Le Mura Di Tarnek

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“Non essere così negativo”. Monada con un dolce gesto gli diede un colpetto sotto il tavolo. “Non è affatto male”. E poi aggiunse, abbassando il tono: “E non studia la religione. Voglio dire, la studia, ma non è l’unica cosa che fa”.

“Oh?”. Ora la cosa iniziava a interessarlo. Fino a che punto l’ozio degli individui è pronto a spingersi?

“Predica anche”. Sul viso di lei si poteva leggere un sincero stupore. Nelgor trattenne a fatica il riso, non volendo essere interpretato male.

“Non sapevo che la Chiesa permettesse alle kase di predicare. Moni, sei sicura che qualcuno non si stia prendendo gioco di te?”.

“Certo che lo sono. Dovresti sentirla”.

“La religione è piuttosto esplicita quando si tratta di certe cose. Lo è da sempre”.

“Lo so… ma…”. Si fermò, esaminandolo insicura con lo sguardo. Ha qualcosa in serbo per me.

“Ma cosa?”.

“Qui non si tratta… di quella religione”.

L’unica fede che Tarnek riconosceva era rappresentata dalla Chiesa. Nelgor venerava il Dio Eternorisorto nella misura in cui ciò era normale, astenendosi da ogni cieco fanatismo e inutile superstizione. Capiva molto bene quello che Monada aveva appena condiviso con lui. Era un’altra delle follie causate dalla crisi. Sfortunatamente, c’erano cose ben peggiori con cui l’Ordine doveva fare i conti. La Chiesa potrebbe fare qualcosa almeno quando i problemi sono nel suo campo, pensò.

“Non vorrai dirmi che hai ascoltato una settara?”. Nella sua voce non c’era rabbia. Era deluso.

“Sì, e allora? Hai mai sentito qualcuno di loro?”.

“No, perché ho abbastanza cose più intelligenti di cui preoccuparmi”. I colpi bassi ora erano parte del suo repertorio. “Per quanto lo neghi, non hai idea di come si vive nelle parti più povere della città. Pertanto ti prego di comprendere che considero le farneticazioni degli eretici una perdita di tempo”.

Incredibilmente, questa volta lei rimase calma. “Si chiamano Predicatori della Verità”.

“Oh, e pare che chi si fregia di un nome simile probabilmente dica soltanto la verità. Dimmi, le sue predicazioni erano gratis, o le hai pagate come la riparazione del soffitto?”.

“Non ho pagato niente. La tua reazione è completamente comprensibile, Jotaka dice che…”.

“Non m’interessa qual che dice Jotaka! Mi fai davvero impazzire se penso che sei seriamente impazzita per simili cose”. L’ultima cosa che voleva era una kasa fanatica religiosa in casa.

“Non sono impazzita, volevo solo chiacchierare un po’”.

“Di cosa, in nome di Dio?”.

“Di quel che ho sentito da lei. Penso… so che non può essere la verità, ma d’altra parte…”.

“Non c’è un’altra parte, Moni. È una massa di gente da nulla che vuole approfittarsi della paura delle persone”.

“Predicano solo”.

“E creano il panico. Qualcuno all’Avamposto mi ha raccontato di aver ascoltato quelle stronzate nel Parco di Pietra. La fine del mondo e altre idiozie. Non capisci cosa c’è dietro? Raccolgono adepti per poi spennarli, è un vecchio trucco da impostori. Prima ti faccio impazzire gratis, e poi sei in mio potere”.

“Forse è così, però… se avessi sentito come parla…”.

Le prese la mano nella sua e la guardò negli occhi.

“Vedi, sai che non do molta importanza a cose del genere. E non penso che ci sia qualcosa di terribile nel fatto che hai iniziato ad ascoltare questa follia. Tuttavia, ti ho sempre considerata razionale e saggia”. Monada lo guardava abbattuta, evidentemente anche lei incerta di dove volesse andare a parare. “Non vorrai mica permettere che qualcuno che conosci appena ti riempia così facilmente quella bella testolina?”.

