Le Mura Di Tarnek

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Il Sacerdote Galanor, priore della Chiesa Vecchia di Tarnek, dopo un devoto adempimento quarantennale del proprio dovere, e dopo settantadue anni di servizio nella Chiesa, è stato richiamato dal Sarto dei sogni ed è entrato nella Torre di Cristallo, lasciandoci a ricordare il suo fruttuoso ciclo, le cui tracce serviranno in eterno come base su cui proseguire la costruzione della nostra dottrina.

Seguendo la santa legge della Chiesa, che impone che i sacerdoti non possano essere nuovi risvegliati ma solamente scelti tra le schiere dei kasi che hanno fatto voto a Dio, i Tre hanno intrapreso un’analisi approfondita dei candidati adatti, sui quali erano stati informati per grazia delle vostre santità tramite i resoconti annuali.

Basandosi esclusivamente sul valore delle virtù, dopo una seduta di nove ore, i Tre hanno preso una decisione unanime.

Come sacerdote della Chiesa Vecchia si nomina il predicatore Sarius, fratello della Chiesa della Speranza, risvegliatosi nell’anno 1979 nel quinto giorno del trimestre del Sarto.

La Santa Fratellanza informa della propria decisione il Sacerdote della Chiesa dello Sguardo Divino Logon, il Sacerdote della Chiesa della Speranza Tios, il Sacerdote della Chiesa di Beanor Kudor, nonché il sovrintendente della Chiesa Vecchia Vandor. S’invita il Sacerdote della Chiesa della Speranza Tios a informare tempestivamente al ricevimento della presente lettera il neoeletto Sacerdote della decisione dei Tre.

Che l’Eternorisorto Vi porti la pace!

Le braccia di Sarius ricaddero pesanti accanto al corpo e lui rivolse uno sguardo silente alla figura che lo osservava in silenzio. Il sorriso sul volto di Tios non diminuiva la serietà della situazione che gli era crollata come un muro sulle spalle, mentre lottava senza successo per placare la tempesta dei suoi pensieri. Era impossibile collegare le righe che aveva letto alla realtà.

“Vuoi leggere ancora una volta?”, gli domandò gentilmente quello che fino a qualche istante prima era il suo priore.

“Questo… questo è…”, porse la lettera al Sacerdote. Come se si aspettasse una simile risposta, quello rispose al suo posto.

“Questa è la decisione dei tre Santi Fratelli. Riguarda la nomina del nuovo Sacerdote della Chiesa Vecchia. Galanor ha concluso il suo ciclo e si è avviato verso un nuovo risveglio”.

“C’è scritto che hanno scelto… io… c’è scritto che io sono …”.

“Il neoeletto Sacerdote. E in nome di Dio, contieniti. Sembri un predicatore qualsiasi”.

Se la battuta doveva tranquillizzarlo, ciò non avvenne. Fece un passo avanti, poi si fermò, poi ne fece un altro. Tios si alzò velocemente dal proprio posto, e gli andò incontro a braccia aperte.

“Vostra santità…”, incominciò Sarius.

“Chiamami Tios, fratello. E concedimi l’onore di essere il primo a complimentarsi”.

CAPITOLO SECONDO

“Un vecchio ferro non riposa mai”

Proverbio degli artigiani

Il profondo silenzio fu interrotto da un rumore ben scandito di colpi metallici, portato dal vento fin dall’altra parte del cancello. Gihtar amava la pace notturna, anche quando doveva trascorrerla lavorando, come negli ultimi tempi.

Qualcun altro sta forgiando, pensò. Probabilmente si tratta di Mink lo Zoppo. Nel quartiere artigiano non vi era kas più laborioso, e gli altri maestri lo prendevano spesso in giro per il modo in cui lo storpio elogiava la propria merce. La sua abilità era sprecata – e la prodigalità ormai da tempo aveva portato la sua attività sull'orlo del precipizio. La parsimonia è metà della ricchezza, gli diceva spesso il suo padrone Kulu vantandosi del proprio patrimonio. Gihtar si accigliò con un’aria di disprezzo.

