Le Mura Di Tarnek

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Mancava ancora qualche ora all’alba, e Gihtar si sentiva comunque più stanco di quanto fosse stato da molto tempo. Anche se non c’era rischio che lo sentissero, scivolò silenziosamente attraverso la porta socchiusa della baracca, e tenendo d’occhio le ombre sgattaiolò fino al muro della bottega. Nella stanza aveva qualche metro di tela morbida, ottenuta in pagamento, e vi avvolse le suole rinforzate delle sue scarpe. Nel silenzio notturno si muoveva senza fare alcun rumore.

Questa volta la bottega non era la sua destinazione. Era uno scarto rispetto alla pratica ormai da anni consolidata, ma era un nonnulla rispetto a quello che sarebbe dovuto accadere dopo. Per quanto fosse il simbolo della sua sofferenza e dell’ingiustizia subita, amava quel posto. Là da qualche parte mi attende qualcosa di meglio e di più bello, pensò mettendosi a cercare la risolutezza dentro di sé. Le istruzioni erano chiare, presto tutto ciò sarebbe stato soltanto una parte del suo difficile passato. Per sempre alle mie spalle.

Il giardino era inondato dalla luce lunare. All’altra estremità si trovava il padiglione, che – come un fiore – si levava in alto su uno zoccolo di pietra. Da qualche parte laggiù meditavano Kulu e Sirmiona, incuranti della propria insolenza, sicuri della certezza di cui godevano immeritatamente. Non farò più parte di tutto ciò.

In pochi passi Gihtar si trovò accanto al muro che cingeva la proprietà, ma non si diresse verso il cancello principale. Non ancora. Il terreno dietro la baracca non era così ben ordinato, ma rappresentava piuttosto l’altro lato della vita nella proprietà di Kulu, di cui lui stesso faceva parte. Pezzi rozzi di minerali e materie prime non lavorate erano accatastati in grosse pile nell’attesa che mani esperte dessero loro forma. La loro quantità non era conseguenza di un’attenta raccolta delle riserve, ma il frutto di un insensato acquisto di tutto ciò che si poteva avere con la minima spesa. A volte per mesi si accumulava solo legname, mentre vi erano periodi in cui ogni cinque giorni vi si scaricavano i metalli più svariati, spesso perdendo la possibilità anche solo di registrare quanto era stato così depositato. Ogni tanto accadeva che una pila crollasse, e se presagiva tale possibilità, il maestro la preveniva esortandoli a lavorare come dei forsennati e a riversare articoli già pronti nell’immenso magazzino sotterraneo.

Ciò che lo interessava era il portone di servizio, e notò con felicità che era vuoto. Il compito di Tolum prevedeva tra le altre cose di montarvi la guardia durante la notte, ma la pigrizia riempiva ogni parte del suo essere. Probabilmente per la gran mole di lavoro e perché conducevano esistenze separate, Gihtar non aveva mai avuto l’occasione di conoscerlo meglio e anche i pochi contatti che avevano avuto non avevano suscitato in lui un desiderio più serio. La guardia era un’armatura vuota, tanto priva di personalità e tanto ordinaria che gli dava fastidio anche solo dedicargli i propri pensieri. Un tempo si era interrogato sul suo rapporto con il maestro, se anche lui condividesse la grave pena di un arduo servizio, ma alla fine si era stancato di tutto ciò. Se qualcuno meritava un superiore come Kulu, quello era Tolum.

Come sempre, l’ampio portone era ben sbarrato. Gihtar dubitava che qualcuno se ne fosse occupato mentre lui era impegnato alla forgia. Aveva avuto indicazioni di svolgere tutti i lavori pesanti e probabilmente proprio una serie di incarichi era l’unica ricompensa che lo attendeva nei giorni successivi. Bussò con calma sul portone al ritmo del segnale concordato, e due ombre passarono come un fantasma presso il muro e si appostarono sulla sua sommità senza compiere più alcun movimento. Persino a una tale vicinanza era difficile distinguerle dall’ambiente circostante. Sicuramente per loro non è la prima volta.

