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A Ogni Costo

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Capitolo 7

5:33 a.m.

East Harlem, quartiere di Manhattan

Luke trattenne il respiro. Non gli piacevano molto i rumori forti, e un cazzo di rumore forte stava per arrivare.

Restò completamente immobile nella tetra luce di un caseggiato di Harlem. Aveva estratto la pistola, la schiena schiacciata contro la parete. Dietro di lui, Ed Newsman stava quasi nella sua stessa posizione. Di fronte a loro nell’angusto corridoio, una mezza dozzina di membri della SWAT con elmetti e giubbotto protettivo era ai lati delle porte dell’appartamento.

Nell’edificio c’era un silenzio di tomba. Granelli di polvere volteggiavano nell’aria. Qualche momento prima, un piccolo robot aveva fatto scivolare un minuscolo telescopio con videocamera al di sotto della soglia, in cerca di esplosivi fissati alla porta. Negativo. Ora il robot si era ritirato.

Due tizi della SWAT entrarono con un pesante ariete. Era di quelli a oscillazione, e ogni agente reggeva il manico su ogni lato. Non fecero alcun rumore. Il capo del team SWAT alzò il pugno. Apparve il dito indice.

Uno.

Medio. Due.

Anulare …

I due uomini indietreggiarono e fecero oscillare l’ariete. BAM!

La porta esplose verso l’interno mentre i due agenti ripiegavano. Gli altri quattro sciamarono dentro, strillando all’improvviso, “Giù! Giù! A TERRA!”

Da qualche parte lungo il corridoio, un bambino si mise a piangere. Si aprirono porte, fecero capolino teste, poi si ritirarono negli appartamenti. Si era alle solite. A volte i poliziotti venivano e buttavano giù la porta di un vicino.

Ed e Luke aspettarono per una trentina di secondi finché la SWAT ebbe messo in sicurezza l’appartamento. Il corpo era sul pavimento del salotto, dove Luke aveva sospettato dovesse essere. Lo guardò appena.

“Libero?” chiese al capo della SWAT. Il tizio gli diede un’occhiataccia. C’era stato un piccolo litigio quando Luke aveva comandato il suo team. Questi erano del NYPD. Non erano pedine su una scacchiera che i federali potevano muovere per il capriccio di un solo uomo. Volevano che Luke lo sapesse. A Luke andava bene, ma un attacco terroristico era difficilmente un capriccio di un solo uomo.

“Libero,” disse il capo. “Quello probabilmente è il tuo soggetto.”

“Grazie,” disse Luke.

Il tizio scrollò le spalle e si voltò da un’altra parte.

Ed si chinò sul corpo. Portava con sé uno scanner per impronte. Prese le impronte da tre dita.

“Cosa ne pensi, Ed?”

Scrollò le spalle. “Ho caricato qui le impronte di Ken Bryant dal database della polizia. Dovremmo sapere se c’è una corrispondenza in pochi secondi. Nel frattempo, abbiamo evidenti segni di legatura e di gonfiore. Il corpo è ancora piuttosto caldo. Il rigor mortis è cominciato, ma non è completo. Le dita stanno diventando blu. Direi che è morto come la guardia dell’ospedale, per strangolamento, grosso modo dalle otto alle dodici ore fa.”

Alzò la testa verso Luke. C’era un bagliore nei suoi occhi. “Se vuoi abbassargli i pantaloni per me, posso prendergli la temperatura rettale e restringere un po’ il lasso di tempo.”

Luke sorrise e scosse la testa. “No grazie. Tra le otto e le dodici ore va bene. Dimmi una cosa, però: è lui?”

Ed diede un’occhiata allo scanner. “Bryant? Sì, è lui.”

Luke prese il telefono e compose il numero rapido di Trudy. Dall’altra parte, il telefono squillava. Una volta, due, tre. Luke guardò la cupa desolazione dell’appartamento. I mobili del salotto erano vecchi, con i rivestimenti strappati e della roba che usciva dai braccioli del divano. Un tappeto logoro era disteso sul pavimento, e contenitori vuoti del takeaway e utensili di plastica erano sparsi sulla tavola. Pesanti tende nere coprivano le finestre.

