Nur auf LitRes lesen

Das Buch kann nicht als Datei heruntergeladen werden, kann aber in unserer App oder online auf der Website gelesen werden.

Buch lesen: «I Vicere», Seite 36

Schriftart:

Il cavaliere pertanto cominciò a strizzar l’occhio a Giovannino, a parlar bene di lui dinanzi a Teresa, la quale si faceva di mille colori. «Quasi non si sapesse che sarà tuo marito!…» sussurrava alla nipote; e al giovane: «Quasi non si sapesse che sarà tua moglie!…» Egli li incoraggiava, dava all’uno notizie dell’altra, riferiva saluti e ambasciate, finché chiese a Giovannino un piccolo prestito di mille lire. Il giovane le diede subito, e allora don Eugenio prese il volo.

5

«Un sindaco a ventisei anni?… Dove s’è visto?… Bisognerà dargli nello stesso tempo un aio!… Avremo l’amministrazione delle balie!…» Ma le satire non attecchivano, tanto entusiasmo animava i partigiani di Consalvo Uzeda. In un anno che il principino era stato assessore, non s’eran forse visti in città continui miglioramenti, quanti non avevan saputo compierne in diciotto anni i suoi predecessori? I sergenti di città che prima andavano attorno bracaloni, unti e lerci, trascinando le sciabole arrugginite come vecchi spiedi, adesso, per opera sua, sfoggiavano divise nuove fiammanti, tutte mostreggiature, alamari e nappine da farli parere altrettanti ammiragli. E il corpo dei pompieri, con gli elmi lucenti e i pennacchi rossi come quelli dei soldati romani del Santo Sepolcro, non era tutta opera sua?… «Largo ai giovani! Largo ai giovani istruiti come il principino di Mirabella!»

Egli adesso non studiava più, giudicando sufficiente la sua preparazione, accorgendosi del resto che nella scienza principale, quella di gettar polvere agli occhi, era già maestro. Sapeva che la grande popolarità della sua casata dipendeva dal fasto esteriore, dalle livree fiammanti, dalle carrozze rilucenti, dal guardaportone maestoso; e quantunque dicessero che i tempi erano mutati, tutte queste cose, i segni visibili della ricchezza e della potenza, non avevano potuto, non potevano perdere mai, per mutar di tempi, il loro valore. I provvedimenti di quella che egli già chiamava, essendo soltanto assessore, «la mia amministrazione» s’erano dunque aggirati su tutto ciò che dava all’occhio, che poteva essere subito apprezzato dalla folla. Quindi egli aveva messo il più grande impegno nel reggimentare, nel vestire di divisa i corpi municipali dei quali era capo e che passava poi in rivista, come un generale: i custodi, gli spazzini e gli accalappiacani. Uscito dalla casa paterna, una delle sue piccole sofferenze, sopportata del resto pazientemente, come tutte le altre, era stata quella di non aver più un drappello di camerieri, di sguatteri, di cocchieri e di famigli che s’inchinassero al suo passaggio; adesso teneva sotto i suoi ordini un piccolo esercito.

Il suo tormento era tuttavia il contatto con la gente e le cose. Riceveva tenendo ficcate le mani in tasca per non aver da stringere le altrui, o le stringeva coi guanti che poi gettava via; firmava i fogli tenendo la penna con due dita intanto che un impiegato li tratteneva perché non gli scorressero sotto, e quando lasciava il Palazzo di città faceva chiudere il suo seggiolone in un ripostiglio perché nessuno avesse da sederci sopra. Un giorno che non fu trovata la chiave, restò sei ore in piedi. E il suo terrore erano certi impiegati poco puliti, coi capelli lunghi, le unghie nere. Sbuffava, esclamava: «Non vi buttate addosso alla gente», mentre gli parlavano di cose di servizio, o gli riferivano lo stato degli affari in corso; e, invece di rispondere alle loro domande, usciva inaspettatamente in un: «Ma tagliatevi quella zazzera!» oppure: «Pulitevi un po’ le unghie!…»