Doveva procedere oltre.

Mentre lasciava i cumuli delle scorte alle sue spalle, gli sembrò di vedere un movimento sul muro opposto, ma non riuscì a capire se era solo la distanza a prendersi gioco di lui. Tieni conto solo di quanto ti dico di fare, gli era stato chiaramente indicato, e fermamente deciso ad attenersi a tali istruzioni si avvicinò alla dimora di Kulu. Si fermò solo quando avvistò Tolum.

Era un kas grande e grosso, e ciò che impediva alla sua figura intera di essere armoniosa erano di fatto le mani – innaturalmente piccole in rapporto alla sua altezza, indubbiamente funzionali e tuttavia troppo impacciate per poter possedere qualche qualità più nobile della forza bruta. Lo stemma maldestramente ricucito del maestro Kulu, un martello da fabbro circondato da quella che sarebbe dovuta essere una collana, s’intravedeva appena sulla stoffa scadente della tunica che persino sotto il manto della notte appariva sporca. Se non riesco a convincerlo, sarò in guai grossi. Tastò il pezzo di carta rilegata e lo strinse forte. Le cose erano ormai andate troppo oltre, non poteva più tornare indietro e tutto quel che poteva fare era riporre la speranza nell’attendibilità delle promesse di Set. Nella tasca troverai un messaggio. Non leggerlo per nessuna ragione, ma dallo al guardiano quando arriverai sul posto.

“Tolum”, lo chiamò sottovoce. Non vi fu alcuna reazione. Quanta devozione al proprio dovere. “Tolum”, tentò un po’ più forte, temendo per le possibili conseguenze. Anche se il guardiano era duro d’orecchi, i due dentro il padiglione no. Per fortuna, riuscì a strapparlo al suo sonno e lui alzò lo sguardo. Gihtar fece un passo avanti, facendogli segno con le mani di non fare rumore.

“Che ci fai qui?”, sussurrò il guardiano.

“Sono venuto a portarti questo”, gli porse il rotolo. Tolum lo fissò guardingo.

“Che cos’è?”.

“Una lettera per te”.

“Una lettera? Sai che ora è?”.

“Prendila e leggila, su”.

“Non dovresti essere qui”, continuò l’altro, si guardò attorno, poi aggiunse più piano: “Da parte di chi?”.

“Ti prego, prendila”.

Tolum infine obbedì, e sembrò trascorrere un’eternità prima che riuscisse infine a sciogliere la cinghia con cui era avvolta. Gihtar poteva distinguere le spesse linee che formavano le poche parole, ma il guardiano dovette avvicinarla al volto. Per fortuna, sa leggere. L’alfabetizzazione non era affatto una rarità, ma nel caso di Tolum non lo avrebbe sorpreso il contrario.

Qualsiasi cosa vi fosse scritta, ebbe un certo effetto. L’uomo nascose in tutta fretta la carta sotto la cintura, e si passò le mani impacciate tra i radi capelli.

“Spero che non sia un qualche trucchetto. Se mi prendi in giro, te ne pentirai”. Benché dovesse suonare come una minaccia, dalla forte apprensione nella sua voce risultò quasi buffa. Gihtar aveva la risposta pronta e sperava che servisse allo scopo.

Occhio di Luna, non ho altro da dirti”.

Tolum rimase di stucco, come se non potesse credere a quanto aveva appena sentito. Poi si mosse di scatto e iniziò ad allontanarsi a passi veloci verso la bottega. Proprio quando iniziava a pensare di essersene sbarazzato, quello si fermò, si voltò verso di lui e fece qualche passo avanti.

“Non muoverti da qui. Finché non torno”.

“Non c’è fretta. Ma non fare rumore”.

Il guardiano chinò la testa e riprese ad affrettarsi. In breve tempo di lui vide solo i contorni, e poi le tenebre si chiusero attorno a lui. Gihtar si sentiva a disagio. Non si sentiva alcun rumore.

