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Buch lesen: «I Vicere», Seite 20

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«Lo stesso paragone è impossibile,» disse Benedetto, conciliante.

Donna Ferdinanda alzò lentamente gli sguardi per volgerli dalla parte donde veniva la voce; ma, giunta a mezza strada, li diresse alla parte opposta, alla finestra dove don Blasco udiva dal nipote le notizie dell’accaduto.

«Dice che raggiungerà sua moglie e che poi se ne torneranno qui. È stato lo zio duca quello che ha combinato ogni cosa. Per me, facciano quel che vogliono. Ma vedrà che ricominceranno. Vorrei sbagliare, ma siamo ancora al principio…»

«Quella bestia perché ci s’è messo? Non ha abbastanza tigna in capo? Ha da ficcare dovunque il naso? Ma il perché lo so io, il perché… lo so io, il perché!…»

E stava per continuare, per vuotare il sacco, quando entrò Baldassarre, grave e dignitoso come la solennità richiedeva.

«Eccellenza,» disse al duca, «ci sono le rappresentanze delle società che chiedono d’ossequiare Vostra Eccellenza.»

Il deputato non ebbe tempo di rispondere che il barone s’alzò:

«Duca, fate pure, vi lascio libero.»

«Ma no, restate!… Un momento, e torno subito…»

«Ho qualche cosa da sbrigare anch’io; grazie!»

«Verrete almeno a pranzo con noi?»

«Grazie; parto oggi stesso; ho fissato uno straordinario.»

Fu inutile insistere; il barone opponeva un rifiuto cortese, ma freddo. Salutò tutt’in giro e andò via accompagnato dal duca che scendeva giù a ricevere i suoi elettori, mentre Raimondo s’avviava da parte sua alle proprie stanze. E i tre non erano scomparsi, che nella Sala Gialla cominciò un mormorio generale.

«Che maniera di stare in casa della gente!» esclamò donna Ferdinanda. «Non ha detto dieci parole in mezz’ora!» rincarò la cugina. «Che cosa aveva? che gli hanno fatto?» E il marchese: «Quando si è di quell’umore non si va in casa delle persone!…» «E come faceva il sostenuto!» aggiunse sua moglie.

Benedetto Giulente, dal suo posto, osservò:

«Quella partenza pare un pretesto… per rifiutare…»

Allora, senza rivolgersi al giovanotto, ma quasi rispondendo all’idea da lui annunziata, don Blasco tonò:

«La bestia, l’imbecille e il buffone in questo caso è chi invita!»

Benedetto, quantunque il monaco non lo guardasse, fece col capo un gesto tra d’assenso a ciò che quegli diceva, tra di scusa per l’insistenza del duca.

«Pareva concedesse una grazia speciale, onorandoci della sua presenza!» continuava frattanto donna Ferdinanda. «Come se non si fosse trattato d’interessi suoi! Come se la colpa di ciò che è successo non fosse sua! E quella bestia che lo prega per giunta e che gli dà ragione! Per renderlo più presuntuoso ed arrogante!…»

Benedetto, che le stava seduto quasi di faccia, badava a chinare il capo con un gesto continuo ed eguale, come un automa, e poiché la cugina cicalava piano con Chiara, e don Blasco, tirato pel bottone del soprabito il marchese, sfogava con lui, e il principe se ne stava quatto quatto, e la principessa più quatta di lui, quel gesto d’assenso e d’approvazione attirò alla lunga gli sguardi della zitellona.

«Mentre la ragione sta dalla parte di Raimondo,» continuava ella, «che giustamente non vuole lo spionaggio in casa, che non può tollerare la continua ingerenza del suocero in tutti i piccoli affari di casa propria…»

Vedendosi guardato due o tre volte, Benedetto, mentre continuava ad approvare col capo, confermò:

«Il barone ha veramente un carattere troppo difficile…»

Donna Ferdinanda non gli rispose, anche perché in quel momento il marchese s’alzava, e Chiara con lui; ma, andando via insieme coi nipoti, fece un breve cenno del capo per rispondere al nuovo e più profondo e più rispettoso saluto del giovanotto.