“Nessuno ha riempito la mia testolina. Ho solo riflettuto su quel che ho sentito, tutto qui”.

“Questo è bene. Ma ti prego, t’imploro, non pensarci troppo perché mi preoccuperò seriamente. Idiozie del genere non meritano l’attenzione di una persona normale”.

“Te l’ho detto, non è proprio come…”.

Si sentirono dei colpi alla porta. Monada s’interruppe, e lui tra sé e sé ringrazio il vero Dio per questo. Il giorno si era avviato in una direzione totalmente sbagliata. Quando lei aprì, lui riuscì a vedere solo l’orlo della manica dell’ospite inatteso, e ciò fu più che sufficiente per sapere di cosa si trattava. Aveva riconosciuto l’uniforme.

Senza attendere che glielo dicessero, si alzò e andò nell’altra stanza a cambiarsi d’abito. Uscendo si salutò con Monada, facendo finta di non essersi accorto del suo disagio. Tuttavia, ciò che lo attendeva alla porta lo colse completamente alla sprovvista, e lui borbottò una scusa, confuso. Si aspettava uno dei colleghi giustizieri, di solito qualcuno di loro notificava quelli liberi di tornare in servizio non appena ve n’era l’esigenza. Simili pratiche non erano frequenti, ma capitava che i Pugni annunciassero un controllo o una retata inattesa. Le uniformi si distinguevano solo per le spalle e le cinghie. Maledetta kasa, lo ha lasciato sulla strada. Non distingue i gradi?

Sul volto del capitano si poteva scorgere solo impazienza.

“Tutto a posto, giustiziere, sbrigati solo”, gli rispose. “I Pugni hanno ordinato una riunione straordinaria all’Avamposto”.

»« »« »«

Il Quinto Avamposto era una delle organizzazioni più rispettate dell’Ordine di Tarnek. Anche se non era così attrezzato come il Primo, era importante per la presenza di giustizieri che erano tradizionalmente tra i meglio valutati nei resoconti annuali.

Non appena oltrepassò il portone di controllo, si trovò nel cortile d’addestramento strapieno di colleghi. Non aveva senso farsi strada verso l’edifico, ottenne una spiegazione dal primo a cui si rivolse. La riunione si sarebbe svolta all’aria aperta. Non poteva essere altrimenti, sapeva che non c’era uno spazio tanto grande da poter accogliere tutti i giustizieri radunati. Il capitano si era affrettato a richiamare anche gli altri, ma a lui non servivano indicazioni per capire che la questione era più che importante. Cercando il posto più comodo tra la folla, avvistò Nostros, il giustiziere con cui al momento usciva di pattuglia.

“Sei qui”, lo salutò quello.

“Sono appena arrivato. Il capitano è venuto a prendermi, avevo la giornata libera”.

“Mi hanno trovato per strada. Aspetto già da un’ora”.

“Sai di cosa si tratta?”.

Nostros scrollò le spalle. “Non hanno detto niente, ma sembra che stanotte ci siano stati problemi nel Quartiere degli Artigiani. L’ho sentito oggi quando ho preso servizio”.

C’erano sempre problemi, ma non era un motivo per convocare praticamente tutte le unità. Soprattutto perché la zona della città interessata non era di loro competenza.

“Che cos’è successo?”.

“Non so proprio immaginarmelo, sai come sono le voci di corridoio. Alcuni dicono che sia scoppiato un incendio, altri invece affermano che ci siano addirittura dei morti”.

Nelgor ruotò la testa. “Qualcuno incenerisce i barboni ammalati. Ieri ho intravisto alcuni focolai, non so cosa li ha sopraffatti”.

“È terribile. Ma non si tratta di questo”.

“In ogni caso non è un bene”.

“Concordo. Non mi piace più andare in certi quartieri. Ho anche un po’ paura”.