Ancora un po’ e tutto sarà compiuto. Ora che l’ostacolo principale era stato aggirato, il pericolo di essere colto sul fatto era di gran lunga inferiore. Combattendo con l’agitazione si trascinò fino all’ingresso principale e tirò la maniglia che apriva il battente. Il cigolio del meccanismo squarciò la notte, finché l’ultima difesa della sicurezza di Kulu non si aprì per lasciare spazio a ciò che doveva accadere.

Tutto si svolse come un lampo.

Preoccupato che il rumore potesse risvegliare i proprietari, Gihtar si diresse verso il padiglione, giusto in tempo per vedere delle figure ombrose scivolare abilmente sulla rampa e prendere posizione accanto al portone indifeso. Mentre cercava rifugio al riparo del muro, attraverso il silenzio riecheggiò un’esplosione e lui con un malevolo piacere di cui non avrebbe mai neppure immaginato di essere capace capì che avevano fatto irruzione. Sirmiona lanciò un urlo acuto quando la luce di una fiaccola illuminò l’ambiente. Farà loro del male? Dalla distanza a cui si trovava non poteva vedere l’interno, ma i rumori portati dal vento gli fecero comprendere che nelle stanze del suo padrone non stava succedendo niente di piacevole.

Alla sua destra si sentirono delle voci e un’ala del cancello aperto colpì con forza il muro quando attraverso ad esso irruppero nella proprietà un gran numero di persone, cadendo una dietro l’altra. Con terrore riconobbe l’uniforme dell’Ordine su una di esse. È la fine, sarò catturato. La legge era giunta da sé, come aveva potuto essere tanto stupido da accettare la proposta di Set? Dalla posizione in cui si trovava era difficile passare inosservato, e soprattutto sembrava che gli intrusi come per dispetto avessero illuminato le stanze di Kulu con tanta luce che ogni tentativo di nascondersi sotto il velo delle tenebre era vanificato.

La bottega, devo riuscire a raggiungerla. La profonda cantina sarebbe potuta servire come nascondiglio, avrebbe avuto abbastanza tempo per organizzare una difesa, una volta nascosto. O quello – o tentare di fuggire di lì e trovare asilo nelle strade di Tarnek. Quanto tempo ci sarebbe voluto prima che lo trovassero? Si trovava di fronte a una scelta tutt’altro che facile. Avrebbe potuto raggiungere la bottega per la stessa strada con cui era arrivato fino lì, ma laggiù si aggiravano delle ombre. Non riusciva a immaginarne il numero. L’altra strada s’insinuava tra il padiglione e l’ingresso principale, ma lì ora si trovava l’Ordine, e se lo avessero preso si sarebbe dovuto fare largo tra i giustizieri. Si trovava di fronte allo stesso dilemma anche se avesse scelto la fuga. Posso far finta di essere una vittima. Li manderò al piano di sotto e fuggirò.

 

Prese una decisione. Non si sarebbe mai permesso di rinunciare alla libertà, per quanto poco potesse durare. Non ora che ce l’aveva tra le mani. Forse non mi noteranno affatto, pensò, e che cosa potrebbero mai farmi in nome di Dio? Preso dal panico, rimase quasi accecato da quanto accadeva intorno a lui, registrandolo solo con gli occhi e non con l’intelletto. Uno dei guardiani della legge ruotò su sé stesso e quasi gli cadde sui piedi quando un kas con una corazza di cuoio lo colpì con un’enorme mazza. Gihtar scoppiò a ridere, reso folle dall’improvvisa consapevolezza. L’Ordine era lì, ma non era solo. Quelli con cui tentavano di combattere erano due volte di più. Riecheggiò un suono acuto quando uno di loro brandì la spada e un braccio avvolto nell’uniforme prese il volo nell’aria. Il mio lavoro, pensò, è così che taglia quel che io forgio, e appena un attimo dopo si trovò faccia a faccia con un altro proprietario dell’opera a cui si era tanto a lungo dedicato. Mi colpirà. C’era qualcosa di selvaggio nell’idea che sarebbe stato ferito da una lama che lui stesso aveva creato.