Intanto il duca, giù nell’amministrazione, riceveva i delegati dei sodalizi e una gran quantità di elettori influenti e una vera processione d’ammiratori di ogni condizione che venivano a fargli atto di omaggio. La stessa scena della sera prima, ma più grandiosa; a poco a poco tutta la città sfilava dinanzi al deputato; per due persone che andavano via, quattro ne sopravvenivano; e non essendoci più posto da sedere, tutti restavano in piedi, coi cappelli in mano, aspettando i saluti che il duca veniva distribuendo in giro. Alcuni oratori improvvisati, persone che egli non conosceva neppure, parlavano a nome dei compagni, affermavano in risposta alle sue espressioni di modestia che il paese non avrebbe mai dimenticato ciò che doveva al signor duca. Tutti gli altri, a bocca aperta, badavano a raccogliere religiosamente le parole dell’Onorevole; il quale, cessati i complimenti, ragionava della cosa pubblica, prometteva la Venezia, aveva Roma in tasca, assicurava insieme col politico il risorgimento morale, agricolo, industriale e commerciale del paese. «Questo era il programma di Cavour. Che testa! Ragionava della Sicilia come se ci fosse nato; sapeva il prezzo dei nostri frumenti e dei nostri zolfi meglio di un sensale di piazza…» Il governo gli aveva promesso una quantità di provvedimenti per l’isola, giacché bisognava pensare a tutto: dall’educazione della gioventù al lavoro per gli operai. A poco alla volta, con la concordia e la pace, la prosperità pubblica e privata sarebbe stata raggiunta. Egli la faceva quasi toccar con mano, e le persone venute per sapere che ne era delle loro domande d’un posticino, o d’un sussidio, o d’una pensione, andavano via portandolo alle stelle come se avesse colmato loro le tasche, spargendo per la città la nuova della riconciliazione avvenuta tra il conte e sua moglie: opera e merito del duca, il quale aveva fatto il sacrificio di lasciar la capitale in un momento come quello per indurre il nipote alla ragione. Non s’udivano se non esclamazioni di lode all’indirizzo del deputato; dal cortile del palazzo al Gabinetto di lettura, tutti ad una voce giudicavano che in questa occasione egli aveva fatto opera buona e doverosa; solamente don Blasco, nella farmacia borbonica, gridava come un ossesso:

«Ah, gli credete?… Perché credete che l’ha fatto? Per dar soddisfazione alla canaglia! Perché si dica che difende la morale!… E per un’altra ragione ancora…per ingraziarsi quell’altro cialtrone amico dei mangiapolenta!… Il sonatore dei miei sonagli!… Il barone con sette paia di effe…»

2

Quando la contessa Matilde tornò, dopo due anni di lontananza, tra i parenti del marito, essi medesimi, alla prima, non la riconobbero. Se era stata sempre pallida e magra, adesso era scialba e scarnita; il petto le si affondava come se qualche male lento e spietato la rodesse, le spalle le s’incurvavano come per il peso degli anni, e gli occhi incavati, accerchiati di livido, lucenti di febbre, dicevano lo strazio di un pensiero cocente, d’una cura affannosa, d’una paura mortale.

«Povera Matilde! Sei stata male?» le domandò la principessa, a dispetto delle ingiunzioni del marito, il quale le proibiva di avere opinioni.

«Un poco…» rispose la cognata, scrollando il capo, con un sorriso dolce e triste. «Adesso è passato…»