“Parli di nuovo da solo?”, udì una voce alle sue spalle.

“Non hai niente da fare, Lenora? Gli stampi non si laveranno da soli”.

La kasa stava appoggiata allo stipite e giocava con la sua ricca treccia, mentre i riverberi delle fiamme nella grossa fornace formavano delle ombre sul suo viso sporco. Forse potrebbe anche essere bella, se avesse modo di mettersi un po’ in ordine.

“Li ho già lavati da un pezzo, mio signore. Solo che non volevo interrompere i tuoi sogni ad occhi aperti”. Il fatto che fosse il primo apprendista non sembrava contare nel suo rapporto con Lenora. Aveva una mente fina e una lingua tagliente, e se ne serviva con gran gioia.

“Allora faresti meglio a sparire. A meno che tu non voglia finire sotto il martello”.

Uno sguardo carico di disprezzo fu l’unica risposta che ottenne. A volte la offendo senza alcuna ragione.

“Arrivo subito”, aggiunse contrito.

“Tranquillo. In ogni caso devo versare l’acqua nelle botti”.

Ho un gran bisogno di meditare. Anni di lavoro instancabile avevano instaurato una routine che garantiva la qualità del suo lavoro, ma poteva alleggerire la tensione accumulata sul collo e sugli arti solo con qualche ora di profonda concentrazione. L’intera Tarnek era diventata un pallido ricordo dei bei tempi andati, quelli del benessere, ma per Gihtar la cosa non voleva dire nulla. La vita nella bottega del maestro Kulu era la stessa da sempre, e non c’era alcuna possibilità che potesse cambiare in meglio. A differenza di alcuni apprendisti che conosceva, non coltivava illusioni che quell’egoista potesse mai apporre il suo timbro sul riconoscimento ufficiale che lui era progredito abbastanza da avviare la propria produzione. Di ereditare la bottega neanche a parlarne, soprattutto da quando Kulu aveva trasferito il diritto di proprietà alla sua compagna Sirmiona. Anche se si preoccupava solo di condurre una vita agiata, si sapeva che un giorno lei avrebbe ricevuto in eredità anche coloro che le sarebbero toccati in base al loro risveglio. Il suo carattere lo preoccupava ancor di più.

D’altra parte, per quanto le condizioni in cui si trovava fossero difficili, aveva acquisito un’abilità eccezionale nella lavorazione del metallo, e i suoi lavori potevano stare fianco a fianco a quelli dei maestri. Il risveglio gli aveva donato una forza inusuale, con cui poteva temprare anche i pezzi più duri di minerale, e il suo oppressore era anche colui che gli aveva infuso nelle dita una precisione e una sensibilità tali da poter formare con le materie più grezze spettacoli meravigliosi davanti ai quali i potenziali clienti rimanevano rapiti. Tuttavia, questa era una magra consolazione – al posto di rendersi indipendente e realizzare il proprio destino, era un ordinario prigioniero di una volontà superiore. Ti libererò solo quando mi supererai, gli aveva detto una volta il maestro, e per farlo ti serviranno due cicli. Purtroppo, Gihtar ne aveva a disposizione soltanto uno.

La luce di una torcia illuminò le finestre del padiglione all’altra estremità del cortile e lui si affrettò a tornare nella bottega. Kulu e Sirmiona di solito meditavano l’intera notte, e se uno di loro due avesse deciso di passare a controllare, sarebbe stato meglio che non lo trovassero con le mani in mano.

Lenora aveva appena versato l’ultimo secchio in un grosso barile di legno decorato in acciaio.

“Sembra che oggi avremo un controllo. Ho visto una luce”, le disse. Lenora si era risvegliata appena cinque anni prima e riponeva ancora una grande speranza nel proprio futuro.

“Perché vengono adesso?”.

“Come potrei mai saperlo?”.

“Non importa, saranno soddisfatti. Riusciremo a finire l’ordine prima dell’alba”.

“Come se me ne fregasse”.

“Non dire stupidaggini del genere. Ti sentiranno prima o poi”.