“Lui è con noi”, riecheggiò una voce ferma e il suo aspirante assalitore si spostò, alzando la lama in alto sopra la testa, pronto a calare il colpo su chi lo avesse meritato. Prima che riuscisse ad abbassare il braccio, una punta di ferro con precisione quasi chirurgica fece breccia nella corazza di pelle dura sulle sue spalle e appena un attimo dopo furono tutti bersagliati dai rimasugli di quanto un tempo componeva il suo torso. Rabbia e soddisfazione brillavano sul volto del guardiano della legge, che gettò a terra il trinciante usato e di scatto estrasse un pugnale correndo verso Gihtar. Mi ucciderà, pensò, e tentò di difendersi alla bell’e meglio. Sarebbe stato tutto di gran lunga più facile se avesse avuto un’arma qualsiasi. Non c’era quasi spazio di manovra, il mondo attorno a lui era diventato una massa di grida e colpi e lui pensò al fatto che era un vero miracolo che fosse ancora in piedi. Pochi istanti lo dividevano dal suo assalitore e lui con ammirazione pensò all’energia del colpo che ne sarebbe inevitabilmente seguito. Vuole uccidermi. Il suo boia, ormai a un passo dal suo scopo, inciampò sui resti di qualcosa, e se non avesse avuto un’aria di stupore sul volto Gihtar non si sarebbe accorto della situazione salvifica che gli si era inaspettatamente presentata. Guidato da un istinto di cui in precedenza non era mai stato cosciente, si spostò abilmente di lato e con un forte colpo placò per sempre l’ira del suo aspirante carnefice. Sembra che ora io possieda un’arma. Sconvolto dalla vista del cranio deformato del kas, tento di valutare quanto balsamo sarebbe stato necessario per curare lo sfregio che i frammenti d’osso avevano procurato alla sua mano. Lo strappò dallo stato di trance una mano che lo scuoteva stringendogli forte una spalla. “Maledetto, gli hai fatto saltare la testa con un pugno!”, urlò un volto rozzo ricoperto dalla barba scoprendo allegramente una serie di denti affilati. “Lo hai spappolato come se fosse una torta di zucchine!”.

Si guardò attorno, barcollò, tentando di allontanarsi dal cadavere accanto al quale stava in piedi. Aveva ucciso un kas – per quanto fosse una questione di difesa, l’aveva comunque ucciso. Un altro Gihtar dentro di lui pensò quant’era bizzarro trovarsi dentro il Gihtar criminale. Gihtar l’assassino. La proprietà era illuminata a giorno, e lui comprese che il padiglione era in fiamme. Le figure oscure, ora radunate alla base del gigantesco falò, non erano più ombre – la torcia aveva scoperto le loro nere uniformi, per niente meno spaventose di prima. Il cadavere di qualcuno bruciava mentre gli altri trafficavano intorno a dei supporti di legno sui cui era riposta una cassa. Tutto attorno si trovavano i resti di quelli che non si sarebbero più risvegliati. La battaglia presso il cancello era giunta al termine.

“Andiamo!”, gridò qualcuno, e la folla si affrettò verso l’uscita. Gihtar si lasciò trascinare dalla massa, e ben presto correva completamente disorientato per le strade vuote della città. Camminando al ritmo dei passi dei suoi inattesi commilitoni, si guardava attorno disorientato – le mura, i tetti, la notte che pian piano spariva lasciando spazio al suo primo mattino di libertà, così forte e impressionante da ubriacarlo e da sembrargli che quella che fino a ieri pareva vita fosse così lontana da non essere mai successa. Correva come un pazzo, selvaggio e sregolato, sorbendo ogni dettaglio con un entusiasmo per via del quale il suo corpo ardeva. E adesso, all’improvviso, come tutto ciò che era accaduto quella notte, il suolo sotto i suoi piedi svanì e lui cadde nelle tenebre.