«Come se tutti potessero passar la giornata allo specchio, al par di lui!» mormoravano i rimproverati, dandogli dell’aristocratico, del superbo e dell’infinto, poiché, a sentirlo, tutti gli uomini erano fratelli, fatti per sedersi sopra una stessa panca… Ma le mormorazioni si perdevano nel coro delle lodi degli altri impiegati che egli aveva creati e ai quali aveva fatto aumentare lo stipendio, o concedere gratificazioni, o accordar licenze, o condonar colpe: tutti quelli che gli stavan dinanzi con maggior umiltà e gli davano del Vostra Eccellenza, come servi. Così, il partito che lo voleva innalzare al supremo magistrato, se era forte in città, al Municipio era fortissimo. Tuttavia, egli si schermiva, adducendo l’età immatura, la mancanza di pratica; e a Giulente, il quale faceva il suo giuoco con sempre maggiore ingenuità, aveva confidato che temeva di fare un capitombolo e di chiudersi l’avvenire. «Non cadrai,» assicurava Benedetto, con aria di protezione; «ci siamo noialtri che ti sosterremo, tutto il partito dello zio duca.» Ma egli non s’arrendeva, si faceva pregare dal prefetto, ringraziava «dal profondo del cuore» le commissioni che andavano ad invitarlo, ma dichiarava che il peso era troppo forte per le sue spalle. Continuava a nicchiare, sapendo che c’era una corrente contraria, gl’immancabili brontoloni, i malcontenti invidiosi, tutti quelli che volevano romperla coi soliti signori, con gli eterni Uzeda. E come gl’impiegati municipali gli ripetevano ogni giorno:

«Il sindaco ha da esser Vostra Eccellenza: il paese lo vuole…»

«Che ne so io?» rispose una volta. «il paese non m’ha detto niente!»

Allora fu messa insieme una dimostrazione, con musica e bandiere, per andarlo ad acclamare capo della città. Egli si lasciò strappare una mezza promessa, «se il prefetto proporrà la mia nomina…» La dimostrazione andò a gridare: «Viva il sindaco Mirabella!» sotto i balconi della prefettura. E quando il decreto di nomina fu pronto, egli pose un altro patto: che a comporre la Giunta entrassero tutte le frazioni del Consiglio, dai clericali borboneggianti ai repubblicani. Lo lasciarono libero di dettar egli stesso la lista degli assessori: in capo ci mise Benedetto Giulente. Questi ebbe un bel protestare; Consalvo gli disse:

«Se non accettate, tutto va a monte. Io sarò il sindaco di nome, di fatto faremo ogni cosa insieme. Capisco che vi chiedo un sacrifizio, ma voi ne avete fatti ben altri!»

Figurarsi Lucrezia! Ella non si potè veramente dar pace.

«Da sindaco, assessore! Fa il progresso del gambero! Qualche giorno di questi lo nomineranno bidello! Il mestiere pel quale è nato! E s’è fatto infinocchiare da quel gesuitello! per servirgli da comodino! per fargli da servitore! che non è buono ad altro!»

Ella se n’andava a sfogare dalla zia Ferdinanda e tutt’e due erano nervosissime, intrattabili, perché giusto s’aspettava di momento in momento la sentenza della Corte d’appello sull’affare del testamento. Il giorno che essa fu pubblicata e diede ragione al principe, annullando la prima perizia e ordinandone una nuova, zia e nipote, verdi dalla bile, fecero cose dell’altro mondo; il povero Giulente, avvilito dalle tante grida, dai tanti rimproveri, scappò di casa come disperato. Il principe invece, che negli ultimi tempi era tornato a star male, guarì come per incanto, e manifestò il proprio contento parlando quasi urbanamente con le persone, chiedendo perfino notizie di «Salut’a noi». Qualche settimana dopo, nonostante il caldo della stagione, la principessa andò attorno con la figliuola, facendo grandi acquisti di biancheria; poi chiamò operaie che si misero a cucire e a ricamare servizi d’ogni sorta. «Lavoriamo per la principessina!» dicevano esse con tono d’affermazione che voleva tuttavia provocare una conferma; ma la principessa non diceva niente; abbracciava invece più spesso del solito la figliuola, la guardava con una cert’aria come per dire: «Aspetta e vedrai!…» Teresa non le domandava nulla, ma comprendeva che il giorno della sua felicità era vicino. Baldassarre gongolava, annunziava il matrimonio senza tante reticenze: la cosa era certa oramai: il principe non andava tutti i giorni in casa della duchessa, per regolare gl’interessi? Poteva esser quistione di settimane, e tutto il parentado avrebbe ricevuto comunicazione del lieto avvenimento.