Senza degnarsi di risponderle Gihtar afferrò un pesante bollitore e gettò qualche sottile foglia di tellurio nella vaschetta con cui terminava. Le sue mani continuavano a bruciare a causa dei colpi di martello. Era uno dei materiali più difficili da preparare.

“Hai preparato gli stampi per i braccialetti?”.

“Eccoli là”.

“E le pietre? Sono lì dentro?”.

“Calmati”, imprecò lei sottovoce. Sapeva che la cosa la faceva impazzire, ma doveva punzecchiarla. Spesso sprofondava nei propri pensieri, diventando del tutto assente. In un turno precedente lei si era dimenticata di mettere le pietre preziose nelle apposite sedi negli stampi. Li aveva montati vuoti e lo aveva costretto a riempirli con una lega a caldo. L’ordine era enorme, e il risultato catastrofico. La nuova fusione ne aveva compromesso la qualità, e il peccato più grande era il tempo perso. Fuori di sé per la rabbia, Kulu si era rimborsato la perdita sottraendo loro il poco tempo che avevano per il riposo.

Il calor bianco all’interno del forno garantiva una temperatura soddisfacente. Tenendosi a distanza di sicurezza, v’infilò il bollitore e lo spinse fino in fondo. Teneva le mani ben salde sul manico, per poter giudicare in base al calore quando la colata sarebbe stata pronta per essere versata. Era la parte più noiosa della lavorazione, ma anche quella in cui gli inesperti sbagliavano più spesso.

Anche se il lavoro fioriva, Kulu era sempre più spesso insoddisfatto. Il giorno prima aveva portato alcuni dei campioni migliori nel padiglione, e in base a ciò lui aveva immaginato che li aspettasse un lungo lavoro. Di solito i mercanti venivano nella bottega vera e propria o nello scantinato dove era depositata la maggior parte della merce, mentre solo i più seri avevano l’onore di essere accolti nelle stanze private del maestro. Non poteva non notare il panciotto decorato con piastrine di rame addosso al solitamente trascurato Tomul, che svolgeva il servizio di guardia del corpo, anche se era totalmente inutile e particolarmente sbadato. Con sua grande sorpresa, la porta fu aperta da Sirmiona.

 

“Che vuoi?”, gli chiese bruscamente, fingendo di non notare il contenuto della bisaccia che aveva in mano.

“Cerco il maestro”. Gihtar si sforzava sempre di essere gentile con lei, ma proprio non ci riusciva. Non era mica lei quella a cui doveva i beni che si era guadagnato e un tetto sulla testa.

“Il tuo maestro è uscito ad aspettare un ospite importante. Dimmi cos’hai lì”.

“Stamattina mi ha ordinato di portare questi campioni. Qui ci sono braccialetti incisi, collane di stihira e tellurio e qualche cammeo a bassorilievo”.

Sirmiona sbirciò con disprezzo la borsa senza neanche provare a prenderla.

“Di che bassorilievi si tratta?”.

“I cavalieri delle stelle, l’effigie del dodicesimo canto. E il banchetto dei serafini”.

“Mi sembra più materiale sprecato che un lavoro vero e proprio”.

“Se concedeste loro l’onore del vostro nobile sguardo, vi convincereste subito che state sbagliando”, non nascondeva l’ironia nella propria voce. Nessuno, neppure lei, aveva diritto di schernire il lavoro delle sue mani.

“Lascia tutto qui e sparisci”, sibilò l’arpia e lui con piacere obbedì a quella richiesta. “E sarà meglio che iniziate a lavorare! Dovete guadagnarvi ogni singola goccia del balsamo che versiamo sulle vostre inutili pellacce!”, gli gridò dietro, ma quelle parole non erano nient’altro che una vuota minaccia indegna della sua attenzione.