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Quando recuperò i sensi, si accorse di essere in un’immensa sala senza finestre, piena di kasi che parlavano allegramente tra loro, ridendo e scherzando sotto la forte luce della fiamma che ardeva in un focolare in muratura al centro della stanza. Era seduto a un tavolino in un angolo, e di fronte a lui si trovava un barile di legno pieno di balsamo. I suoi vestiti erano per la maggior parte strappati, e gli vennero alla mente le sue cose, che aveva lasciato probabilmente per sempre nella baracca nella proprietà del maestro Kulu.

Quando tentò di alzarsi per osservare meglio l’ambiente attorno a sé si accorse di essere troppo debole per reggersi in piedi. L’esperienza inattesa aveva preso il suo dazio, e lui con sofferenza richiamò alla memoria l’ultima volta che era riuscito a compiere una meditazione completa. Era un vero miracolo che fosse riuscito a reggere tanto a lungo. Una voce si distinse tra tutte altre, ma non poté distinguere cosa avesse detto. Chiuse gli occhi. Come se fosse importante, pensò. Tutto era compiuto, non avrebbe mai più dovuto sopportare la tortura, e qualsiasi cosa lo attendesse non poteva essere peggio di quanto si era lasciato alle spalle. Quella consapevolezza lo tranquillizzò.

“Ti piace la libertà?”. A differenza degli altri, la fonte dell’inattesa domanda era nota e Gihtar con stanchezza sollevò la testa. Set sorrideva. Anche lui sembrava spossato mentre con una mano si appoggiava a un kas più basso il cui volto era nascosto da un cappuccio nero. “Abbiamo avuto qualche piccolo problema con l’Ordine, ma alla fine è andato tutto bene. Qualcuno quaggiù dice che hai la mano pesante”.

“Ho agito secondo le istruzioni”.

“Sì. Sono felice di non essermi sbagliato quando ti ho affidato questo compito”.

“Kulu e Sirmiona…”.

“Sono morti. Non opprimeranno più nessuno. Devi esserne felice”.

Gihtar tuttavia si sentiva più vuoto che felice. In ogni caso, la cosa gli faceva piacere.

“E Tolum?”, domandò sottovoce. S’immaginava che anche a lui non fosse toccato un destino migliore.

“Il guardiano non è stato un problema. Fino all’ultimo istante non si è potuto rassegnare al fatto che lo attendeva la nostra fratellanza, invece di quel che si era aspettato dopo aver letto la lettera”.

“Che stupido kas…”.

“E di natura assai amorosa, se posso fare un’osservazione”, aggiunse Set quasi con allegria. “Visto che siamo già in argomento, permettimi di presentarti il suo Occhio di Luna”.

Se il guardiano volesse controllare, digli solo questo nome, ancora si ricordava le istruzioni di Set. La figura accanto a lui si abbassò il cappuccio e Gihtar ne vide il volto.

“Lenora…”.

“Mio signore apprendista”, prese parola lei fingendosi umile, “benvenuto nella Fratellanza Nera”.

CAPITOLO TERZO

“… All’interno della città, nostra è la giustizia!”

Giuramento dell’Ordine

Per un attimo aveva pensato di essere nell’Avamposto, ma quella supposizione si dissolse tanto facilmente quanto era comparsa. Era a casa, e si abbandonò a quella piacevole sensazione mentre la coscienza gli riempiva nuovamente il corpo. Giornata libera.

Quel che lo ritemprava era il rumore che veniva dalla stanza accanto. Aperti gli occhi, Nelgor diede un’occhiata all’uniforme appesa accanto alla porta. Un raggio di sole cadeva su un bottone levigato, facendo sembrare che fosse fatto d’oro. Monada. Deve averlo pulito lei. La notte precedente aveva avuto appena le forze di liberarsi dai vestiti e pulirsi con un asciugamano. Che brava kasa. Sembrava che avesse meditato a fondo, perché non l’aveva affatto udita alzarsi e uscire. Non l’ho neanche sentita. La stanchezza e lo stress facevano la loro parte. Un tempo quasi non vi era notte in cui non fosse cosciente della sua presenza, e non appena si stendevano la loro energia dava inizio alla loro danza, vorticando liberamente e selvaggiamente attorno ai corpi esausti. Notti d’amore. Grazie a quegli ardori tornava a essere più completo che mai, pronto a lavorare per giorni senza interruzioni. Purtroppo, situazioni del genere erano ormai sempre più rare, e anche quando accadevano erano più meccaniche che caratterizzate da una sincera sensualità. Probabilmente con gli anni certe cose erano diventate ordinarie. Nonostante tutto, la amava con lo stesso ardore.