Infatti, un giorno, a proposito di certe coperte da letto tra le quali non riusciva a scegliere, Teresa disse alla madrigna:

«Faccia Vostra Eccellenza. Per me sono tutte belle…»

«Debbo forse usarle io? Non capisci che si tratta di te?» rispose la principessa.

Una viva fiamma salì alla fronte di Teresa. Ella trattenne il respiro ed abbassò le ciglia.

«Vieni qui!…» E, attiratala sul cuore, donna Graziella cominciò: «Si tratta di te, del tuo matrimonio… È venuto il momento di farti felice… Credevi che tuo padre non pensasse a te? Tanti affari, tante cure!… Ma adesso faremo tutto presto, vedrai!…» Stampatole un bacio in fronte mentre le reggeva il capo con tutt’e due le mani, esclamò: «Sei contenta di divenir duchessa?»

Un momento, Teresa credé d’aver capito male. Batté le palpebre guardando negli occhi la madrigna, e ripeté come un’eco:

«Duchessa?…»

«Duchessa Radalì, sicuro, ed anche baronessa di Filici, perché il tuo secondogenito porterà questo titolo! Duchessa, e con molti ducati! Una delle più ricche! Tuo padre, perché Consalvo s’è portato male con lui, ti tratterà bene… Ha già stabilito tutto con la zia… E il mio non sarà poi tuo? E che? Fingi di non sapere?… Perché mi guardi così?… Che hai?…»

«Mamma… mamma…»

Sempre più pallida come la madrigna veniva dicendo quelle parole, e più smarrita e più tremante, quasi vedesse una cosa di spavento, ella adesso portava una mano alla tempia ed afferrava con l’altra la mano della principessa.

«Mamma, no… io non credevo…»

«Che cosa?… Figlia mia! Confidati a me!… Non credevi?… Ma io invece ero sicura… Veniva qui quasi ogni giorno!… Ebbene, lo sai adesso!… No?… Dici di no?… E perché? Con qual motivo?… Tuo padre non bada a sacrifizi per assicurarti questo partito!… Trentamila onze, capisci?… Ti dà trentamila onze, capisci?… Ti dà trentamila onze!… E Michele ne possiede quattro volte tante… E tu dici di no?…

«Oh, perché?…»

«Perché credevo… non credevo… che fosse lui…»

«Chi dunque?… Un altro?…» E la principessa parve cercare; a un tratto, quasi rammentandosi: «Suo fratello, forse?» soggiunse.

Lasciatasi cadere sopra una seggiola, Teresa nascose il volto tra le mani e scoppiò in pianto. Fin dal primo momento ella aveva sentito, col cuore stretto, che tutti i suoi rifiuti sarebbero stati invano; che se avevano deliberato di darla al primogenito, ella doveva a qualunque costo accettarlo; e le melate parole della madrigna che le diceva, giungendo le mani: «Se avessi saputo!… Perché non hai parlato?… Adesso che tuo padre ha combinato ogni cosa!…» la confermavano in quella sconsolata fiducia, facevano raddoppiare il suo pianto… Parlare? A chi, ed a che scopo? Se in quella casa non c’era confidenza, se tutti stavano in guerra, unicamente curanti del proprio tornaconto? Se l’avevano prima abituata a cedere in tutto e poi cullata nella fiducia che l’avrebbero fatta contenta? Poteva ella supporre che avrebbero scelto da loro, senza consultarla, e che un giorno sarebbero venuti a dirle:

«Sai, bisogna che tu sposi chi non ti piace?…» E perché, poi? Perché volevano darle quell’altro e non chi aveva il suo cuore?

«Pel tuo meglio!» esclamava la madrigna, «abbiamo deciso così pel tuo meglio! È il primogenito, sarai duchessa, i tuoi figli avranno due titoli da dividersi, mentre con l’altro non ne resterà loro nessuno… Ed è anche più ricco; non molto, è vero; ma c’è tuttavia una differenza!… E la figlia del principe di Francalanza non deve sposare un oscuro cadetto come una qualunque!…»

Che le importava di ciò! Se ella aveva dato il suo cuore a Giovannino? Se non aveva mai pensato che l’altro fratello, così grossolano, così brutto, potesse essere suo marito?