Infatti, ella si sentiva rinascere. Suo padre non aveva voluto né accompagnarla in quella casa, né permetterle di condurvi le bambine; eppure, dimenticando quanto vi aveva sofferto, ella vi entrava con un senso di sollievo e quasi di fiducia. La tempesta recente era stata così forte e dura, che ella pensava anzi con un senso di rammarico al tempo degli antichi dolori; li aveva giudicati intollerabili e non sapeva di quanto sarebbero cresciuti, a poco a poco, ma costantemente, fino a contenderle la stessa speranza d’un qualunque ritorno alla pace. Come le si era chiuso il cuore ai primi disinganni, nel vedere che l’amor suo non bastava a Raimondo, che egli pensava diversamente da lei, che faceva consistere la felicità in cose senza valore per lei! Eppure egli non l’aveva tradita, allora! Ma erano venuti i tradimenti, ed ella li aveva perdonati poiché tutti gli uomini ne commettono, le dicevano; poiché ella soltanto ne soffriva, silenziosamente, in fondo all’anima. Che cosa avrebbe potuto fare, del resto? Che aveva potuto fare dinanzi al pericolo più grave, alla minaccia terribile? Lasciarlo? Egli stesso l’aveva abbandonata!… Quando ella ripensava a quei due anni trascorsi in Toscana, a tutto ciò che aveva sofferto vedendo prepararsi e non potendo impedire l’ultima rovina, ella provava veramente come un bisogno di inginocchiarsi e di ringraziare il Signore, tanto miracoloso le pareva il ravvedimento di Raimondo. Poteva adesso sperare che durasse? Quante volte egli non era parso rinsavito, ed aveva poi fatto peggio? Due anni addietro, prima che scoppiasse lo scandalo in casa di Fersa, ella non aveva creduto che tutto fosse finito per lei? Alla notizia che quella donna era stata scacciata dalla suocera, ella aveva compreso la commedia della rottura rappresentata da lei e da Raimondo, e preveduto con lucidità straordinaria quel che poi era accaduto… Nondimeno, la partenza pel continente l’aveva illusa ancora una volta; la lontananza, il tempo, gli svaghi mondani dei quali era sempre avido, non avrebbero distrutto nel cuore di Raimondo il ricordo di quell’altra? Ma colei doveva aver giurato di rubarglielo, ad ogni costo, se lo aveva raggiunto a Firenze, se erasi mostrata a lui da lontano, da vicino, per le vie, in società, tentandolo ovunque, dinanzi a lei stessa! Ella non accusava più Raimondo, non sospettava che fosse d’intesa con quell’altra, che avesse finto di fuggirla per ritrovarla più sicuramente. I suoi sospetti, le sue accuse gelose cadevano su quella donna soltanto, a Raimondo ella non rivolgeva se non preghiere indulgenti, l’umile scongiuro di evitarle nuovi dolori. Egli s’infuriava, negava come altre volte, la incolpava di volergli creare imbarazzi e pericoli, la riduceva al silenzio con le tristi parole che ancora le risonavano all’orecchio: «Quella donna è l’ultimo dei miei pensieri; ma se non la finite di vessarmi, farò qualche pazzia, vedrete!» Ella non sapeva ancora fino a qual punto fosse sincero…

Il capriccio di Raimondo per donna Isabella, in verità, s’era sedato appena soddisfatto; il chiasso della separazione, la paura di trovarsi qualche grossa responsabilità materiale sulle spalle, avevano gettato molt’acqua sul fuoco dei suoi desideri. A Firenze, dove s’eran dato convegno, aveva deliberato di spezzare in un modo qualunque la catena da cui si sentiva avvincere, poiché egli aspirava alla vita allegra e varia, libera, principalmente. Ma, per la notizia del dramma domestico di cui era stato l’eroe, egli si vide posto più in alto nella stima degli scapati amici di Toscana, del cui giudizio faceva più conto che d’ogni altra cosa; la conquista d’una signora autentica come la Fersa gli procurava i sorrisi di compiacimento un po’ invidiosi dei rompicolli che prendeva a modello. E donna Isabella gli divenne pertanto meno indifferente; ma la gelosia della moglie finì di stringere quel vincolo nel punto che egli stava per giudicarlo increscioso. Tutte le volte che Matilde gli rivolgeva una supplichevole rimostranza, egli credeva suo dovere, come per una specie di compenso, di fare maggiori dimostrazioni di affetto all’amica; più sommessamente sua moglie lo pregava di non trascurarla, più smaniosamente egli andava via di casa. Ella sapeva com’era fatto, com’era intollerante di ogni ostacolo, d’ogni contrasto, delle stesse osservazioni; ma poteva forse tacere, fingere d’ignorare quel che avveniva? Poteva soffrire, senza neanche piangere, ch’egli la lasciasse sola, lunghi giorni, lunghissime notti, che trascurasse le sue figlie per andarsene con quell’altra, per mostrarsi pubblicamente in compagnia di lei, per condurre i propri amici nella casa di lei come in un’altra casa sua propria?… E il giorno che s’era sfogata non contro di lui, ma contro quell’altra, Raimondo le aveva ingiunto di tacere, con la voce grossa, con gli sguardi cattivi, alzando la mano… Quella triste scena era avvenuta la vigilia del giorno che suo padre, diretto a Torino, doveva passare da Firenze. Il terrore di spingere l’uno contro l’altro quei due uomini l’aveva costretta a tacere; e poiché suo padre, ricominciando a sospettare di Raimondo, aveva mutato a un tratto, con la violenza abituale, l’antica affezione verso il genero in freddezza diffidente e vigile, ella aveva dovuto bere le proprie lacrime, cancellarne le tracce, mostrarsi allegra, per impedire che quei due si scagliassero l’uno contro l’altro. Così ella s’era consunta, soffrendo in silenzio, inghiottendo amaro sopra amaro, invocando dal Signore tanta forza da poter continuare a fingere, a illudersi, a credere che nessun serio pericolo la minacciasse.