Indossò velocemente la vestaglia e diede un’occhiata attraverso la finestra. La giornata è stupenda. Due kasi passeggiavano pigramente per la strada chiacchierando tra loro. Si fermarono di fronte a una vetrina e si misero a guardare dei tappeti sontuosamente decorati. Sulla porta si affacciò il proprietario e si scambiarono qualche parola che lui non poté sentire. Riconobbe Fenor; viveva al pianterreno e per quanto potesse essere scorbutico con i clienti era sempre cortese senza alcuna eccezione. Potremmo fare due passi oggi.

Avvistò Monada non appena mise piede nella stanza principale. Questa era l’unico altro spazio che insieme alla sala per la meditazione formava ciò che chiamavano casa. In ogni caso non potevano vantarsi della grandezza dell’appartamento, ma le loro esigenze erano pienamente soddisfatte. Sul pavimento accanto al tavolo si trovava un secchio; Monada, china su di esso, ne stava amalgamando il contenuto con grande impegno con un mestolo di legno. Quando lo sentì, sollevò la testa, lottando con una ciocca di capelli color porpora che dispettosamente le nascondeva lo sguardo. Quant’è bella.

“Sei tornato”, lo salutò. “Non volevo disturbarti, mi sarebbe dispiaciuto”.

“Avresti dovuto”, con un tenero gesto le allontanò i capelli dal volto. “Per poco non ti vedevo neanche oggi”.

Lei sorrise. “Che importa, dovevi riposarti”. Il suo sguardò si posò sulla scura mistura di cui si stava occupando. “Sono uscita in silenzio per non svegliarti. Ho portato il collante… pensavo che mi avresti aiutato a rattoppare quel…”.

Nelgor fece una smorfia. “Moni, perché continui a insistere? Poteva aspettare”. Qualche mese prima in un angolo del soffitto si era aperta una crepa. L’edificio era vecchio, ma comunque non era una cosa che sarebbe dovuta accadere. In ogni caso, non si era preoccupato troppo, i dispiaceri sarebbero comparsi solo se fosse iniziato a piovere e i rovesci erano tanto rari che non si poteva ricordare quand’era stata l’ultima volta che il cielo aveva bagnato Tarnek. D’altra parte, Monada non aveva smesso di frignare e la cosa lo irritava sempre più. Temeva che il buco potesse allargarsi, e l’umidità era quel che la preoccupava di più. Quando s’intrufola non hai modo di liberartene, gli aveva detto, e quando compare la cancrena allora è troppo tardi. Era la verità, ma le cose non erano poi così tragiche. La morte cancrenosa coglieva le sue vittime in molti modi, e non c’era un motivo razionale per una tale paura di tutto ciò che avrebbe potuto causarla.

Doveva immaginare che era questione di giorni prima che la donna prendesse in mano la situazione. Era ostinata e testarda. In reazione alla critica, i suoi occhi rivelarono un chiaro messaggio. Se vuoi metterti a discutere, accomodati pure. Forse si sarebbe sottomesso senza opporre resistenza, e avrebbe accettato il lavoro, ma la domanda che seguì s’impose da sé.