Le tenaglie divennero spiacevoli al tatto e Gihtar versò con destrezza la liquida colata in uno stampo cilindrico. Altre diciannove volte così. Guardò Lenora che in silenzio infilava perle variopinte su un cinturino perlaceo, osservando con attenzione ciascuna di esse prima di passare alle rimanenti che avrebbero formato la collana. Ne desidera mai qualcuna per sé? Tutte le kase, al di là dello status sociale, amavano la moda e gli accessori. Lei non poteva essere un’eccezione. Venti bracciali e altrettante collane, recitava l’ordine. Senza alcun ulteriore dettaglio. Dopo aver ricevuto le istruzioni, in un primo momento si era stupito. I braccialetti con la superficie liscia erano di uso comune, molto popolari tra il popolo per la semplice ragione che erano di facile fattura e avevano un prezzo abbordabile. Ordinare qualcosa che avrebbe potuto fare praticamente chiunque nel quartiere degli artigiani dal maestro Kulu era quantomeno irrazionale. Ricchi snob, non badano alla bellezza, ma al prezzo che devono pagare.

Si aspettavano la temuta visita appena all’alba, quando la maggior parte del lavoro sarebbe stata pronta. Gihtar pensò che fosse ancora troppo presto per chiamare il maestro, quando Kulu entrò nel laboratorio. Incredibilmente, era di buon umore.

“Come procede?”, domandò loro dalla porta. Il suo volto oblungo emanava soddisfazione. Prima ancora di ricevere risposta, posò un vassoio ovale sul tavolo e si sfregò con noncuranza le mani sull’elegante vestito di tela leggera. “È per voi, non sprecatelo”.

“Maestro, è tutto pronto. Pensavamo giusto di chiamarvi”, disse Gihtar.

“Vedo, vedo. Avete lavorato bene”. Guardò di sfuggita i gioielli e sorrise un’altra volta. “Hai scelto dei bei modelli. Hanno comprato tutto e pagato in anticipo per la merce ordinata. Ben più di quanto mi aspettassi”.

“Queste sono ottime notizie, maestro”, disse Lenora.

“Ottime, nientemeno. Potete liberamente ringraziarmi. Finché avrete me, la vostra vita sarà facile. Lavorare con successo al giorno d’oggi richiede grande fatica, ma io ho un gran fiuto per gli affari”.

“Grazie”, disse l’apprendista con aria sottomessa. Gihtar era infastidito dalla sua sottomissione. Senza curarsi della sua condiscendenza, Kulu si voltò verso il suo servo più anziano.

“È una bella giornata. Andiamo a fare due chiacchiere in cortile”.

Sei invidiosa, Lenora?, pensò con cattiveria, e si allontanò dietro al maestro senza controllare la sua reazione.

Il cortile era veramente bello. I viottoli fioriti si allungavano fino al padiglione, e perfino i muri di pietra della tenuta, ricoperti di vite vergine, avevano un’aria quasi tenera. Kulu gli mise una mano sulle spalle.

“Sono soddisfatto delle tue prestazioni”.

Gihtar rimase basito. Si prepara infine ad affrancarmi?

“Be’, hai ancora molta strada da fare”, le parole del maestro infransero le sue speranze. Come aveva potuto pensare che fossero finite le sue sventure? Il silenzio del suo interlocutore poteva essere male interpretato. “Non offenderti, qui potrai sempre sentirti al sicuro finché mi ascolterai. Mi ascolti, Gihtar, visto che siamo già in argomento?”.

“Certo, maestro”.

“Bene. La tua obbedienza significa molto per me, perché presto avremo un lavoro serio. Questo cliente è qualcosa che aspetto da mo’, e che potevo soltanto sognarmi”.

“Deve avere trattarsi di qualche riccone”.

Kulu sorrise. “Che apprendista ingenuo! Certo che si tratta di un riccone, ma non è tutto qui. Comunque, la cosa non ti riguarda. L’unica tua preoccupazione dev’essere di poter rispettare le scadenze che ti imporrò. Se non ne sei in grado, sta’ pur certo che ti manderò in rovina. Con la quantità di balsamo, vestiti e materiale con cui ti pago posso assumere anche una decina di kasi”.

“Spero che il mio lavoro valga la paga che mi date”.

L’altro fece un cenno con la testa. “Solo non pensare che io non possa farcela senza di te. Hai una mano esperta, ma Tarnek è grande. Nessuno è insostituibile”.

Neanche tu, pensò Gihtar tenendosi l’osservazione per sé.