La voce di Trudy si fece sentire, vigile, quasi musicale. “Luke,” disse. “Da quanto tempo? Mezz’oretta?”

“Voglio parlare del custode.”

“Ken Bryant,” disse.

“Esatto. Non è più scomparso. Io e Newsam siamo nel suo appartamento. Abbiamo un riscontro positivo. È morto tra le otto e le dodici ore fa. Strangolato, come le guardie.”

“Okay,” disse.

“Voglio che accedi ai suoi conti bancari. Probabilmente aveva un deposito diretto dal suo lavoro all’ospedale. Comincia con quello e muoviti da lì.”

“Mmm, avrò bisogno di un mandato per questo.”

Luke fece una pausa. Capiva la sua esitazione. Trudy era una brava agente. Era anche giovane e ambiziosa. Rompere le regole aveva fatto deragliare molte carriere promettenti. Ma non sempre. A volte rompere le regole era una via rapida per la promozione. Dipendeva tutto da quali regole rompevi, e dalle conseguenze.

“Lì con te c’è Swann?” chiese Luke.

“Sì.”

“Allora il mandato non ti serve.”

Lei non rispose.

“Trudy?”

“Sono qui.”

“Non abbiamo il tempo di procurarci un mandato. Ci sono vite in pericolo.”

“Bryant è un sospettato in questo caso?”

“È una persona di interesse. In ogni caso, è morto. Difficilmente lederemo i suoi diritti.”

“Ho ragione a pensare che sia un tuo ordine, Luke?”

“È un ordine diretto,” rispose. “La responsabilità è mia. Se vuoi che ci spingiamo un po’ più in là, ti dico che il tuo lavoro dipende da questo. O fai quello che ti dico, o darò il via a un procedimento disciplinare. Chiaro?”

La voce della donna sembrava petulante, quasi come quella di un bambino. “Okay.”

“Bene. Quando hai accesso al suo conto, cerca qualsiasi cosa fuori dall’ordinario. Del denaro che non dovrebbe esserci. Ingenti depositi o prelievi. Bonifici. Se ha dei risparmi o ha fatto degli investimenti, controlla quelli. Stiamo parlando di un ex pregiudicato con un lavoro come custode. Non dovrebbe avere tanti soldi. Se ne ha, voglio sapere da dove vengono.”

“Va bene, Luke.”

Esitò. “Come va con le targhe?”

“Lavoriamo più in fretta che possiamo,” rispose. “Abbiamo visionato i filmati notturni delle videocamere della Quinta e della 96ma, e della Quinta e della 94ma, e qualche altra nel vicinato. Stiamo tracciando 198 veicoli, 46 dei quali sono alta priorità. Dovrei avere un rapporto iniziale dal quartiere generale in una quindicina di minuti.”

Luke guardò l’orologio. Il tempo stringeva. “Okay. Bel lavoro. Arriveremo lì appena possiamo.”

“Luke?”

“Sì.”

“La storia è su tutti i notiziari. Ci sono tre collegamenti in diretta sul megaschermo qui, adesso. Spingono tutti su questo.”

Annuì. “Me lo immaginavo.”

Lei continuò. “Il sindaco ha programmato un discorso per le 6 del mattino. Sembra che dirà a tutti di restare a casa oggi.”

“A tutti?”

“Vuole che il personale non necessario se ne stia fuori da Manhattan. Tutti i funzionari. Tutti gli addetti alle pulizie e i commessi. Tutti gli studenti e gli insegnanti. Chiederà a cinque milioni di persone di prendersi una giornata di vacanza.”

Luke si portò la mano alla bocca. Respirò. “Dovrebbe fare molto per il morale,” disse. “Se tutti a New York restano a casa, i terroristi potrebbero colpire Philadelphia.”

Capitolo 8

5:45 a.m.

Baltimora, Maryland – A sud del tunnel Fort McHenry

Eldrick era solo, a una decina di metri dal furgone. Aveva appena vomitato un’altra volta. Erano più che altro conati e sangue ormai. Era il sangue a disturbarlo. Era ancora stordito, ancora febbricitante e arrossato, ma più niente nello stomaco, la nausea se n’era quasi andata. Ma soprattutto, era finalmente fuori dal furgone.