“Con che cosa hai pagato?”. Quell’anno era stato particolarmente pesante, e il terzo trimestre che stavano ora attraversando non infondeva speranze che si concludesse meglio di com’era iniziato. La grande domanda era che cosa avrebbe portato con sé il futuro. Aveva la fortuna di servire l’Ordine, ma poteva ringraziare solo la sua parsimonia per le scorte di balsamo che avevano accuratamente messo da parte. Allo stesso tempo, le ore di straordinario comportavano un ragguardevole profitto, e oggi non si sapeva se la norma ordinaria avrebbe portato frutto. Già tre volte al posto della paga avevano ricevuto una garanzia, un pezzo di carta con cui la città s’impegnava a trasformarlo in quello che si erano onorevolmente guadagnati non appena si fossero accumulate riserve sufficienti. Non avevano potuto rifiutare. Non le aveva mai imposto la propria volontà, ma aveva solo una preghiera, un’unica semplice regola che si aspettava venisse rispettata. Non rivendiamo il balsamo. Raramente avevano altri beni che potevano essere scambiati, perciò vivevano semplicemente, ma perlomeno a differenza di molti non dovevano preoccuparsi per la propria pelle.

 

“Ne ho preso appena un po’”. Nella voce c’era senso di colpa, ma non pentimento.

“Per l’amor di Dio, Monada!”, gridò lui. “Non posso credere che l’hai fatto!”.

“Ne ho preso un briciolo, non farne subito un problema!”.

“Ma questo è un problema!”. Dopo la prima volta ne sarebbe giunta anche una seconda, e l’eccezione in brevissimo tempo sarebbe diventata una regola. “Sprechi ciò da cui dipende la nostra vita per qualcosa di insignificante come il collante!”.

“Non è colpa mia se abbiamo solo quello da spendere”. La sua risposta la colpì come una lama. Non parlavano mai del fatto che solo il suo lavoro era retribuito. Monada era un’artista, una pittrice, e quella professione non era messa bene neppure in tempi migliori. Non aveva mai pensato di lasciarla per quello, era sottinteso che lavorava per entrambi. Era un colpo basso, e non era affatto degno di lui.

“Mi dispiace, ma è tutto quel che abbiamo”. Aveva abbassato i toni, trattenendosi dall’offesa. “Se pensi che dobbiamo rimanere anche senza quello, fa’ pure. Spendilo tutto”.

“Non lo farei mai!”. Il mestolo le cadde dalle mani e finì sul pavimento. “Come puoi non capire, volevo proteggerti. Quel buco… dobbiamo rattopparlo”.

“Sono d’accordo, ma non così. Sai quanti kasi non hanno la possibilità di permettersi nemmeno un unguento annacquato?”.

“Meglio di te. Il fatto che sei di servizio non significa che tu sia l’unico a vedere quanto accade”.

Non ne hai la benché minima idea, pensò lui, ma stette zitto. Il giorno prima durante il turno era scoppiato un focolaio. Un criminale era fiorito, e per qualche ragione i più deboli si erano trovati a portata di tiro del bandito. Li avevano inceneriti ancora morenti, nascosti in un angolino, come se la cancrena non avesse già abbastanza amareggiato il loro destino. Era impossibile rintracciarli, la ricerca si era trasformata in un circolo vizioso. I pochi testimoni erano troppo spaventati per dare una qualsiasi informazione, e nuovi focolai germogliavano quasi ogni notte.

Conscio che una qualsiasi parola di troppo avrebbe solo potuto far scoppiare una lite aggiunse con più calma: “Puoi promettermi che non farai più cose del genere?”. Non voleva trascorrere nell’ira i pochi momenti liberi insieme a lei. Quel che era stato fatto non poteva più essere corretto.

Lei chinò lo sguardo sul pavimento, come se la risposta si trovasse vicino alle loro gambe. Quando lo guardò, seppe che aveva placato la sua rabbia e inghiottito il rospo.

“Lo giuro”. Agli angoli della sua bocca c’era qualcosa che poteva sbocciare in un sorriso. “Non avevo intenzione di sprecare quel che abbiamo, ma credo davvero che sia una necessità. Volevo solo il meglio”.

“Lo so”. La abbracciò e la stanza si riempì di un piacevole silenzio.

“Ci mettiamo al lavoro o continuiamo a ciondolare?”. Il sussurro di Monada gli solleticò l’orecchio.

“Al lavoro. Ma dopo dobbiamo goderci questa giornata insieme”.