“Farò tutto quel che mi ordinerete”.

“Allora ci siamo capiti. Ora ascoltami bene. Oggi tu e Lenora vi riposerete, vi lascio liberi fino a domani. Sirmiona pensa che sono troppo generoso, ma non posso andare contro la mia natura. Bada solo che questa non diventi un’abitudine, perché il giorno successivo sarà molto impegnativo”.

Desideroso di riposo, l’apprendista non mosse alcuna obiezione a quanto proposto. Accetta tutto ciò che ti viene offerto, questa era la regola che aveva da tempo fatto sua durante il suo servizio.

“Un’altra cosa. Sposterai immediatamente tutta la merce nello scantinato. Le porte della bottega devono essere costantemente chiuse a chiave, e non aprirai a nessun altro che a me. Nemmeno a Sirmiona. Se verrà a trovarti, fa’ finta di non sentirla. Non cedere neanche se alza la voce, e soprattutto non metterti a discutere con lei. Sta’ semplicemente zitto, e se facesse problemi come solo lei sa, fa’ appello alle mie istruzioni. Sono io quello che servi, non dimenticarlo”.

“Tutto chiaro, maestro”.

“Manderò via Lenora per qualche giorno, non voglio che neanche lei sia presente”.

Questa volta Gihtar non poté nascondere il suo stupore. Non gli sembrava strano lavorare da solo, ma un ulteriore paio di mani rappresentava un sollievo a cui rinunciava a cuor pesante. “Non guardarmi così, so bene quel che ti dico. Se tutto andrà secondo i piani, sarà un bene anche per te. Siamo alle porte di un affare molto serio, e non permetterò che niente ci minacci. Ho passato tutta la notte a trattare”.

La luce nel padiglione. Pensavo che saresti venuto a controllarci. Sembrava che neanche Sirmiona godesse di fiducia illimitata. Probabilmente avrebbe escluso anche me, se non gli fossi tanto necessario.

“Non vi deluderò”.

“Sarà ben meglio. E ora torna nella bottega e riferisci a Lenora che siete liberi. Dopo le spiegherò tutto, ma tu preparati bene per quanto ti aspetta. E non dimenticare, non una parola a nessuno su quel di cui abbiamo appena parlato”.

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In quello spazio spartano che a lui spettava, meditò a lungo e profondamente. Un tempo Gihtar aveva avuto il diritto all’intera baracca dietro la bottega, ma dopo l’arrivo di Lenora aveva avuto il compito di dividerla in due parti. Quel mattino, proprio come il maestro aveva promesso, lei non c’era.

Grato per il riposo, non si era lasciato abbattere dall’idea degli impegni che lo attendevano, ma si era un po’ stupito quando Kulu gli aveva riportato i suoi ordini e gli aveva mostrato due nuovi stampi comprati apposta per ciò che lo aspettava. Prima di allora, era già stata una novità il nuovo forno con un bacino per il combustibile più profondo e un’imboccatura più stretta. Ciò a cui era destinato richiedeva una temperatura elevata e costante.

La produzione di coltelli, per la quale si prospettava un lavoro faticoso e delicato, era illegale, a meno che non si trattasse di una produzione appositamente commissionata. Non era il caso della bottega del maestro Kulu. Era perfettamente comprensibile perché fosse meglio evitare testimoni non voluti.

Gihtar non dubitava della propria abilità. Anche se non aveva mai forgiato nulla del genere, i bozzetti e le istruzioni che si era ritrovato davanti gli fornivano una risposta a tutte le incognite che avrebbero potuto causare qualche problema. Ciò che lo preoccupava era invece il tempo a sua disposizione. Dodici coltellacci, nel periodo previsto, non erano affatto un compito semplice. Sapeva che lo attendeva un lavoro come mai prima.

E in effetti, aveva proprio ragione.