Da qualche parte oltre l’orizzonte sporco, il cielo stava appena cominciando a illuminarsi di un pallido e malato giallo. Quaggiù sulla terra, era ancora buio. Erano appostati in un parcheggio desolato lungo una squallida costiera. Un cavalcavia passava venti piani sopra le loro teste. Lì vicino c’era un edificio industriale abbandonato in mattoni con due ciminiere gemelle. Le finestre erano rotte in buchi neri come gli occhi di un morto. L’edificio era circondato da un recinto di filo spinato con cartelli ogni nove metri: ALLA LARGA. C’era un buco visibile nel recinto. L’area attorno all’edificio era infestata da cespugli ed erba alta.

Guardò Ezatullah e Momo. Ezatullah rimosse una delle grandi e magnetiche decalcomanie che dicevano Lavanderia Dun-Rite, andò sul margine dell’acqua e la lanciò dall’altra parte. Poi tornò indietro e rimosse quella dall’altro lato. Eldrick non era mai riuscito a levarle. Nel frattempo, Momo si inginocchiò di fronte al furgone con un cacciavite, rimosse la targa e la rimpiazzò con un’altra. Un momento dopo era sul retro, e faceva lo stesso con la targa posteriore.

Ezatullah fece un gesto verso il furgone. “Voilà!” disse. “Un veicolo nuovo. Prendimi adesso, Zio Sam.” Il viso di Ezatullah luccicava di rosso e di sudore. Sembrava ansimare. Gli occhi erano iniettati di sangue.

Eldrick guardò i dintorni. Lo stato fisico di Ezatullah gli aveva dato un’idea. L’idea gli brillò nella testa come un flash, apparsa e sparita in un attimo. Era il modo migliore di pensare. Le persone potevano leggerti i pensieri negli occhi.

“Dove siamo?” chiese.

“Baltimora,” rispose Ezatullah. “Un’altra delle tue fantastiche città americane. E un luogo bellissimo dove vivere, immagino. Bassa criminalità, le bellezze della natura, e i cittadini sono sani e benestanti, l’invidia della gente di ogni dove.”

Nella notte, Eldrick aveva avuto il delirio. Era svenuto più di una volta. Aveva perso il senso del tempo, e non sapeva dove fosse. Ma non aveva idea che fossero arrivati così lontano.

 

“Baltimora? Perché siamo qui?”

Ezatullah scrollò le spalle. “Stiamo andando verso la nostra nuova destinazione.”

“L’obiettivo è qui?”

Ora Ezatullah sorrise. Il sorriso sembrava fuori posto in quella faccia avvelenata dalle radiazioni. Sembrava la morte stessa. Allungò una mano tremante e diede a Eldrick un’amichevole pacca sulla spalla.

“Mi spiace di essermi arrabbiato con te, fratello. Hai fatto un buon lavoro. Hai portato a termine tutto ciò che avevi promesso di fare. Con il volere di Allah, spero che raggiungerai il paradiso oggi stesso. Ma non per mano mia.”

Eldrick si limitava a fissarlo.

Ezatullah scosse la testa. “No. Non Baltimora. Stiamo viaggiando verso sud per lasciare un segno che darà gioia alle masse sofferenti di tutto il mondo. Entreremo nel covo del Diavolo stesso e taglieremo la testa della bestia con le nostre mani.”

Eldrick sentì freddo nella parte superiore del corpo. Gli venne la pelle d’oca sulle braccia. Si accorse di avere la camicia fradicia di sudore. Non gli piaceva quello che aveva sentito. Se erano diretti a sud e si trovavano a Baltimora, allora la prossima città era …

“Washington,” disse.

“Sì.”

Ezatullah sorrise ancora. Ora il sorriso era glorioso, quello di un santo davanti alle porte del paradiso, pronto ad accettare il permesso di entrare.

“Taglia la testa e il corpo morirà.”

Eldrick riusciva a vederlo negli occhi di Ezatullah. Aveva perso la testa. Forse era la malattia, o forse qualcos’altro, ma era ovvio che non ragionava con chiarezza. Fino a quel momento, il piano era stato di rubare il materiale e abbandonare il furgone nel South Bronx. Era un lavoro pericoloso, molto difficile da portare a termine, e loro ce l’avevano fatta. Ma chiunque fosse il capo questi aveva cambiato il piano, o aveva mentito fin dall’inizio. Adesso viaggiavano verso Washington in un furgone radioattivo.