«Ma tu non sai,» riprendeva la principessa, «che neppure la zia duchessa consentirà al matrimonio di Giovannino, ancora quando noialtri acconsentissimo, come io vorrei acconsentire, per farti contenta? Non sai che la zia vuol dar moglie al solo primogenito? Questa è la legge delle nostre famiglie; ché anzi, se i tempi non fossero mutati, Giovannino non avrebbe neppur pensato a inquietare una ragazza come te, sapendo di non poterla sposare!»

«No, no!…» proruppe allora Teresa fra le lacrime; «non l’accusate; sono stata anch’io… gli vo’ bene anch’io…»

«Andiamo!…» fece la madrigna con un sorriso pieno d’indulgenza. «Fantasie di ragazzi, cose che passano!… No?…» riprese con un altro tono, vedendo che il muto pianto di Teresa ricominciava. «Ti ostini a dare un dispiacere a tuo padre? Come se gliene mancassero?… E allora diglielo, che non lo vuoi!»

«Io, mamma?…»

«Vuoi dunque che tocchi a me dargli questa grata notizia?… E sia! Anche a me dispiace il tuo rifiuto, sai… Ma, ma, ma… Non sono tua madre!… È giusto che a te, come a tuo fratello, non importi il mio piacere o il mio dispiacere…»

«Mamma!… Perché dice così… Non sa che l’ho sempre rispettata ed amata come la mamma mia?…»

«E sia!… E sia!…»

Ah, perché non aveva accanto la sua mamma vera, in quella triste ora che il bisogno d’un affetto sincero, d’una protezione gelosa era più necessario! La mamma sua non l’avrebbe lasciata sola, piangente, come la lasciava la madrigna, con queste sole parole per tutto conforto:

«E sia; dirò tutto a tuo padre! In fin dei conti, ci avrà da pensar lui!…»

La principessa non riparlò più a Teresa del matrimonio, come se mai gliene avesse tenuto parola. Neppure il principe le disse nulla; ma dal contegno mutato del padre, ella comprese che sapeva ogni cosa e che gliene voleva. Da un giorno all’altro non le diresse più la parole, non la chiamò più per nome, parve non accorgersi della sua presenza; e, dissipatasi dal suo volto l’aria di contento per le buone notizie della lite, egli si rannuvolò peggio che mai, riprese a montare in bestia per niente. La notizia cominciò a trapelare fra i parenti: i più giudicavano sciocca Teresa, che preferiva il barone al duca; alcuni la sostenevano, Consalvo tra questi. A lui non importava un fico secco della sorella, ma per dar prova di dottrina e di democrazia: «Vedete la forza del pregiudizio?» esclamava. «Vogliono dare mia sorella a un cugino», e giù una lezione sui matrimoni tra consanguinei; «ma tra i due le dànno quello che non vuole, non quello che le piace; e perché? Per una differenza di parole! Duca o barone!… Pazienza ci fossero dietro a questi titoli la ducea o la baronia!»

L’avversione della zia Ferdinanda e di Lucrezia ebbe nuovo alimento; quella sciocca preferiva il secondogenito al primo! Si opponeva alla volontà del padre! E il padre che non aveva saputo educarla a un’obbedienza più cieca!… Lo zio duca, coi piedi in due staffe, come sempre, pencolava un po’ di qua, un po’ di là ma in cuor suo era favorevole al partito voluto dal principe, come più degno della casata. E, del resto, se anche la duchessa non voleva dar moglie al cadetto?