“Non temere, Nostros”. Nelgor gli diede un colpetto amichevole sulla spalla. “I delinquenti non osano colpirti. Hai quello sguardo pericoloso, e anche il trinciante a portata di mano”. La lama era una dotazione standard dell’equipaggiamento, ma circa un giustiziere su venti aveva la possibilità di portare il tubo distruttivo. Nella pratica, lo estraevano di rado. L’annientamento del corpo era una cosa seria, rigidamente regolata dalla legge. Per farla breve, un giustiziere persino in quelle situazioni in cui la sua esistenza personale era messa in discussione doveva pensarci bene prima di utilizzarlo. Una cosa era disabilitare un kas, tutt’altra togliergli il diritto di recarsi un giorno nella Torre di Cristallo ed essere nuovamente risvegliato come una persona migliore. Un tempo la necessità di eliminare quasi non si presentava. Tuttavia, le cose erano probabilmente cambiate sul serio.

L’osservazione dell’amico non confortò Nostros…

“Neanche le armi bastano più a salvarci la pelle. Hai sentito di quello sfortunato del Terzo Avamposto?”.

“Quello che è dato per scomparso?”.

“Sì”.

“Per quanto mi riguarda, qui non dovrebbe essere successa una cosa del genere. Non capisco tutto questo nervosismo, probabilmente ha disertato”. Purtroppo, simili cose accadevano, e non facevano onore al servizio. Il suo interlocutore sorrise tristemente.

“I due che erano di pattuglia insieme a lui giurano che non poteva fuggire da nessuna parte, l’edificio non aveva uscite secondarie ma solo un unico ambiente. Il disgraziato è solo entrato per un controllo di routine. Quando la cosa è diventata sospetta sono andati a cercarlo ma dentro non c’era nessuno. Tutto ciò che hanno trovato erano le sue armi, l’uniforme e brandelli di vestiti. Per quanto ti ci sforzi, non c’è una spiegazione logica”.

“La paura ha grandi occhi, e anche i racconti possono assumere dimensioni prodigiose quando passano di bocca in bocca”.

“Non so, amico mio, da quando mi sono risvegliato, non ce ne sono mai state così tante. E se anche solo la metà è vera…”.

All’improvviso risuonò un gran chiasso, e Nelgor avvistò un kas sul balcone dell’edificio. Osservava tranquillo aspettando che tutti si accorgessero di lui e dopo qualche istante calò un silenzio completo. Il tempo delle chiacchiere facoltative era finito, tutti i giustizieri presenti rivolsero la propria attenzione a ciò che era proprio necessario che fosse condiviso con loro. Il Pugno sembrava quasi ieratico mentre reggeva con la mano un pesante mantello di piastrine metalliche, mentre un vento leggero giocava con le pieghe della sua uniforme marrone. Nella pace del cortile, la sua voce profonda riecheggiò forte e distinta.

 

“Colleghi giustizieri, dichiaro aperta la riunione straordinaria del Quinto Avamposto dell’Ordine di Tarnek”. Tacque qualche istante e, evidentemente soddisfatto di quanto vedeva, continuò.

“Nelle prime ore mattutine, il comandante superiore dell’Ordine, il Condottiero Tonas Minar, mi ha convocato insieme ai Pugni degli altri Avamposti nel Palazzo del Comando per condividere con noi delle notizie tutt’altro che buone. Oggi nel Quartiere degli Artigiani si è giunti a una seria infrazione della giustizia quando due pattuglie di giustizieri si sono scontrate con dei banditi numericamente superiori. I fuorilegge hanno manifestato un comportamento apertamente aggressivo, ed è con dolore che v’informo che nessuno dei nostri commilitoni è sopravvissuto”.

I presenti rimasero scioccati. Nelgor guardò Nostros in cerca di una conferma di quanto aveva realmente sentito, ma tutto ciò che ottenne fu uno sguardo febbrile. I giustizieri parlottavano sottovoce, sconvolti da quanto avevano sentito. La cosa superava anche le voci più ardite. Vi erano casi di ferimento durante il servizio, ma di conseguenze mortali si poteva leggere solo negli archivi. Un sestuplice omicidio era qualcosa che nella lunga storia della città non era mai stato registrato. Che cos’è successo, in nome del mondo?