Per fare cosa?

Ezatullah era uno jihadista esperto. Doveva sapere che quello che stava suggerendo era impossibile. Qualsiasi cosa pensasse che avrebbero fatto, Eldrick sapeva che non ci sarebbero arrivati neanche lontanamente vicini. Immaginò il furgone, trivellato di buchi di proiettile, a trecento metri dalla Casa Bianca o dal Pentagono o dal recinto del Campidoglio.

Questa non era una missione suicida. Non era una missione per niente. Era una dichiarazione politica.

“Non ti preoccupare,” disse Ezatullah. “Sii felice. Sei stato scelto per l’onore più grande che ci sia. Ce la faremo, anche se tu non puoi immaginarti come. Il metodo ti diverrà chiaro a suo tempo.” Si voltò e aprì la portiera del furgone.

Eldrick guardò Momo. Stava montando la targa posteriore. Momo non parlava da un po’. Probabilmente neanche lui si sentiva tanto bene.

Eldrick fece un passo indietro. Poi un altro. Ezatullah era impegnato con qualcosa dentro al furgone. Gli dava le spalle. La parte migliore di quel momento era che un altro sarebbe potuto non capitare più. Eldrick se ne stava lì in piedi nello spazio aperto, e nessuno lo guardava.

Eldrick era stato un corridore a scuola. Era bravo. Ricordava le folle nella 168ma Strada Armory a Manhattan, le posizioni sul tabellone, la campanella che scattava. Ricordava quel senso di nodo allo stomaco appena prima di una gara, e la velocità folle sulla nuova pista, le magre gazzelle nere da competizione che si spintonavano, i gomiti in alto, che correvano così veloci che sembrava di stare in un sogno.

Per tutti gli anni trascorsi da allora, Eldrick non aveva mai corso come aveva fatto all’epoca. Ma forse, con una scarica di energia concentrata, avrebbe potuto raggiungere quella velocità adesso. Non aveva senso esitare, né starci a pensare troppo.

Si voltò e partì.

Un secondo dopo, la voce di Momo dietro di lui:

“EZA!”

Poi qualcosa in farsi.

L’edificio abbandonato era davanti. La malattia tornò a farsi sentire. Vomitò, il sangue che gli schizzava la camicia, ma continuò a correre. Era già senza fiato.

Sentì uno schiocco come di una spillatrice. Fece una debole eco contro i muri dell’edificio. Ezatullah sparava, ovvio che sparava. La sua pistola aveva un silenziatore.

Una puntura acuta attraversò la schiena di Eldrick. Cadde sul marciapiedi, sbucciandosi le braccia contro l’asfalto rotto. Un secondo dopo, un’altra eco di sparo. Eldrick si alzò e continuò a correre. Il recinto era proprio lì. Si voltò e si gettò verso il buco.

Un’altra puntura lo attraversò. Cadde in avanti e si aggrappò al recinto. Tutta la forza sembrò scivolargli fuori dalle gambe. Era appeso lì, a tenersi su con la presa morta delle dita attraverso le maglie della rete.

“Muoviti,” gracchiò. “Muoviti.”

Cadde sulle ginocchia, forzò il recinto lacero da parte e strisciò dentro al buco. Era nell’erba fitta. Si mise in piedi, incespicò per qualche passo, inciampò in qualcosa che non riusciva a vedere e rotolò giù da un terrapieno. Non ci provò neanche a smettere di rotolare. Lasciò che lo slancio lo portasse sul fondo.

Arrivò a fermarsi, respirando pesantemente. Il dolore alla schiena era irreale. Aveva il viso nella terra. Era umido lì, infangato, e si trovava proprio lungo l’argine. Poteva ruzzolare nelle acque buie se voleva. Invece strisciò più a fondo nel sottobosco. Il sole non era ancora sorto. Se fosse rimasto lì, senza muoversi e senza fare rumori, era quasi possibile che…

Si toccò il petto con la mano. Ritirò le dita zuppe di sangue.

*

Ezatullah era in piedi davanti al buco nella recinzione. Il mondo attorno a lui girava. Gli erano venute le vertigini anche solo a rincorrere Eldrick.