Ma era già troppo tardi. Tutto ciò che, nella sua gelosia, la moglie gli veniva dicendo contro l’amante, spingeva Raimondo sempre più nelle braccia di quest’ultima; poiché Matilde gliene parlava male, voleva dire che era invece la prima delle donne. Quest’idea si conficcava tanto più saldamente nella sua testa, quanto che donna Isabella, da suo canto, non gli diceva mezza parola contro la contessa; e si lagnava appena, discretamente, dell’odio che si vedeva portato. «Quando m’incontra, mi volta le spalle… Sparla di me… Che cosa le ho fatto?» Oppure gli proponeva di rompere e di lasciarsi, si offeriva in sacrifizi per assicurargli la pace della famiglia: «Non t’inquietare di me!… Me ne andrò, vivrò sola, come vorrà Dio… Andrò a buttarmi ai piedi di mio marito; forse mi perdonerà…» Allora, di rimando, egli s’ostinava a far cose che ella stessa non avrebbe volute; se prima non aveva nascosto quell’amicizia, ora l’ostentava; se prima stava poco in casa, adesso restava settimane intere senza metterci piede, senza veder le sue figlie; ed al teatro prendeva posto nel palco dell’amica, dal principio alla fine dello spettacolo; ed al passeggio, se era con amici, non rispondeva al saluto di sua moglie, quando s’incontravano: mentre la contessa lacrimava in fondo alla sua carrozza, egli andava a piantarsi allo sportello di quella di Isabella.

A Livorno, in principio dell’estate, lo scandalo era cresciuto talmente, che alcuni buoni amici di Raimondo, il conte Rossi fra gli altri, suo padrone di casa, l’avevano consigliato d’esser meno imprudente. Matilde, il cui cuore sanguinava da tanto tempo, fu in quei giorni straziata da un altro dolore: Lauretta, che era sempre cagionevole, appena lasciato Firenze cadde inferma. Una notte che la sua bambina vaneggiava, in preda alla febbre, ella restò in piedi fino all’alba, vegliandola, impaurita dal rapido aggravarsi del male, aspettando ansiosamente il ritorno di Raimondo. A giorno, egli rincasò. Doveva esser ebbro. Solo perché, rotta dal dolore e dalla fatica, turbata fieramente dalla malattia della bambina, atterrita dal pericolo che la povera creatura correva, ella osò dirgli: «Ma che vita è la tua!…» egli le piantò in viso gli occhi foschi, strinse il pugno ed uscì in una sconcia bestemmia… Che disse poi? Che fece? Ella non sapeva. Rammentava soltanto che, riavutasi dallo stordimento, Stefana, la sua cameriera, le aveva detto che il padrone era andato via, con lo stesso abito di società col quale era rientrato, portandosi soltanto una sacca, dove aveva buttato pochi effetti alla lesta; rammentava d’essersi sentita struggere, non potendo corrergli dietro, non potendo lasciare la sua poveretta agonizzante; d’aver mandato Stefana a Firenze, credendo che egli se ne fosse tornato lì; d’aver saputo il giorno seguente che, cercato rifugio in un albergo della stessa Livorno, egli s’era imbarcato per la Sicilia…