“I nostri colleghi si sono battuti coraggiosamente, hanno procurato gravi perdite ai fuorilegge, e il loro sacrificio ha certamente impedito che le dimensioni dell’assalto fossero ancora più grandi. Per ora possiamo affermare con certezza che il bersaglio erano dei civili, e presupponiamo che il movente fosse il furto. Ciò che ci preoccupa sono ovviamente le prove che dimostrano che gli aggressori erano armati di lame ed equipaggiati per la lotta. Possiamo affermare con certezza che questa è la più grande minaccia che la nostra città abbia mai affrontato”.

“Finalmente ve ne siete accorti”, disse qualcuno tra la folla, ma Nelgor non vi fece attenzione. Si sforzava di ascoltare con attenzione tutto ciò che il Pugno aveva da dire, convincendosi che non vi fosse motivo di lasciarsi andare al panico.

“L’Ordine non tollererà simili crimini, e con decisione procederà a un controllo di ogni attività criminale che cerchi di infrangere il giusto ordine della nostra città. Di conseguenza, si è presa una ferma decisione. Da oggi tutti i giustizieri lavoreranno quotidianamente, senza diritto di assenza, finché non giudicheremo di aver definitivamente estirpato ogni minaccia. Per ottenere un risultato il più efficace possibile, il vostro contratto attuale sarà significativamente ampliato. Riceverete presto istruzioni più dettagliate dai vostri capitani. Non dimenticate che siamo noi quelli che hanno impegnato con un giuramento la propria vita per garantire la sicurezza ad ogni kas all’interno di queste mura. All’interno della città, nostra è la giustizia!”.

Giusto qualche giustiziere ribatté al motto. Nelgor non era tra loro. Per qualche ragione, non poteva smettere di pensare a Monada, e alla discussione che avevano avuto quella mattina.

“Vi sono domande?”, domandò il condottiero. Qualcuno più avanti gridò qualcosa che non riuscì a capire, ma la risposta che ne seguì era chiara.

“Siete tutti armati di lame, e vi assicuro che ciò è sufficiente. Faremo in modo che nelle nuove formazioni abbiate sempre anche un trinciante con voi. Ricordate, voi siete quelli che hanno il miglior addestramento. La disgrazia che è successa ai nostri colleghi è frutto della sorpresa che hanno vissuto non aspettandosi una simile insolenza da parte dei fuorilegge. Sono certo che il risultato sarebbe stato ben diverso se gli sventurati ne avessero avuto idea. Dobbiamo loro un’aspra e impietosa resa dei conti con gli assassini”.

“E per quanto riguarda la paga? Non abbiamo balsamo con cui ungerci e voi vi aspettate che moriamo!”. Un gruppo di giustizieri si mise a strillare in segno di approvazione, ma parve che il Pugno non avesse sentito. Qualcuno tra la folla ripeté la domanda, e proprio quando pensava che ne sarebbe seguita una risposta, Nelgor sentì la pressione della massa sulle proprie spalle e fece qualche passo in avanti. Quando si voltò, vide che i presenti si ritiravano mentre qualcosa si faceva strada tra le fitte file. Il Pugno chinò la testa.

“Vi prego di mantenere l’ordine!”. Sembrò che nessuno l’avesse sentito. La folla si faceva sempre più rumorosa.

“Che succede?”, cercò di chiedere a Nostros, ma questi era finito qualche metro più in là. Con aria interrogativa lanciò uno sguardo al collega dietro di lui.

“Non lo so”, rispose l’altro. “È arrivato qualcuno”.

“Spazio, fate spazio… silenzio… lasciatelo passare… spostati…”.

Nelgor quasi con maleducazione iniziò ad aprirsi un varco tra i presenti. Non diede retta alle lamentele. Di chiunque si trattasse, giungeva dal cancello. Si alzò sulle punte nel tentativo di vedere, ma non era l’unico a interessarsi. Il Pugno gridò, ma ciò non cambiò granché la situazione. Tutt’a un tratto, il kas davanti a lui inciampò e lui inaspettatamente si ritrovò nel centro degli eventi.