I giorni alla forgia si fondevano in una lunga agonia piena di forti colpi di martello, fusioni e riforgiature, e l’arsura del forno e il rosso calore erano l’unico sole che i suoi occhi potevano vedere. Alcune volte si ritrovò sull’orlo della disperazione, sconfitto dal colpo dei coltelli che a fatica stava forgiando. Anche quando completava con successo il processo di forgiatura, poteva succedere che non raggiungesse il bilanciamento desiderato, cosa che lo riportava al punto di partenza. Se non altro, poteva perlomeno lavorare indisturbato, non lasciava mai il laboratorio, il maestro lo aveva rifornito di una quantità più che sufficiente di balsamo, e si concedeva brevi meditazioni solo in caso di estrema necessità, su un lenzuolo scolorito vicino alla massiccia incudine.

Le rare visite di Kulu mostravano segni di comprensione al di là di ogni attesa. Non commentava i frantumi dei tentativi infruttuosi, cosa assolutamente insolita per il suo carattere. Tutto era indirizzato a confortarlo, e a spronarlo a perseverare nel lavoro. Anche se la ragione di tale comportamento lo faceva impazzire, la cosa faceva piacere a Gihtar.

Trascorse quasi un intero trimestre prima che portasse anche l’ultima arma ormai finita nello scantinato. L’orgoglio e il sollievo si mescolavano con una profonda spossatezza, e lui si sentiva rinvigorito dal ferro su cui posava lo sguardo. Un gran lavoro, e probabilmente la più grande sfida della sua vita, era ormai un’impresa fruttuosa alle sue spalle. Che qualcuno lo ammettesse o no, come mai prima di allora era certo del proprio posto nel mondo. Il maestro Gihtar.

Quella sera stessa Kulu si presentò nella bottega con un altro kas. Dunque, ecco il cliente.

Intorpidito dalla stanchezza, Gihtar era più rilassato che mai.

“Questo è il mio apprendista”, lo indicò il maestro con la mano. Non gli aveva chiesto di uscire, ma ogni traccia di amorevolezza era ormai svanita. “Porta qui la merce”, tagliò corto.

Di primo acchito il committente sembrava assolutamente ordinario, non si distingueva affatto da tutti gli altri che erano passati di lì. La camicia di seta, così comune ed economica, era sbottonata ai limiti del buoncostume, mentre i pantaloni erano infilati in alti stivali di pelle cotta. Persino io ne ho di migliori, un accenno di risata pervase Gihtar, ma riuscì a trattenersi. Il volto dello sconosciuto, quasi latteo come una pietra bianca, freddo e duro con le labbra tirate, faceva un’impressione ben più forte. Chiunque fosse, questo kas aveva attorno a sé un’aura di autorità: era quella la sensazione che provava, mentre l’uomo osservava in silenzio le dodici spade che, tornato dallo scantinato, Gihtar aveva riposto sul tavolo di fronte a lui. A giudicare dalla postura anche Kulu aveva avuto la stessa sensazione. Si tormentava nervosamente le dita, senza distogliere lo sguardo dall’acquirente.

“Sono fatti col metallo più raffinato, che ne pensate? Prego, prendetelo in mano… sentite com’è al tatto”.

Obbedendo al maestro, l’uomo afferrò l’elsa e fece qualche movimento agile e veloce attraverso l’aria. L’arma sembrò cantare nelle sue agili mani. L’ho fatto io, pensò Gihtar, io li ho forgiati e questo kas può uccidere con essi. Solo l’abilità poteva risvegliare la natura mortifera di un coltello. Guardando con quale abilità l’arma si muoveva nelle sue mani, Gihtar comprese che questa era l’ultima cosa che mancava al misterioso ospite.

 

“È un buon lavoro, maestro. Proprio come avevi promesso”.

Kulu prese a vantarsi.

“Il mio nome è noto in lungo e in largo. In tutto ciò che faccio lascio una parte di me”.