Il barone arrivò da Torino come un fulmine, prima che ella gli avesse dato notizia dell’accaduto. Allora un altro tormento s’aggiunse ai tanti che la straziavano. Il rancore di suo padre contro il genero scoppiò a un tratto, terribile. «È andato via? Meglio così!» aveva detto nel primo momento; ma poiché ella si scioglieva in lacrime, non sapendo come fare, vedendo distrutta la propria esistenza, un violento moto di collera gli cacciò tutto il sangue alla testa: «E lo piangi, anche?… Lo vorresti difendere?… Saresti capace di corrergli dietro?…» Impaurita, giungendo le mani per disarmarlo, ella addusse, tra i singhiozzi: «E le mie figlie?… Le mie orfanelle?…» Ma con impeto più selvaggio, egli proruppe: «Ah, il suo amor paterno?… Il bene che ha voluto alle sue creature?… Il sangue avvelenato a quella innocente?…» e con un fiotto di parole crude, minacciose, frementi, le disse la vita indegna di lui, ciò che ella non sapeva ancora, ciò che egli stesso non aveva saputo per tanto tempo, addormentato dalla vanità, dal folle orgoglio d’essersi imparentato con uno dei Viceré. «Vuoi dunque pregarlo per giunta?… Vuoi ch’io vada a chiedergli scusa per te, per me, per quelle innocenti?… Non ti basta, sciocca che sei, l’esperienza di dieci anni?… Vuoi ricominciare a tremargli dinanzi?… Credi ch’io non sappia quel che hai sofferto?…» E come ella scrollava le spalle, rabbrividendo, egli gridò: «Non te ne importa?… Saresti capace di volergli bene ancora?…»

Sì, era vero. Ella non piangeva per l’avvenire delle sue bambine, non si sdegnava al ricordo delle proprie torture; se le aveva patite in silenzio, se aveva accusato soltanto la rivale, se non aveva mai trovato una parola di rimprovero per Raimondo, l’unica ragione consisteva nel bene che gli portava… «Dopo quel che t’ha fatto?… Non hai dunque capito che non l’ha mai ricambiato, il tuo bene? Che non chiede di meglio se non sbarazzarsi di te?… Sciocca che sei, gli vuoi dunque il bene del cane che lecca la mano che lo ha battuto?…» Sì, sì, così! il bene del cane per il padrone, la devozione d’uno schiavo per l’essere di un’altra razza, più forte, più alta, più rara. Sì, la sommessione del cane per il padrone; poiché, anche dopo l’onta estrema che le aveva inflitto, nonostante la rivelazione brutale, nonostante il legittimo sdegno del padre, ella pensava di non poter vivere lontana da Raimondo, di non poterlo lasciare a quell’altra…

Passarono così per lei lunghi, eterni giorni d’intima ambascia; il barone la trattava con ostentata freddezza, pareva non accorgersi delle sue lacrime; ella nondimeno aspettava, affrettava coi voti più ardenti qualcosa: non il ritorno di Raimondo, che sarebbe stato una gioia troppo grande, ma una sua lettera, almeno, di pentimento, o l’intromissione di qualcuno dei suoi… La bambina s’era rimessa; ai piedi della Madonna ella implorava il perdono d’un pensiero abominevole; se Lauretta fosse ricaduta, avrebbero potuto chiamarlo…

S’ammalò invece ella stessa. Vedendola piangere anche nella febbre, il barone proruppe, col tono acre che prendeva cedendo: «Non vuoi dunque finirla? Bisogna anche dargli questa soddisfazione, di pregarlo per giunta? Bada però!…» soggiunse con voce minacciosa: «Dal giorno che tornerete insieme, fa’ conto che io non ci sia più!… Scegli tra noi due: non t’imaginare che io possa aver più nulla di comune con lui!…» Povero babbo! Burbero, rigido, violento con tutti, egli aveva sempre ceduto dinanzi alle sue figlie, studiandosi di fare la voce grossa, mettendo patti che la violenza del carattere gli dettava, ma che l’inesauribile bontà del cuore non gli permetteva, alla lunga, di mantenere. Scrisse così al duca, andò insieme con lui a raggiungere Raimondo dopo averla accompagnata a Milazzo, e glielo ricondusse.