Un giustiziere era inginocchiato in un cerchio che i colleghi avevano fatto intorno a lui. L’emblema sull’uniforme rovinata non apparteneva al loro Avamposto. Strisciando più che barcollando, il neo arrivato afferrò la mano di qualcuno e sollevò lo sguardo verso il balcone. Nelgor rabbrividì quando la sua voce potente riempì lo spazio, portando un messaggio nefasto.

“Il Condottiero è morto!”.

CAPITOLO QUARTO

“Tutto ciò che non sono, sarò”

Iscrizione su pietra

Una kasa raccoglieva con rabbia il contenuto di una borsa strappata, borbottando qualche maledizione. Le cose le cadevano nuovamente dalle mani ogni volta che si chinava a raccoglierle di nuovo. Se si decide a darsi una mossa e cercare qualcosa in cui potrei metterle, finalmente quel che offre sarà utile a qualcuno. Nonostante tutto, quando lo guardò il suo viso avvampò.

“Buongiorno, signor Karm”.

“Buongiorno, signora”. Lui ricambiò la formula di cortesia, anche se non si era meritata in nessun modo che lui le si rivolgesse così. A tutti piacevano i titoli, soprattutto a un orecchio indigente. “Che problemi avete?”.

La sua interlocutrice allargò le braccia impotente, lasciando che quelle poche cose cadessero nuovamente nella polvere. “Ho comprato dei candelabri e queste sbarre arrugginite. Ho trovato dove posso farle rimontare a buon prezzo come piastrine, così venderò qualcosa anch’io. Ma la borsa mi si è strappata, maledetta lei!”.

“Fate un salto a prenderne una nuova. C’è una pelletteria qui vicino”.

Lei gli lanciò uno sguardo vuoto, rimangiandosi una risposta che probabilmente non gli avrebbe fatto piacere. Lui capì il suo dubbio.

“Non preoccupatevi, baderò io alle vostre cose. Se fate in fretta”.

“Grazie mille, come siete misericordioso”, il suo viso avvampò. Non si aspettava un’offerta tanto generosa, e ne rimase stupita. “Se qualcuno me la porta via…”.

“Non riusciranno nemmeno a toccare quel che vi appartiene”. Occupò con aria da difensore lo spazio di fronte a lei. “Ve lo garantisco personalmente”.

“Che l’Eternorisorto vegli su di voi! Tornerò presto, non vi ruberò molto tempo!”.

Sarà meglio, pensò Karm, guardandola svoltare dietro l’angolo. Era di fretta, ma comunque non poteva trascurare quel che già da una quindicina d’anni faceva con successo. Se dipendi dalla volontà dei Tarnekani, devi tener presente che hai bisogno del loro rispetto, era quello lo slogan che aveva fatto suo già al tempo in cui era un semplice mercante, anni prima che si decidesse a prender parte alla vita politica della città. A dirla tutta, non c’era una gran differenza. Prima si trattava esclusivamente di beni materiali, mentre oggi offriva ideologia. In entrambi i casi, non eri condannato alla rovina purché fossi in grado di interessare i kasi e rassicurarli che quel che offrivi loro era meglio di quanto potessero aspettarsi. Per questo aveva un talento innato. Non ho mai smesso di mercanteggiare, aveva detto qualche tempo prima a un collega del clan, rispondendo alla sua osservazione che è facile occuparsi di politica quando hai accumulato una piccola fortuna. Ho soltanto previsto la crisi e mi sono adattato all’offerta. La mia merce anche oggi ha il prezzo più accessibile. Le parole di conforto, di comprensione, i piccoli gesti di pietà non costavano nulla e portavano molto. Compravano la miseria. Karm non si occupava dei cittadini rispettabili, né si preoccupava eccessivamente dei problemi dei più benestanti del suo quartiere. I concittadini sulla soglia di sopravvivenza erano la sua forza, e le continue lusinghe erano la base più salda della reputazione di cui godeva. Karm il Vicino, lo chiamavano tra loro, anche se la sua villa si trovava in un quartiere dove le loro pellacce non avevano nulla da chiedere. Gli dicevano che era folle a permettersi di attraversare perfino di notte l’Anello Settentrionale, ma lui non aveva nulla da temere. Mentre gli snob gareggiavano per ingraziarsi le strutture più alte, lui aveva trovato il proprio posto tra i più umili, e non gli era neanche passato per la testa di cambiare il suo tragitto quotidiano verso il centro della città con una strada più elegante che girava attorno alle mura di un luogo un tempo occupato dalla classe media, e oggi divenuto l’incarnazione di povertà e insicurezza. Quella bruna cinta di mura nascondeva i propri abitanti come se si vergognasse di ammettere che anche loro erano un’eguale parte di ciò che tutti riempiendosi la bocca chiamavano Tarnek. Lui era una luce nella loro tetra quotidianità, e gliene erano grati, anche se sapevano che non aveva una tale influenza da cambiare i principi di coloro che decidevano. Se saremo fortunati, presto tutto cambierà.