Il maledetto si fa bello del mio lavoro. Non che fosse una novità, ma questa volta la situazione era ben diversa. Se per tutti i braccialetti, le collane, le corazze, le piastre e tutte le altre cose gli era toccato creare senza nemmeno la parvenza di ricevere il benché minimo riconoscimento era riuscito a rimanere zitto, non aveva intenzione di lasciar correre con quest’ultima sua creazione. Le armi che aveva forgiato erano qualcosa di ben più serio – non erano orecchini e accessori che qualcuno avrebbe indossato nell’insensato tentativo di imitare la bellezza e la gloria. Erano la prova della sua maturità – come fabbro e come kas. È vero che una parte di qualcuno rimane impressa per sempre nel ferro lucente, ma questa parte non apparteneva a chi lo aveva dichiarato. Da dove si è preso un simile diritto? Gihtar aprì la bocca, pronto a difendere il proprio onore ad ogni costo, ma prima di riuscire a emettere un suono, rimase atterrito. Se l’impudente tentativo dell’apprendista aveva colpito il maestro, non era il caso del committente.

Il suo sguardo gli imponeva di trattenersi.

Non pensò neppure di mettere in discussione quanto gli avevano ordinato quei due occhi di un nero brillante nello spazio di un secondo. No. Il viso era privo d’espressione, ma gli occhi ardevano di vita.

“I miei servitori passeranno a ritirare la merce e ti porteranno la somma pattuita. Entro stanotte”, le labbra tirate si aprirono solo per far passare le avide parole.

Kulu chinò la testa. “Va bene, va bene. L’importante è che nessuno sospetti…”.

“Non preoccuparti. Piuttosto fa’ attenzione che la tua lingua non si spinga troppo oltre”.

“Non c’è di che preoccuparsi, la discrezione è il mio motto. Spero che lavoreremo a lungo insieme e che ne siate soddisfatto”.

Il suo interlocutore chinò la testa. “Per quanto riguarda il tuo inventario…”, ma non finì la frase. Kulu, con un’impazienza totalmente in disaccordo con il comportamento tenuto fino ad allora, alzò la mano bloccandolo a metà della frase.

“Questi sono solo inutili braccialetti, anelli e qualche altra robetta. Non li terrei nemmeno, se non mi ci avessero costretto i debitori. Ci sono kasi di ogni sorta – arrivano, ordinano la merce, la portano via e non pagano. E così io m’impoverisco, devo darmi da fare e prego Dio di riuscire a ripagare almeno un po’ le mie pene, almeno con questi ninnoli. Ecco il motivo per cui ce li ho”.

“Dunque non sarà un problema vendermeli”, rispose pacifico l’estraneo. Kulu fece un cenno di dissenso.

“Non vi arrabbiate, ve ne prego. Vi ho detto che non voglio farlo. La mia Sirmiona è solo una kasa, le ho dato la mia parola che questi gioielli sono suoi”.

“Sei un uomo d’affari. Ogni cosa ha un prezzo”.

Gihtar riusciva a percepire la pena del maestro. Non poteva immaginare di quali gioielli si trattasse, ma la consapevolezza della sua sottomissione alla kasa con cui condivideva il tetto lo divertiva. Era strano, lo conosceva bene e sapeva che per il giusto prezzo avrebbe venduto la sua stessa pelle. Come ha fatto quella lì a comprarlo?

“Vi prego”, continuò Kulu quasi implorandolo, “posso farvi delle copie identiche. Le farò per metà del prezzo che farei a chiunque altro, cosa ne dite? Come gesto dalla mia buona volontà, in vista dei lavori futuri”.

“Non dubito della tua abilità”. Il suo sguardo si soffermò appena un attimo su Gihtar. “Sono certo che le copie sarebbero persino meglio degli originali. Tanto buone che neanche l’interessata si accorgerebbe della differenza”.

Pur messo con le spalle al muro, il maestro non si arrendeva. “Non sono in vendita”, la sua voce era secca ma decisa. Come se non fosse successo nulla, il suo interlocutore s’inchinò velocemente e si avviò verso la porta.

“Non serve che mi accompagni, conosco la strada”.

Kulu si trattenne ancora un po’ nella bottega, senza accennare a quanto era appena successo. Fissava l’inventario con aria assente, borbottava fregandosi la barba e scrutava quasi impaurito in ogni angolo. Poi si tranquillizzò e ordinò a Gihtar di riposarsi fino all’indomani, regalandogli un sorriso amichevole in segno di riposta quando quegli gli chiese altro tempo libero. Erano trascorsi tre mesi di lavoro sanguinoso, e a giudicare dalle parole del maestro tutto si sarebbe dovuto concludere così. L’apprendista lo maledisse tra sé e sé e poi, dopo lungo tempo, si diresse verso la propria baracca.

