta, con un orecchio appoggiato al legno. Quell’uomo non correva rischi.

Tirò fuori in fretta la biro dall’orlo dei pantaloni. Le serviva qualcosa su cui scrivere, e l’unico oggetto disponibile era la carta igienica. Ne strappò qualche riquadro e li sparse sul lavandino, ma ogni volta che ci premeva sopra la punta, la carta si strappava. Ci riprovò con diversi pezzetti, ma fu tutto inutile.

Così non funziona, pensò con amarezza. Le tende della doccia non sarebbero state d’aiuto; erano solo un telo di plastica appeso sopra la vasca. Non c’erano tendine sulla finestrella.

Ma c’era qualcos’altro che avrebbe potuto usare.

“Stai ferma,” bisbigliò all’orecchio della sorella. I pantaloni del pigiama di Sara erano bianchi e decorati con una stampa ad ananas, e avevano le tasche. Gliene rivoltò una all’esterno e con tutta la cura possibile la strappò, fino a quando non ebbe tra le mani un pezzo di stoffa triangolare, disegnato da un lato ma bianco dall’altro.

L’appiattì in fretta sul lavandino e scrisse sotto lo sguardo dell’altra ragazza. La penna continuava a incagliarsi sulla stoffa, ma Maya si morse la lingua per trattenere i grugniti di frustrazione e concluse il suo messaggio.

Port Jersey.

Dubrovnik.

Avrebbe voluto scrivere altro, ma aveva quasi finito il tempo. Infilò la penna sotto il lavandino e arrotolò il biglietto in uno stretto cilindro. Poi si guardò disperatamente attorno alla ricerca di un posto dove nasconderlo. Non poteva lasciarlo sotto il lavandino con la biro. Si sarebbe visto troppo e Rais era molto attento. La doccia era fuori questione. Se si fosse bagnato l’inchiostro sarebbe colato.

Un tocco secco sulla sottile porta del bagno fece sobbalzare entrambe le ragazze.

“È passato un minuto,” annunciò Rais dall’altra parte.

“Ho quasi finito,” disse in fretta lei. Trattenne il fiato sollevando il coperchio del serbatoio del water, sperando che il ronzio della ventola soffocasse ogni rumore. Infilò il bigliettino arrotolato nella catenella del meccanismo per tirare lo sciacquone, abbastanza in alto perché non pescasse in acqua.

“Avevo detto che avresti avuto un minuto. Apro la porta.”

“Lasciami solo qualche secondo, ti prego!” lo supplicò Maya mentre rimetteva a posto il coperchio. Infine si strappò qualche capello e li lasciò cadere sul serbatoio chiuso. Con un po’ di fortuna—con molta fortuna—chiunque le stesse cercando avrebbe riconosciuto l’indizio.

Poteva solo sperare.

La maniglia del bagno si girò. Maya tirò l’acqua e si abbassò come per suggerire che si stava alzando i pantaloni del pigiama.

Rais fece capolino nella stanzetta, con lo sguardo puntato a terra. Lentamente lo sollevò sulle due ragazze, ispezionandole a turno entrambe.

Maya trattenne il fiato. Sara prese la mano ammanettata della sorella e strinse insieme le loro dita.

“Finito?” chiese piano l’uomo.

Lei annuì.

L’assassino si guardò attorno nel bagno con espressione disgustata. “Lavati le mani. Questa stanza fa schifo.”

Maya obbedì, pulendosi con il ruvido sapone arancione mentre la mano dell’altra pendeva accanto alla sua. Si asciugò con l’asciugamano marrone e l’uomo annuì.

“Tornate a letto. Andate.”

Guidò Sara fuori dal bagno e sul materasso. Rais indugiò per un istante, studiando lo spazio angusto. Poi spense la ventola e la luce per tornare alla sua poltrona.

Maya prese la sorella tra le braccia e la strinse a sé.

Papà lo troverà, pensò disperatamente. Lo deve trovare. So che ci riuscirà.