Il volto della kasa brillava per la gratitudine quando tornò con la borsa in mano. La aiutò a riempirla.

“Sono rari quelli come voi, signore. Non so come sdebitarmi”.

“Statemi bene, questa è una ricompensa sufficiente”.

Con un sorriso allargò i suoi i forti denti. “Sapevo che siete una persona particolare fin da quando ho sentito la vostra orazione all’incrocio”.

“Ne tengo spesso. Dico solo quel che penso”.

“È una cosa ammirevole. Nessuno ci presta più attenzione”.

“È una cosa assolutamente riprovevole. I politici dovrebbero tenere soprattutto in conto il proprio popolo”.

“Siete la nostra unica speranza. Cambiate qualcosa. A parte voi, nessun altro può”.

“Mi lusingate, signora. Le mie mani sono legate. Il Clan di Raden non ha rappresentanti nel Consiglio Cittadino. Tutto ciò è conseguenza della loro incuria”.

“Siano maledetti”, ringhiò la donna. L’autorità era odiata, poteva capire perché i suoi pari non mettevano più piede in simili zone. “Forse è l’ultima occasione di fare un passo indietro e lasciare che chi ne è capace metta le cose a posto”.

“Dite bene, solo che evidentemente loro non vi rivolgono attenzione”. Era facile giocare con le emozioni altrui. “E alle prossime elezioni mancano tre anni pieni”.

“Nel frattempo marciremo tutti. Che il fuoco se li pigli!”.

Ora era il turno di Karm di sorridere. “Sopravviveremo. Se siamo riusciti a sopportare i precedenti sette, supereremo in qualche modo anche i prossimi tre”.

“Che Dio senta le vostre parole!”, fece una pausa come per ripensarci, poi gli strinse la mano. “Ancora una volta grazie”.

“Il piacere è stato tutto mio. Abbiate cura di voi”.

Si dimenticò di lei nell’istante stesso in cui s’incamminò. Tre anni. Un periodo per niente breve, soprattutto in condizioni tanto turbolente. Nelle camere del Clan di Raden potevano svendere ai nuovi arrivati le storie sull’attivismo, ma lui già da un pezzo non dava retta a quelle favole. La missione di tutto era sfondare e accaparrarsi un posto nel Consiglio. Lo aveva detto prima delle precedenti elezioni, quando Silgar in quanto presidente del clan aveva avuto il suo posto accanto al Reggente. Certi della propria vittoria, gli idioti non avevano dato troppa retta alle sue parole. Il risultato finale era noto: il Clan dell’Alba li aveva superati per un pugno di voti e si era accaparrato l’ultima delle tre poltrone che venivano elette direttamente. Si sono condannati da soli a un decennio di isolamento. Adesso attendevano tutti con impazienza la fine del mandato, senza tenere nient’altro in considerazione che l’organizzazione di intrighi che si dissolvevano nell’aria. Il popolo crede in noi più che mai, aveva detto quello stesso Silgar alle riunioni della direzione, convinto della stabilità della funzione di capoclan che aveva esercitato troppo a lungo. In ciò vi era della verità, i kasi desideravano ardentemente un cambiamento, ma ciò che lo irritava era soprattutto la certezza che era proprio lui quello che stanti così le cose li avrebbe dovuti rappresentare nel più alto organo cittadino. Io non ci scommetterei, pensò Karm. Silgar era il responsabile della situazione in cui si trovava il loro clan. Il prolungato esercizio della sua funzione era dovuto solo all’inerzia degli undici che decidevano su tutto. Anche se lui stesso era tra le loro file, Karm aveva intenzioni serie che, se avesse avuto fortuna nella loro realizzazione, avrebbero apportato grandi cambiamenti all’interno dell’organizzazione. E anche più in generale.