Con la mano si aggrappava alla maglia di ferro della recinzione, che lo teneva in piedi. Pensava che avrebbe potuto vomitare. Era buio in quei cespugli. Avrebbero potuto perdere un’ora a cercarlo lì. Se ce l’avesse fatta a raggiungere il grande edificio abbandonato, allora magari non l’avrebbero mai più trovato.

Moahmmar era lì accanto. Era chino, le mani sulle ginocchia, respirava profondamente. Tremava in tutto il corpo. “Dovremmo andare?” chiese.

Ezatullah scosse la testa. “Non ne abbiamo il tempo. Gli ho sparato due volte. Se non lo finisce la malattia, lo faranno i proiettili. Lasciamolo morire solo. Forse Allah avrà pietà della sua codardia. Lo spero. In ogni caso, dobbiamo andare avanti senza di lui.”

Si voltò e riprese il cammino verso il furgone. Sembrava che fosse parcheggiato lontanissimo. Era stanco, ed era malato, ma continuò a mettere un piede davanti all’altro. Ogni passo lo portava più vicino ai cancelli del Paradiso.

Capitolo 9

6:05 a.m.

Centro di comando congiunto dell’antiterrorismo - Centro Manhattan

“Luke, la cosa migliore da fare è riunire i tuoi e tornare a Washington,” disse l’uomo in giacca e cravatta.

Luke era all’interno del vorticoso caos della sala principale del centro di comando. Era già giorno, e una fioca luce filtrava dalle finestre due piani al di sopra degli uffici. Il tempo passava troppo velocemente, e il centro di comando era un cazzo di casino.

Duecento persone riempivano la stanza. C’erano almeno quaranta postazioni di lavoro, alcune delle quali con due o tre persone sedute davanti a cinque schermi di computer. Sul megaschermo di fronte c’erano venti diverse schermate televisive e di computer. Questi mostravano mappe digitali di Manhattan, del Bronx, sequenze live di entrate nei tunnel Holland e Lincoln, foto segnaletiche di terroristi arabi che risiedevano nel paese.

Tre adesso mostravano il sindaco DeAngelo, che con il suo metro e novantadue sovrastava gli assistenti al suo fianco, e che al microfono diceva ai coraggiosi newyorkesi di restare a casa e abbracciare i loro figli. Stava leggendo un discorso preparato.

“Nel peggiore dei casi,” disse il sindaco, la voce che usciva dagli altoparlanti disposti nella stanza, “l’esplosione iniziale ucciderà molte persone e creerà un panico di massa nell’area immediatamente limitrofa. L’esposizione alle radiazioni diffonderà la paura in tutta la regione e probabilmente in tutto il paese. Molte persone esposte all’attacco iniziale si ammaleranno, e alcune moriranno. I costi per ripulire l’aerea saranno enormi, ma sembreranno piccoli in confronto a quelli psicologici ed economici. Un attacco con una bomba sporca in un’importante stazione di New York paralizzerà i trasporti lungo la costa per il prossimo futuro.”

“Carino,” disse Luke. “Mi chiedo chi scriva questa roba.”

Analizzò la stanza. Qui erano rappresentati tutti, tutti a sgomitare per una posizione migliore. Era pastina alfabeto. NYPD, FBI, NSA, ATF, DEP, persino CIA. Diavolo, c’era la DEA qui. Luke non era sicuro di come il furto di scorie radioattive costituisse un crimine di droga.

Ed Newsam era andato a pescare lo staff dell’SRT tra la folla.

“Luke, mi hai sentito?”

Luke tornò alla questione in esame. Era con Ron Begley della Sicurezza Interna. Ron era un uomo che si stava stempiando, sul finire dei cinquant’anni. Aveva una grossa pancia tonda e piccole dita tracagnotte. Luke conosceva la sua storia. Era stato uno da scartoffie, un uomo che era venuto fuori dalla burocrazia del governo. L’11 settembre, era alla Tesoreria a coordinare un team che analizzava l’evasione fiscale e gli schemi Ponzi. Era passato all’antiterrorismo con la creazione della Sicurezza Interna. Non aveva mai fatto un arresto, o fatto fuoco in un momento di rabbia, nella sua vita.