La duchessa, infatti, s’era poste le mani in capo. Dopo aver sacrificato tutta la sua vita per amore di quel primogenito, per assicurare una grande ricchezza a lui ed alla sua discendenza, dopo aver tanto aspettato a dargli moglie perché nessuna, a suo giudizio, lo meritava; ora che gli aveva trovato la cugina Teresa, che era alla vigilia di coronar l’opera di trenta lunghi anni, l’amoretto di Giovannino distruggeva a un tratto tutti i suoi piani. Ella non aveva sospettato una cosa simile, tanto le pareva che Giovannino dovesse sentir l’obbligo di restar scapolo affinché solo il primogenito continuasse la casa. «Quando Michele prenderà moglie… Quando Michele avrà figli…» Lo stesso Giovannino non aveva parlato d’altro che del matrimonio di Michele, del duca. I due fratelli si volevano bene, erano andati sempre d’accordo; se dunque Giovannino pareva voler mettere bastoni tra le ruote, la colpa era di lei che non lo aveva avvertito del matrimonio disegnato. La colpa era anche di Michele. Indifferente a tutto, incapace di riscaldarsi per niente, solo amante della bella caccia e della buona tavola, quando la madre aveva lasciato passar gli anni senza dargli moglie, egli non aveva chiesto di prenderla; adesso che gli proponeva la cugina Teresa, si disponeva a sposarla, senza volontà, senza desiderio, come avrebbe fatto un’altra cosa qualunque. Trattava la cugina con la confidenza giustificata dalla parentela, scherzava con lei come scherzava con tutti, un po’ grossolanamente; era incapace di dirle una parola tenera: chi poteva dunque sospettare che quello fosse un futuro promesso della ragazza? Non lo sospettava neppure Baldassarre, il quale rimase, udendo che il fidanzato non era più il suo favorito, ma l’altro fratello. Come? Il principe voleva dare quell’altro alla padroncina? Se la signorina non lo voleva! Se lui stesso, Baldassarre, aveva annunziato a tutti che il promesso era il barone Giovannino? «Andiamo! il principe non sa che la padroncina vuol bene al piccolo. Quando vedrà che dice davvero, si persuaderà…» Invece, poiché Teresa aveva sempre gli occhi rossi di pianto, per l’avversione che le dimostrava il padre, per la freddezza che ostentava la stessa madrigna, per la nuova guerra scoppiata in famiglia mentre ella voleva far opera di pace, un giorno la principessa le disse:

«Si può finalmente sapere che hai?»

«Nulla, mamma; non ho nulla.»

«Allora, perché questo broncio continuo? Ti ostini sempre nella tua idea?… Oh, adesso è tempo di parlar chiaro. Tuo padre ha dichiarato che sposerai Michele, o nessuno. Non ho voluto dirtelo prima, credendo che egli si sarebbe piegato, ma tu lo conosci meglio di me… E, del resto, proprio in questo momento vuoi dargli un gran dispiacere? Non sai che è ammalato, molto più gravemente che non sembri?… E non solo tuo padre, ma anche la duchessa? Due famiglie! Avete disturbato due famiglie!… Adesso che sai come stanno le cose, continua pure, se ti piace… Certo, oggidì la volontà dei parenti non ha pei figli forza di legge. Se lo vuoi a qualunque costo, puoi anche scappartene di casa, come fanno le ragazze senza rispetto e senza pudore…» Svolgendo questi argomenti, la voce di donna Graziella si addolciva, quasi ella non potesse credere alle ipotesi che enunziava: «…e potrete anche maritarvi, ma ad altre condizioni beninteso, e senza la benedizione dei vostri parenti… e se tu credi che in tal modo potete esser felici, fa’ pure!…»

Teresa non piangeva più, adesso; aveva versato tante lacrime in segreto, bagnando il suo guanciale, tutte le notti! Guardava dinanzi a sé, fisso, senza veder nulla, con un tremito nervoso della mascella, con una piega senza fine amara del labbro… E la principessa, smessa la severità, incominciava a persuaderla con le buone, amorosamente, dicendole che i migliori giudici di quel che le conveniva erano i suoi parenti; che ella poteva ingannarsi, come s’era ingannata, per esempio, sua zia Lucrezia. Aveva voluto a qualunque costo sposare Giulente, e adesso come ne parlava? Certo i casi erano diversi, perché tra Michele e Giovannino non passava tanta differenza da rendere l’uno degno di lei e l’altro no; ma c’era una grave ragione che li consigliava a darle il maggiore, una ragione che bisognava pur dire.