 

A coloro che lo riconoscevano e salutavano chinava meccanicamente la testa, finché non si lasciò il triste sobborgo alle proprie spalle. Le baracche si fecero d’improvviso più rare e lasciarono spazio a facciate dipinte e a strade pulite i cui corpi sinuosi portavano fino al nucleo cittadino. Sulla soglia di una di esse riposava pigramente una lucertola, lasciando che le sfumature del colore si riflettessero intorno alle sue scaglie riscaldate dal sole. Lavora proprio come la maggior parte dei fenomeni in questo quartiere.

A giudicare dall’enorme clessidra posta di fronte al Centro di Comando, non aveva tardato molto. Allungò il passo e facendo una scorciatoia per una delle strade secondarie si ritrovò di fronte alla sede del clan. Il sontuoso edificio a tre piani apparteneva loro fin da quando lo scienziato Raden trent’anni prima aveva ottenuto il permesso di fondare un’associazione che si era presto ritrovata spalla a spalla con concorrenti che avevano una tradizione dieci volte più lunga. Sarebbe stato un vero peccato permettere a degli incompetenti che una cosa del genere andasse in rovina.

Il portiere lo accolse con gentilezza.

“Al vostro servizio, signore”.

“I miei colleghi sono arrivati?”.

“I signori vi attendono”.

Grazie a Dio almeno in una cosa nella vita sono seri. La leggerezza era talmente caratteristica dei membri della direzione che non sarebbe stato strano che le loro sedute fossero tardate di qualche ora. Si avviò di corsa su per le scale finché i ritratti dei loro predecessori non iniziarono a fissarlo muti dalle pareti e senza bussare volò nello spazio in cui avevano concordato la riunione. I quattro sobbalzarono, sorpresi dalla sua calata.

“Mi dispiace guastare la festa”.

Il lungo tavolo per le riunioni era vuoto, i presenti erano in piedi accanto all’alta finestra. Era una saggia scelta. Anche se i membri ordinari non avevano accesso al piano, non si doveva rischiare che orecchie indiscrete sentissero ciò di cui dovevano parlare. Karm abbracciò ciascuno di loro in segno di saluto.

“Feno, Laet, Kron, Voslo”.

“Sei un po’ in ritardo”, osservò Kron.

“Non sarà mica diventato un peccato?”.

“Solo se sono io ad aspettare”, scherzò Voslo.

“Vi chiedo scusa, amici miei. Avete raggiunto qualche saggia conclusione in mia assenza?”.

“Abbiamo parlato di quanto accaduto ieri”, disse Voslo. “Le conseguenze possono essere serissime”.

“Le conseguenze saranno serie, questo è certo”.

“Karm, pensiamoci bene. Una cosa del genere non era mai successa”.

Forse per questo dovevano essere così superficiali? Gli ci erano voluti anni per prepararli a quello per cui gli servivano, ma nonostante la fatica profusa doveva continuare a ricoprire il ruolo di mentore.

“Ho detto qualcosa di stupido?”.

“Non ho detto questo. Tuttavia…”.

“Tuttavia cosa?”.

“Hanno ucciso il Condottiero dell’Ordine. La cosa può influenzare anche i nostri piani”. Tutti gli altri approvarono silenziosamente le parole di Voslo. Aveva voglia di gridare, ma non perdette di vista il fatto che non poteva permettersi di perderli.

“Me ne occuperò io. L’assassinio del Condottiero è una cosa terribile. Per niente buona per la città, nefasta per la società. Ma come buoni strateghi cerchiamo di trovarvi qualcosa che possa tornare a nostro vantaggio”.