“Hai detto che vuoi che me ne vada a casa.”

“Ci stai tra i piedi qui, Luke. Kurt Myerson ha chiamato il suo capo al NYPD e gli ha detto che all’ospedale trattavi la gente come schiavi personali. E che hai sequestrato un team della SWAT. Davvero? La SWAT? Senti, questo è il loro terreno. Devi seguire la loro guida. È così che si gioca.”

“Ron, è stato il NYPD a chiamarci. Immagino perché hanno ritenuto di aver bisogno di noi. La gente lo sa come lavoriamo.”

“Come i cowboy,” disse Begley. “Lavori come partecipassi a un rodeo di cowboy.”

“Don Morris mi ha buttato giù dal letto per farmi venire qui. Puoi parlarne con Don…”

Begley alzò le spalle. Una parvenza di sorriso gli apparve in faccia. “Don è stato richiamato. È salito su un elicottero venti minuti fa. Ti suggerisco di fare lo stesso.”

“Cosa?”

“È così. È stato promosso, se capisci cosa voglio dire. Promosso in senso lato. L’hanno chiamato a tenere un briefing sulla situazione al Pentagono. Roba davvero importante. Credo che non potessero mandarci un interno, così ci hanno portato Don.”

Begley abbassò la voce, nonostante Luke riuscisse comunque a sentirlo bene. “Un avvertimento. Cos’ha Don, altri tre anni prima della pensione? Don è una specie in via di estinzione. È un dinosauro, e così è l’SRT. Lo so io e lo sai tu. Tutte queste piccole agenzie segrete all’interno di un’unica agenzia stanno per essere scaricate. Stiamo accorpando e centralizzando, Luke. Adesso ci servono analisti di dati. È così che risolveremo i crimini del futuro. È così che prenderemo questi terroristi oggi. Non abbiamo bisogno di machi, di superspie e anziani ex commando che si calino giù dalle corde lungo le facciate degli edifici ormai. Proprio non ci servono. Basta giocare agli eroi. In realtà è un po’ ridicolo, se ci pensi bene.”

“Ottimo,” disse Luke. “Lo prenderò in considerazione.”

“Pensavo che insegnassi al college,” disse Begley. “Storia, scienze politiche, quella roba lì.”

Luke fece un cenno col capo. “Sì.”

Begley posò una mano carnosa sul braccio di Luke. “Dovresti continuare a farlo.”

Luke scosse via la mano e si tuffò nella folla, cercando i suoi.

*

“Che cosa abbiamo?” chiese Luke.

Il suo team aveva organizzato un campo in un ufficio fuori mano. Avevano preso un po’ di scrivanie vuote e imbastito la loro piccola stazione di comando con laptop e uplink satellitari. Ed Newsam e Trudy erano lì, insieme a pochi altri. Swann si era rintanato in un angolo da solo con tre laptop.

“Hanno richiamato Don,” disse Trudy.

“Lo so. Gli hai parlato?”

Annuì. “Venti minuti fa. Stava per partire. Ha detto di continuare a lavorare al caso finché lui non ce ne tira fuori personalmente. E di ignorare gentilmente chiunque altro.”

“Mi sta bene. Quindi a che punto siamo?”

 

Trudy parlò seria. “Ci muoviamo veloci. Abbiamo ristretto la ricerca a sei veicoli ad alta priorità. Tutti sono passati entro un isolato o due dall’ospedale la scorsa notte, e presentano caratteristiche strane o che non corrispondono.”

“Dammi un esempio.”

“Okay. Uno è un camion fornitore alimentare intestato a un ex paracadutista russo. Siamo stati in grado di seguirlo con le videocamere di sorveglianza, e a quanto sembra, è andato su e giù per Manhattan tutta la notte, a vendere hot dog e Pepsi a prostitute, magnaccia e clienti.”

“Ora dov’è?”

“È parcheggiato sull’11ma Avenue, a sud Centro Congressi Jacob Javits. Non si muove da un po’. Pensiamo che stia dormendo.”

“Okay, mi pare che sia appena diventato di bassa priorità. Passalo al NYPD, non si sa mai. Possono svegliarlo e rivoltargli il camion, scoprire se lì dentro ci vende anche qualcos’altro. Prossimo.”