«Se Michele non è così giovane come Giovannino, ha una salute di ferro; mentre suo fratello è gracile, cagionevole… Senza contare un’altra cosa, più grave ancora: la soverchia irrequietezza dello spirito… Non sai che suo padre era già pazzo quand’egli nacque? Dio disperda la profezia, ma se un giorno anche a lui voltasse il cervello?… Avresti fatto un bell’affare!… Vedi che tuo padre adduce dunque ragioni e non capricci. Contrariarlo importa dargli un dispiacere che gli può riuscire fatale, tanto più che la sua malattia non si sa che cosa sia… Ho pianto tanto, giorni addietro, quando il dottore mi confidò che bisogna pensare alla sua salute!… Non te ne volevo dir nulla; ma è necessario che tu sappia quale sarebbe la tua responsabilità nell’opporti ai suoi desideri, che non mirano ad altro fuorché al tuo bene…»

E ricominciò il giorno dopo, e poi l’altro appresso, e così sempre, con le buone, coi ragionamenti, ai quali Teresa non opponeva i ragionamenti contrari che le si affollavano nella mente. Che esempio era quello della zia Lucrezia, se costei aveva mutato sentimento, senza ragione, per stravaganza, come dicevano tutti?… E se temevano per la salute morale di Giovannino, perché le consigliavano di portargli un colpo così forte, come quello di rifiutar di sposarlo, dopo ch’egli le aveva detto di voler bene a lei sola?… No, ella non diceva né questa, né quante altre cose pensava; perché, dovendo manifestare tutto l’animo suo, avrebbe dovuto dire che suo padre voleva sacrificarla ad uno sciocco pregiudizio, che la madrigna fingeva quell’affetto per indurla a fare ciò che voleva il marito; avrebbe dovuto dire che in nessun’altra famiglia la malattia del padre è stata ragione di ordire l’infelicità delle figliuole; e avrebbe dovuto dire ancora che la ribellione di Consalvo si dimostrava ora giustificata, avrebbe dovuto ribellarsi ella stessa… Ma questo era peccato! Il confessore glielo avvertiva, raccomandandole la prudenza, l’obbedienza, l’abnegazione, tutte le virtù cristiane, di cui in famiglia ella aveva luminosi esempi: Suor Crocifissa, che da bambina stava a San Placido, che aveva rinunziato con vocazione esemplare al tristo mondo per darsi allo Sposo Celeste, e adesso, giusto premio delle sue virtù cristiane, era Badessa del monastero; Monsignor Lodovico che anche lui aveva disprezzato il posto spettantegli al secolo per abbracciare lo stato monastico. E la Beata Ximena, nei secoli andati. Proprio quell’anno ricorreva il terzo centenario della sua esaltazione fra gli Eletti: voleva la discendente mostrarsi degenere, proprio mentre Ella la guardava dal Paradiso con più amore e fervore?… E le stesse cose le ripeteva la zia Badessa, a San Placido, dove ora la principessa la conduceva ogni domenica per ordine del marito.

La Badessa, col viso color della cera tra i veli bianchi, era rimbambita del tutto, non sapeva far altro che ripetere alla nipotina, dietro le grate del parlatorio, quel che le avevano indettato: «Bisogna fare la volontà di tuo padre e tua madre… Così comanda Nostro Signore, così comanda la Vergine Immacolata, così comanda il patriarca San Giuseppe…» La sua voce aveva il tono che si prende nel recitare le litanie; e lì, tra le mura del monastero, Teresa rammentava la fanciullezza lontana, l’antica paura provata quando la posavano sulla ruota per farla entrare nell’impenetrabile badìa; ma rammentava ancora le lodi delle monache, quand’ella aiutava a ornar di fiori gli altari, ad accendere i ceri dinanzi al Crocifisso: «Monachella santa! Monachella santa!…» E l’istinto del sacrifizio, i moti d’umiltà, la sete di ricompense che l’avevano occupata bambina si ridestavano in lei. Il confessore le metteva un altro scrupolo nell’anima: quello di spingere al peccato un’altr’anima; giacché – ella non lo sapeva, ma era così – il minore dei Radalì minacciava di ribellarsi apertamente alla madre…

Era falso: Giovannino non pensava niente affatto a ribellarsi, perdeva soltanto la sua gaiezza, all’annunzio del disegnato fidanzamento del fratello. E Baldassarre, sempre più incaponito a combinare il matrimonio del secondogenito, non capiva più niente di quanto avveniva. Don Giovannino aveva sì o no fatto la corte alla cugina? La signorina aveva sì o no mostrato di gradirla? Il duca Michele era sì o no del tutto indifferente alla cugina come ad ogni altra, e voleva sì o no un gran bene al fratello? Allora tutto quel diavolìo donde veniva? Dal principe, cocciuto come tutti gli Uzeda… – ma Baldassarre, a un certo punto, si turava la bocca per non ripetere i giudizi della gente su quella casata – e dalla duchessa, che non per nulla era un poco Uzeda anche lei!…