“So dove vuoi parare”, disse Laet. “Ci ho pensato un po’ su”.

“Non ho mai dubitato del tuo giudizio, caro Laet. Ma a differenza tua io ci ho pensato su abbastanza. Volete sentire le mie conclusioni?”. La domanda presupponeva una risposta, ma lui continuò senza attenderla. “Il Condottiero è morto, e al suo posto vacante nel Consiglio accederà il suo vice. Per legge occuperà tale posto fino a che non verrà eletto un nuovo comandante supremo dell’Ordine. Persino i mendicanti sanno che si tratta di un kas stupidissimo, che il compianto Tonas Minar ha tenuto in quella posizione solo perché gli faceva pena. Inoltre, dicono che fosse il miglior valletto al Centro di Comando”.

“È uno dei più grandi scherzi della natura di Tarnek”, si lasciò andare Kron. “Tutti sanno che l’unica cosa di cui si occupava durante il servizio era lustrare le scarpe del Condottiero”.

“È così”, ammise Karm. “Ma quello scherzo della natura da ieri siede tra coloro che tirano le fila e ha diritto di voto. Ed è una cosa molto importante. Non solo, quelli che hanno avuto occasione di conoscerlo, ed io stesso posso contarmi tra i fortunati, sanno di che persona si tratta. Se si prende in considerazione la sua vanità, cosa in cui supera la maggior parte dei suoi colleghi, non è difficile fare due conti e concludere che in questo momento si vede come un erede incontestabile”.

“Non ha alcuna chance”, controbatté Feno. “Lo diventerà qualcuno dei sette Pugni”.

“Ne sei sicuro?”, sogghignò Karm.

“Può cambiarli tutti personalmente. Ora ha i pieni poteri”, disse Kron. “Mi stupirebbe se non lo facesse già in questi giorni. Se fossi al suo posto, mi comporterei così, e metterei persone che mi supporterebbero”.

“Se ce ne sono”, commentò Voslo.

“Tutti hanno un prezzo, soprattutto al giorno d’oggi”, concluse pacificamente Kron.

“Comunque sia, è di nuovo il Consiglio a confermare l’elezione”, fu cauto Feno. “Anche se il fenomeno si presentasse, gli altri quattro sosterranno il Reggente che non sarà favorevole. Il Clan della Speranza, il Clan della Rupe e il Clan Stellare sono i suoi rappresentanti. Rimane ancora il Sommo Sacerdote che non ha mai votato contro. Il risultato è scontato”.

“Hai ragione”, confermò Karm. “Ma dimentichi una semplice cosa. Da centinaia di anni il Consiglio prende tutte le decisioni significative all’unanimità. È una tradizione che rappresenta stabilità. Se riguardo a una questione così cruciale si giungesse a una seconda votazione, il Reggente perderebbe anche l’ultima goccia su cui fa perno la sua autorità ormai scossa. È una cosa che non permetterà”.

“Che cosa prevedi?”, domandò Kron.

“Quel che è ovvio. Li aspetta una serie di sedute in cui daranno tutti sé stessi per convincere il Vicecondottiero a ritirarsi. Auguro loro ogni fortuna, la stupidità di Strontje è una corazza tanto dura che perfino l’Eternorisorto in persona avrebbe difficoltà a spezzarla. Eppure non posso compatirli, perché la cosa fa al comodo nostro”.

“Non ne vedo l’utilità”, disse Feno.

“Dio santissimo, ce l’hai davanti agli occhi”, schioccò Laet, poi rivolse uno sguardo a Karm. Quegli gli fece segno con la mano di continuare. “Se si dovesse procrastinare, e sono d’accordo che la situazione è più che chiara, se ne sentiranno le conseguenze in tutte le strutture. In tal modo l’Ordine già scosso s’indebolirebbe ancor più, il nuovo Condottiero senza dubbio darà tutto sé stesso per compiere delle azioni che otterranno solo un effetto contrario. L’insoddisfazione diventerà ancora più grande”.

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