Non v’era stata, tra lei e suo marito, neppure una parola relativa al passato; nell’atto che egli le tornava vicino, avrebbe ella potuto rammentargli i suoi torti? Da parte sua egli non le chiese perdono, non le disse una buona parola; le venne incontro indifferente come se l’avesse lasciata il giorno innanzi. Né ella sperava più di questo. Il suo bel sogno d’amore e di felicità s’era a poco a poco, di giorno in giorno, dileguato: adesso, rassegnata alle tristezze della realtà, ella non chiedeva altro che quiete. Purché Raimondo volesse bene alle sue creature, purché non le abbandonasse un’altra volta, ella era disposta a sopportare ogni cosa…

In casa del principe, adesso, dov’eran venuti pel matrimonio di Lucrezia, lasciando a Milazzo le bambine, i parenti di lui la trattavano meglio. La sposa, che pareva non capire nei panni per l’imminenza del matrimonio, le prodigava dimostrazioni d’affetto, non si lasciava giudicare da nessuno fuorché da lei nella scelta degli abiti e degli ultimi oggetti del corredo; la principessa, sempre timida e mite, le dimostrava più di prima la propria simpatia; quanto a don Blasco e a donna Ferdinanda, che avevano ripreso a venire tutti i giorni al palazzo, parevano anch’essi un poco placati, perché invece di punzecchiarla non le badavano affatto. Che le importava! Erano così; bisognava prenderli com’erano. Purché Raimondo non la lasciasse un’altra volta! purché quei giorni tremendi dell’abbandono non ritornassero! Quasi quasi ella rassegnavasi alla lontananza delle sue bambine!… La compagnia della nipotina Teresa gliela rendeva più tollerabile. Come somigliava a Teresa sua, la figlia del principe! La stessa bellezza fine e bionda, la stessa grazia, la stessa dolcezza della voce e dello sguardo. Anche i caratteri, in fondo, si rassomigliavano, quantunque la sua bambina dimostrasse una vivacità quasi irrequieta, mentre la cuginetta era più tranquilla ed obbediente. Ma quanta parte non aveva in questo risultato l’autorità del padre? Mentre Raimondo non si curava di sua figlia, la vigilanza di Giacomo pesava fin troppo sulla principessina; egli l’educava a mortificare i suoi desideri, a reprimere le sue volontà; la faceva restare intere giornate tra le monache di San Placido perché s’avvezzasse all’obbedienza e alla disciplina monastica. Povera piccina! Tutte le volte che la mettevano nella ruota per farla passare dentro alla badìa, oltre il muro impenetrabile che segregava le suore dal mondo, tendeva le braccia alla sua mamma ed alle zie con un senso di paura negli occhi spalancati; ma la principessa che aveva gli ordini del marito, pel quale la bambina era una specie di muta ambasciatrice incaricata di sedare il malcontento della Badessa e della sorella Crocifissa, persuadeva la figlia a star buona, a non temere, e la piccina diceva di sì, di sì, mandando baci alla sua mamma mentre la ruota girava, la chiudeva nello spessore del muro, la passava dall’altra parte, nello stanzone freddo e grigio con un grande Cristo nero e sanguinante che prendeva un’intera parete. La mamma, le monache, tutte e tutti lodavano la saggezza di cui dava prova; per meritare quelle lodi, per non dispiacere al suo babbo, ella faceva quel che volevano. La contessa giudicava che, in fondo, nonostante l’apparente vivacità, anche Teresa sua era buona e dolce. Lauretta non era più tranquilla e ubbidiente della stessa cugina? E pensando ai suoi cari angioletti, ella affrettava col desiderio il matrimonio di Lucrezia, poiché dopo li avrebbe raggiunti.