Il centenario della Beata Ximena fu celebrato con pompa straordinaria. Per il triduo la chiesa dei Cappuccini, tutta rosse drapperie e frange dorate e tappeti fioriti, fu illuminata a giorno; le campane sonavano a festa, le messe che si seguivano a tutti gli altari chiamavano una folla sterminata di fedeli d’ogni stato. I discendenti della Santa vi convennero anch’essi, ma in ore diverse, per evitarsi, dal tanto amore. La principessa e Teresa, il primo giorno, restarono un momento per impetrar dalla gloriosa parente la guarigione del principe Giacomo, da due settimane inchiodato a letto da misteriose sofferenze. Ma la solennità più grande era serbata per il terzo giorno, quando, dopo il Pontificale, il popolo sarebbe stato ammesso a contemplare la salma.

Già, per cura del Padre Guardiano, coadiuvato dal Padre Camillo e da Monsignor Vicario, era venuto in luce un opuscolo intitolato: Nel terzo centenario della canonizzazione della Beata Uzeda, e stampato con molto sfoggio di margini e di colori. Tutti i parenti ne avevano ricevuto un esemplare, e Teresa, che s’era confessata e aspettava di comunicarsi il giorno della gran festa, meditava il suo. La leggenda della Santa, che ella aveva udito ripetere, a brani, in diverso modo, era in quel libriccino narrata per filo e per segno.

«Ximena, della illustre prosapia degli Uzeda,» così cominciava il primo capitolo, «fu figlia al Viceré Consalvo ed alla nobile Caterina dei baroni di Marzanese. Fin dai suoi teneri anni diede esempio di edificazione alla famiglia, facendo sua delizia delle sacre immagini e degli uffici divini. Quantunque per naturale elezione Essa volesse dedicar la sua vita allo Sposo Celeste, pure le ragioni della politica persuasero il padre suo a farla sposa del conte di Motta Reale, potente signore spagnuolo, ma uomo d’efferato animo e senza timor di Dio.» Seguiva la narrazione dei rifiuti opposti da Ximena, dei lunghi pianti, del contrasto tra l’amor filiale ed il celeste; ma un giorno, essendo la fanciulla in età di quindici anni, avverossi singolare prodigio: un angelo apparve a Ximena, il quale le disse: «il Signore t’ha eletta per redimere un’anima: obbedisci.» Allora la fanciulla aveva accettato il partito.

Il secondo capitolo descriveva il castello del conte, posto sopra un luogo eminente, «a cavaliere di più strade battute dai mercatanti», e narrava le scelleratezze del suo signore. «Aggrediva i viandanti, li lasciava nudi, legati ad un albero in mezzo alla strada; oppure li menava prigioni o li spegneva tra spasimi crudeli. La sua vita era un’orgia; egli faceva oltraggio alle donne, gozzovigliava da mane a sera, bestemmiava Dio e i Santi, e si prendeva beffe dei Ministri del Cielo.» E i tormenti inflitti alla sposa erano materia del terzo capitolo. «Schernita tuttodì per le sue pratiche devote, costretta a udire gl’impuri parlari di quel malvagio e dei suoi accoliti, a vedere le loro scelleraggini, ad assistere alle loro turpitudini, Ximena facevasi usbergo sempre più saldo della sua fede, pregando ai traviati il perdono dell’Onnipotente: ma la nequizia di quel tristo suo sposo, irritata da tanta esemplare santità, offesa dalla protezione che la consorte prestava ai poveretti caduti nelle unghie di lui, mise Ximena a tal prova, che la stessa penna arrossisce in narrandola. Una sera, ebro per la gran quantità di vino tracannato, lasciò che i suoi amici penetrassero nella camera nuziale, dove Ximena riposava dopo una giornata tutta spesa nel pregare e nel fare il bene. Desta d’un tratto la meschina e atterrita dagli sguardi disonesti di quegli ubriachi, salta giù dal talamo, cadendo ai piedi d’una Sacra Imagine della SS. Vergine dell’Aiuto che teneva sempre con gran devozione al capezzale; ed ecco nuovo prodigio operarsi: s’arrestano gl’imbestialiti, quasi magico cerchio impedisca loro appressarsi alla donna: e, tornati a un tratto alla ragione, allontanansi facendo il segno della croce dinanzi alla Immagine.»