Trudy scorse la sua lista. Un minivan convertito in auto Uber da un ex fisico nucleare caduto in disgrazia. Un articolato di quaranta tonnellate con richiesta d’indennizzo assicurativo che venne demolito in un incidente e rottamato. Un furgone delle consegne per un servizio commerciale di lavanderia, con le targhe registrate a una non collegabile attività di pavimentazione di Long Island. Un’ambulanza registrata come rubata tre giorni fa.

“Un’ambulanza rubata?” chiese Luke. “Sembra interessante.”

Trudy scrollò le spalle. “Di solito si tratta di commercio illegale di organi. Li recuperano dai pazienti deceduti a pochi minuti dalla morte. Devono recuperare gli organi, impacchettarli e portarli fuori dall’ospedale in fretta. Nessuno dà una seconda occhiata a un’ambulanza che aspetta nel parcheggio di un ospedale.”

“Ma stanotte forse non aspettavano organi. Sappiamo dove sono?”

Scosse la testa. “No. L’unico luogo che abbiamo è quello del russo. È ancora più un arte che una scienza. Le telecamere di sorveglianza non sono ancora dappertutto, specialmente appena si esce da Manhattan. Vedi un furgone sorpassare una videocamera, poi potresti non vederlo più. O potresti ribeccarlo con un’altra telecamera dieci isolati più in là, o a cinque miglia. L’articolato ha attraversato il ponte George Washington verso il New Jersey prima che lo perdessimo. Il furgoncino della lavanderia è passato per la 138ma Strada verso il South Bronx ed è sparito. Proprio adesso, li stiamo rintracciando tutti con altri mezzi. Abbiamo contattato la compagnia dell’autotrasporto, l’Uber, la compagnia di pavimentazione e il servizio di lavanderia. Dovremmo venire a sapere qualcosa presto. E ho otto persone al quartier generale che setacciano ore di video, in cerca dell’ambulanza.”

“Bene. Tienimi aggiornato. Che succede con la banca?”

Il viso di Trudy era di pietra. “Dovresti chiederlo a Swann.”

“Okay.” Fece un passo verso il piccolo feudo d’angolo di Swann.

“Luke?”

Si fermò. “Sì.”

Gli occhi di Trudy guizzavano per la stanza. “Possiamo parlare? In privato?”

*

“Mi licenzierai perché non infrango la legge per te?”

“Trudy, non ho nessuna intenzione di licenziarti. Perché lo pensi?”

“È quello che hai detto, Luke.”

Si trovavano in uno stanzino. C’erano due scrivanie vuote qui e una piccola finestra. La moquette era nuova. I muri erano bianchi e non vi era appeso niente. C’erano una piccola videocamera montata in un angolo, vicino al soffitto.

Sembrava che la stanza non fosse mai stata usata. Lo stesso centro di comando era aperto da meno di un anno.

I grandi occhi di Trudy lo fissavano con attenzione.

Luke sospirò. “Ti stavo dando una via d’uscita. Pensavo che lo avresti capito. Se ci sono dei guai, puoi dare la colpa a me. Tutto quello che hai fatto è stato eseguire i miei ordini. Temevi di perdere il lavoro se non avessi eseguito i miei ordini.”

Lei gli si avvicinò di un passo. Nell’isolamento della stanza, Luke poteva sentire il suo shampoo e il delicato profumo che portava spesso. La combinazione di odori gli fece qualcosa alle ginocchia. Le sentì tremare un po’.

“Non puoi neanche darmi un ordine diretto, Luke. Non lavori più per l’SRT.”

“Sono in congedo.”

Lei fece un altro passetto nella sua direzione. I suoi occhi erano concentrati su di lui come laser gemelli. C’era intelligenza in quegli occhi, e calore.

“E te ne sei andato… perché? Per causa mia?”

Scosse la testa. “No. Avevo le mie ragioni. Tu non eri fra queste.”

“I fratelli Marshall?”

Scrollò le spalle. “Quando uccidi due uomini in una sola notte, è un buon momento per prendersi una pausa. Forse anche di valutare quello che stai facendo.”

“Stai dicendo che non hai mai provato niente per me?” chiese.