Tutto era pronto. Nella casa degli sposi, un quartiere adiacente a quello di don Paolo Giulente, ma separato, finivano di dare l’ultima mano alla sistemazione dei mobili; le cose erano fatte larghissimamente e con molto gusto. Il notaio di famiglia aveva già steso, in base alla transazione e sotto la dettatura del principe, i capitoli matrimoniali; Benedetto, per ingraziarsi il cognato, l’aveva lasciato fare, s’era contentato di cinquemila onze, pel momento, invece di ottomila, poiché il principe gli diceva di non aver pronta tutta la somma. A poco a poco, dal primo incontro col monaco e con la zitellona, egli era riuscito a farsi badare ogni giorno di più da quei due, continuando a chinare il capo come un burattino a tutto ciò che dicevano. Articolo politica, don Blasco e la sorella erano più arrabbiati di prima, vuotavano il sacco degli oltraggi e delle contumelie contro i liberali; e allora il giovanotto fingeva di non udire, si voltava dall’altra parte, lasciando che sfogassero, quasi quell’onda di male parole non si rovesciasse anche su lui; ma in tutte le altre circostanze, nel corso di ogni discussione, si schierava dalla loro parte, dava loro ragione ad ogni costo, in busca d’uno sguardo, d’un saluto, d’una parola. Giusto in quel torno, un debitore di donna Ferdinanda, un certo Calafoti, aveva dichiarato fallimento dando a intendere che la sua proprietà era parte venduta e parte ipotecata. La zitellona strillava come una gallina spennata viva contro quel ladro, contro il sensale che le aveva proposto l’affare, contro il principe di Roccasciano che lo aveva approvato; ma Benedetto, udito di che si trattava:

«Questo Calafoti lo conosco,» disse; «se Vostra Eccellenza vuole, io gli potrei parlare. Gli atti che adduce sono tutti nulli; con la minaccia di impugnarli lo faremo rigar diritto.»

Ella non si fece pregare per dargli il permesso richiestole; e dopo una settimana di corse e di trattative Benedetto le ottenne la cessione d’un’ipoteca privilegiata. In ricambio, donna Ferdinanda non venne al palazzo il giorno del matrimonio. Non ci venne neppure don Blasco. Gli affari, va bene; i discorsi, pure; ma approvare, con la loro presenza, l’alleanza d’un’Uzeda con l’affocato Giulente, questo poi no. Tranne di loro due, del resto, non mancò nessun altro della parentela, né al Municipio, la mattina, né alla cattedrale, la sera.

La marchesa Chiara accompagnò lo sposalizio per ogni dove. Era uscita di conti, ma seguitava ad andare su e giù e non aveva voluto chiamare nessuno. La sera degli sponsali, stanca del continuo andirivieni, ella s’era buttata a sedere, ansando, sopra una poltrona, accanto a donna Eleonora Giulente. Forse era la grande stanchezza, ma si sentiva veramente poco bene, provava sordi dolori e acute trafitture. Coi gomiti appuntati ai bracciali per tener libero ed erto il ventre, ella stringeva un poco le labbra ad ognuna di quelle rapide fitte, ma come il marito veniva tratto tratto a domandarle premurosamente che avesse:

«Nulla!» rispondeva; «sto benissimo,» perché non chiamassero la gente dell’arte.

Alzatasi, fece il giro delle sale. C’era una gran quantità d’invitati, tutta la parentela, tutta la nobiltà, e poi i nuovi amici del duca, le autorità, il sindaco, il prefetto che egli aveva voluti per dare risalto al carattere liberale dell’alleanza. E mentre la nobiltà borbonica se ne stava accrocchiata nel salone o nelle Sale Rossa e Gialla, il deputato teneva un circolo democratico nella Galleria dei ritratti, ricevendo i complimenti per quel bel matrimonio che era opera sua, discutendo degli affari pubblici. Don Paolo Giulente, poiché nelle sale nobili non trovava da appiccar discorso, se n’era venuto ad ascoltarlo, a bocca aperta, non capendo nella pelle dal piacere d’essere diventato parente del grand’uomo. Suo fratello don Lorenzo portava a spasso, per la circostanza, la cravatta verde di commendatore che l’amico deputato gli aveva fatto concedere dal governo di Torino insieme con certi grossi appalti: delle poste, dei trasporti militari. Anche una buona quantità dei postulanti spiccioli cominciavano a vedersi esauditi; l’onorevole aveva fatto accordare impieghi, sussidi, croci di San Maurizio ai patriotti del Quarantotto e del Sessanta, e riconoscere il diritto alla pensione dei vecchi impiegati della rivoluzione siciliana, e ammettere nell’esercito regolare i volontari garibaldini, e spingere la causa dei danneggiati dalle truppe borboniche i quali presentavano la nota del loro amor di patria; talché tutti quei suoi clienti soddisfatti o prossimi ad essere soddisfatti lo ascoltavano come un oracolo, superbi d’averlo amico e d’essere ammessi nella casa dei Viceré, di vedersi serviti dai camerieri con le livree fiammanti.