La stanchezza accumulata fece la sua parte. Non appena ebbe incrociato le gambe e appoggiato le spalle al freddo muro, gli occhi si chiusero da soli. Il silenzio lo inondò, e iniziò a cullarlo dolcemente. Le emozioni gli inondarono il corpo e lo attraversarono fino alla punta delle dita, dalla quale fuoriuscirono in lontananza e tornarono depurate. Da lì tutto si sfogava, e lui sentì un piacevole flusso di tensione che presto sarebbe sparito dagli arti. Finalmente.

Quando una voce iniziò a parlare, cercò invano di sobbalzare.

“Lo odii?”, nel silenzio più assoluto il sussurro risuonò come un tuono.

“Chi va là?”, il corpo non obbediva, gli occhi continuavano a restare chiusi, ma almeno la voce non si rifiutava di obbedire. “Chi va là?”, domandò nuovamente. Conosceva la risposta prima ancora di ottenerne una.

“Calmati, non avere paura. Puoi chiamarmi Set”.

“Pensavo… pensavo foste uscito”.

“Sono tornato per dare il giusto riconoscimento al tuo lavoro. Da molto tempo non m’imbattevo in un simile ferro. Dimmi, lo odii?”.

Qualcosa nel suo tono, nell’atmosfera in generale, lo liberò dalla paura e gli fece provare un’inspiegabile vicinanza. Gihtar sapeva di non poter mentire. E non voleva mentire.

“Lo odio”, rispose.

“Anch’io lo odierei, se fossi al tuo posto. Sei più in gamba di lui, più in gamba di molti altri. Eppure, sei un semplice prigioniero. Sei uno schiavo, Gihtar”.

“Sono solo un apprendista”.

Il riso riempì lo spazio avvolto dalle tenebre. “Sei solo quel che vuoi essere. Ognuno sceglie il proprio destino, artigiano”.

“Faccio ciò che Dio mi ha donato con il mio risveglio”.

“Dio ti ha assegnato il ruolo di maestro, ma lui non te lo permetterà mai. Perciò lo odii. Tu non sei un maestro”.

“Posso creare ciò che m’immagino. Sono un maestro”.

“E il suo schiavo. A che serve l’abilità se non puoi godertela?”. Set aveva colpito un punto delicato. Perché non riesco a calmarmi?

“Che cosa volete?”, domandò. L’assenza di paura era assolutamente incredibile. Mi ha stregato. In qualche modo ci è riuscito.

“Te l’ho già detto. Sono qui per darti il giusto riconoscimento, ma anche per farti un’offerta. Desideri la libertà, Gihtar?”.

Non rispose subito. Forse è tutto un tranello, forse Kulu mi sta mettendo alla prova. Che sia un esame della mia maturità? Non aveva mai sentito di una pratica simile, ma il suo padrone era uno che si discostava spesso dalla norma. Qualcosa accanto a lui frusciò, e lui comprese che non poteva lasciarsi sfuggire quell’occasione. Non ora, non dopo tutto quel che aveva passato. Se Set se ne fosse andato, avrebbe potuto perdere per sempre ogni possibilità. Sarebbe andato fino in fondo, senza curarsi dell’esito.

“La voglio”.

“Quanto?”.

“Più di ogni altra cosa”.

La voce si fece più vicina. “Posso dartela, ma dovrai fare alcune cose, e farle esattamente come te le dirò. L’unica cosa che voglio è che tu sia risoluto nella tua decisione. Non c’è prezzo per quanto ti viene proposto, ma dovrai essere pronto a batterti”.

“Sono pronto”, rispose Gihtar. Lo era davvero, più che mai.

“Allora ascoltami con attenzione e cerca di ricordarti ogni mia parola. Un’occasione migliore, caro apprendista, non l’avrai mai”.