Lui la guardò, sbalordito dalla domanda. Aveva sempre avuto l’impressione che Trudy flirtasse con lui, e lui non aveva mai abboccato all’amo. C’era stata qualche volta, ubriaco a qualche festa, dopo brutte litigate con la moglie, che ci era andato vicino. Ma il pensiero di sua moglie e suo figlio l’avevano sempre tenuto lontano dal precipitare in qualcosa di stupido.

“Trudy, noi lavoriamo insieme,” disse risolutamente. “E io sono sposato.”

Lei si avvicinò ancora di più.

“Non mi interessa il matrimonio, Luke,” disse piano, inclinandosi verso di lui, ormai vicinissima.

Era contro di lui adesso. Luke le mise le mani sui fianchi. Sentiva il calore provenire da lei, e quella vecchia incontrollabile voglia quando le stava vicino, l’eccitazione, l’energia… il desiderio. Lei riuscì a posargli le mani sul petto, e non appena i palmi gli toccarono la camicia, lui seppe che avrebbe dovuto agire subito o abbandonarsi a lei completamente.

Con un atto finale di supremo autocontrollo, Luke fece un passo indietro e le allontanò delicatamente le mani.

“Mi dispiace, Trudy,” disse, con la voce roca. “Ti voglio bene. Davvero. Ma non è una buona idea.”

Lei si accigliò, ma prima di poter dire qualcosa, un pesante pugno colpì la porta di legno.

“Luke? Sei lì?” Era la voce di Newsam. “Dovresti uscire e vedere questo. Swann ha trovato qualcosa.”

Si guardarono, Luke sentendosi colpevole come il diavolo al pensiero di sua moglie, anche se non aveva fatto niente. Se ne andò di lì prima che potesse accadere qualcos’altro senza poter fare a meno di chiedersi quanto ciò che era appena successo avrebbe avuto conseguenze sulla loro vita lavorativa insieme.

E poi, peggio di tutto, non poteva fare a meno di ammettere che, sotto sotto, non aveva nessuna voglia di lasciare la stanza.

*

Swann sedeva a una lunga tavola con i suoi tre monitor video allineati davanti a sé. Con la sua calvizie incipiente e gli occhiali, ricordava a Luke un fisico della NASA al controllo missione. Luke era in piedi dietro di lui con Newsam e Trudy, al di sopra delle strette spalle di Swann.

“Questo è il conto corrente di Ken Bryant,” disse Swann, muovendo il cursore nel centro dello schermo. Luke assorbì i dettagli: depositi, prelievi, saldo totale, un range di date che andava dal 28 aprile al 27 maggio.

“Quanto è sicura la connessione?” chiese Luke. Diede un’occhiata alla stanza e fuori dalla porta. La stanza principale del centro di comando era proprio in fondo al corridoio.

“Questa?” disse Swann. Alzò le spalle. “È indipendente dal centro di comando. Sono connesso alla nostra torre e ai nostri satelliti. È criptata dai nostri. Credo che la CIA o l’NSA potrebbero cercare di violarla, ma perché preoccuparsi? Facciamo parte della stessa squadra, no? Non me ne preoccuperei. Invece, mi concentrerei su questo conto bancario. Noti niente di strano?”

“Il saldo è più di $24,000,” disse Luke.

“Esatto,” disse Swann. “Un custode con un bel po’ di soldi nel suo conto corrente. Interessante. Ora andiamo indietro di un mese. Dal 28 marzo al 27 aprile. Il saldo arriva fino a $37,000, e adesso comincia a spendere. Ci sono trasferimenti qui da un conto anonimo, $5,000, poi $4,000, poi, be’, chi se ne frega delle tasse… dammene $20,000.”

“Okay,” disse Luke.

“Indietro di un altro mese. Dalla fine di febbraio alla fine di marzo. Il saldo iniziale è di $1,129. Entro la fine del mese, è di oltre $9,000. Indietro di un altro mese, dalla fine di gennaio alla fine di febbraio, e il saldo non è mai arrivato a $2,000 in tutto il tempo. Da qui, se andiamo indietro di tre anni, vediamo che il saldo raramente ha superato i $1,500. Ecco un tizio che vive giorno per giorno, che d’un tratto comincia a ottenere grossi trasferimenti di denaro in marzo.”