Come la maggior parte delle cose che si potevano acquistare a Tarnek, neanche il collante era particolarmente di qualità. Monada teneva il recipiente mentre lui si sforzava di mantenere l’equilibrio sull’instabile sedia e riempiva il buco con il miscuglio che si asciugava più lentamente di quanto previsto. Proprio quando pensava che il lavoro fosse ormai terminato, parte del miscuglio crollava, scoprendo nuovamente un pezzetto di cielo sereno. Quello che sarebbe dovuto essere pronto in meno di un’ora, ne richiese due, e quando finalmente fu terminato entrambi guardarono con soddisfazione il proprio risultato.

“Finalmente”, disse lei. “Il venditore mi aveva assicurato che era di prima qualità. Che sia maledetto!”.

“Dove l’hai comprato? Al mercato?”, domandò Nelgor.

“In Via Argentata. Mi dava fastidio andare tra la folla”.

“Non sapevo che ci fossero dei venditori anche lì”.

“Già da un po’, non sono in molti, giusto due o tre. Principalmente di materiali da costruzione. Anch’io li ho visti per la prima volta qualche giorno fa, quando sono andata a trovare Kartagona. Le loro bancarelle sono proprio accanto a casa sua”.

“Mi stupisce che non ci abbiano ancora mandati a cacciarli via. È un quartiere troppo ricco perché trasformino anche quello in un mercato. Che cosa dice Kartagona, non hanno fatto rapporto?”. Era una kasa pignola, con degli sguardi piuttosto irritanti sulla società, che non perdeva occasione per imporre il proprio pensiero persino nelle situazioni in cui nessuno glielo aveva chiesto. Eppure, rispettava il fatto che fosse amica di Monada.

“No. Per loro è meglio che si trovino accanto a casa che andare tra la folla. Vorrebbero anzi che l’offerta si ampliasse”.

“Sono diventati così pigri?”.

“Non è quello il punto. Hanno paura”.

La risposta non gli fece piacere. I kasi ricchi da sempre avevano un’alta opinione di sé e amavano ostentare il proprio prestigio. Probabilmente lo trova più degradante di quello che teme. Tuttavia, e se fosse questa la verità? E se fossero infino giunti al punto in cui anche i potenti avevano paura? Per le strade c’erano kasi di ogni tipo e non si era mai trattato di una questione di carattere, ma del loro livello di prepotenza. Quanto siamo diventati impotenti?

“Penso che esageri”, disse. Monada fece solo un cenno con la testa. Valutare le ragioni altrui non la interessava.

“Ti ricordi che ti ho parlato della vicina di Kartagona, Jotaka?”.

Lui annuì.

“Beh, stamattina le ho incontrate entrambe mentre facevo compere e mi hanno invitato a casa loro”.

“Un po’ di chiacchiere tra amiche”. Non aveva intenzione di essere ironico, ma Monada in ogni caso non vi avrebbe rivolto grande attenzione. Voleva condividere qualcosa con lui.

“Quella Jotaka un tempo era insegnante di filosofia, ma ha lasciato il lavoro. Forse per mancanza di interesse si sono fuse due scuole, e così si è formata una folla troppo grande. Dice che non aveva intenzione di andare fino all’altro capo della città per una lezione alla settimana”.

“Tenendo conto della situazione, è molto responsabile da parte sua”.

“È ricca, può permetterselo”.

“Incredibile per un’insegnante di filosofia”.

“Ha avuto un qualche kas, credo si trattasse di un giudice. Quando la Torre di Cristallo lo ha chiamato al riposo, già da tempo le era stato intestato tutto”.

“Ora si spiega tutto”, sbuffò lui.

“Ma questo adesso non importa ai fini del racconto. In generale, abbiamo chiacchierato un po’ anche l’altra volta, ma oggi abbiamo continuato. Sai, dopo che ha lasciato il lavoro, si è completamente dedicata alla religione”.

“Filosofo un giorno, filosofo per tutta la vita. Lo studio della religione non contribuirà granché alla società. Ma probabilmente ci penserà quando perderà tutto quello che ha ereditato”.