Partito un bel giorno il conte pei suoi possedimenti di Spagna, e restata sola in Sicilia la sposa, tutto s’era a un tratto mutato nel castello di Motta Reale. «Dove prima echeggiavano osceni canti, e ferri incrociati, e colpi di fuoco, e grida selvagge e lugubri lamenti, solo le laudi dell’Altissimo salirono al cielo. Quel luogo, già terrore dei viandanti, divenne ritrovo di derelitti e di infermi, attirati dalla gran fama di carità della contessa. Alloggiava dessa i pellegrini, adottava gli orfanelli, soccorreva i bisognosi, curava gli ammalati, e le sue mani stesse medicavano le piaghe e le ferite e prodigiosamente le risanavano. In quei luoghi dove tanti miseri erano caduti vittime del conte, altari e croci s’alzarono, ad espiazione degli antichi delitti, a conversione dei miscredenti. Tutte le sostanze di Ximena furono spartite alle chiese; Essa viveva vita frugale, dicendo: “Il poco mi soverchia, il molto mi spaventa.” Non contentavasi che i poveri venissero a lei ma sì andava ai poveri, sfidando le intemperie e i pericoli, protetta visibilmente dal Cielo…»

Nessuna notizia, frattanto, del conte. Che cosa faceva? Dov’era? «Una notte di tempesta, mentre guizzavano i lampi e scoppiavano i tuoni, la contessa, levatasi e destata la sua fantesca, le disse: “Va’ ad aprire, qualcuno batte.” La donna rispose: “Non battono, è il tuono.” E una seconda volta la contessa levossi e disse alla donna: “Va’ ad aprire, qualcuno batte,” e la donna rispose: “Non battono, è il vento.” E una terza volta la contessa levossi e disse alla donna: “Va’ ad aprire, qualcuno batte,” e la donna rispose: “Non battono, è la pioggia.” Ma, comandata che svegliasse i servi, la fantesca levossi anche lei, e dischiusa la porta del castello, un miserabile chiese della signora. Era costui un vecchio, lacero, scalzo, sul cui viso stavano impresse le stimmate del vizio; un terribile male che è la giusta punizione dei dissoluti aveva corroso le sue fattezze, e i suoi occhi s’erano chiusi alla luce del dì. Moriva di fame, non reggevasi in piedi, e un fanciulletto avrebbelo avuto alla propria mercé. Chi era quel vecchio?»

Era il conte di Motta Reale. «Dissipate nei bagordi e nei giuochi tutte le sue ricchezze, perduta la salute, abbandonato dagli antichi compagni di gozzoviglie, respinto da tutti per l’orrore del male che lo struggeva, egli trascinavasi di luogo in luogo, blasfemando ed imprecando; finché, tornato in Sicilia, udì della gran carità d’una donna che accoglieva e medicava qualunque infermo, anche i lebbrosi. E nel salire al castello, nel penetrarvi, i suoi morti occhi non avevano potuto riconoscere l’antico suo covo, né le sue orecchie piagate avevano potuto riconoscere la voce della consorte. Ma ben Essa avealo riconosciuto. E ristoratolo di cibo e di bevande, medicate le sue piaghe, lavati i suoi piedi, Ximena lo mise a riposare nel proprio letto… E il miserabile, che insino a qualche ora indietro avea blasfemato e disperato, sentì per la prima volta una dolcezza soave allargargli le vene, e un fuoco di gratitudine sciogliergli il cuore impetrato… Ma l’ora sua era suonata, e il Signore avea stabilito di donargli non l’effimera salute del corpo, ma sì quella dell’anima… Il vecchiardo, tra le cure della Beata, al lieve mormorìo delle preci che Essa mormorava, entrava in agonia. Ma la sua agonia non aveva nulla di terribile; anzi pareva a lui d’esser risanato del tutto, e udire musiche ineffabili, e respirare profumi soavissimi, laddove poco innanzi marciva nel lezzo e avea rotta tutta la persona… E un sorriso di contento gli schiudeva la bocca, mentre le sue labbra mormoravano: “Chi sei tu dunque che non mi respingesti e mi ridoni la vita?…” E la Beata rispose: “Guardami in viso.”