Baldassarre, in gran tenuta, girava alla testa della processione dei camerieri che reggevano i vassoi pieni di gelati, di spumoni, di gramolate e di dolci, e serviva la Galleria dopo le sale, ma con la stessa etichetta, seguendo l’esempio del principe che faceva a tutti lo stesso inchino; quantunque, per dire il fatto della verità, intorno a Sua Eccellenza il duca ci fossero certi tipi che non si sapeva di dove sbucassero: se prendevano il piattello del gelato, buttavano a terra il cucchiaino, o si rovesciavano addosso la gramolata tracannandola quasi fosse acqua fresca, o prendevano i dolci a manate come se non ne avessero mangiato mai prima di quella sera. E i Viceré che guardavano dall’alto delle pareti! Basta: a lui toccava eseguire gli ordini dei padroni!

Giusto la cugina Graziella, appartata in un crocchio con la duchessa Radalì e la principessa di Roccasciano, diceva al principino che, straordinariamente, per la circostanza del matrimonio della zia, aveva ottenuto il permesso di restar fuori la sera:

«Questo qui lo accaseremo noi, a suo tempo! Avremo da sceglier noi chi dovrà sposare!»

Non sapeva in qual modo significare alla Giulente che quel matrimonio si faceva per forza, contro il piacere della maggioranza della famiglia. Ma donna Eleonora non s’accorgeva di niente: seduta accanto alla principessa e alla contessa Matilde, sorrideva di beatitudine al passaggio degli sposi, in volto ai quali, specialmente a Lucrezia, leggevasi la gioia del trionfo. Del resto, se donna Ferdinanda e la cugina le facevano il viso dell’arme, la principessa le usava molte cortesie, la contessa Matilde prendeva parte alla sua felicità di madre; la stessa Chiara veniva a gettarsi nuovamente accanto a lei.

«Siete stanca, marchesa?»

«Io? No! Sto benissimo.» Le trafitture spesseggiavano, quasi le toglievano il respiro: ella sarebbe stata felice di partorire lì, su quel divano.

Ferdinando, infagottato nell’abito di società che metteva per la seconda volta in vita sua, girava attorno come un’anima in pena, non conoscendo nessuno, da tanti anni che faceva la vita del Robinson. Era venuto per far da testimonio alla sorella diletta ed aveva fretta che la cerimonia finisse presto per tornare alle Ghiande.

Quando Dio volle, il corteo, sceso giù per la scala d’onore e distribuito nelle carrozze, s’avviò alla cattedrale. La funzione celebrossi nella cappella privata del Vescovo, da Monsignore in persona: tutti gl’invitati con le torce in mano, gli sposi dinanzi all’altare sfolgorante e olezzante, donna Eleonora Giulente che piangeva come una fontana. «Una cosa commovente,» diceva piano il duca al prefetto che gli stava a fianco. A un tratto vi fu un rimescolìo: Chiara, non potendone più, s’era lasciata cadere sopra uno sgabello. Tutti la circondarono, ma ella li rassicurava con un sorriso: sorrideva perfino Monsignore, sapendola in istato interessante. Il marchese la trascinò in carrozza, mentre il resto della comitiva andava in casa dei Giulente, dove le cose eran fatte forse con più sontuosità che dal principe; un rinfresco che non finiva mai, i gelati che squagliavano nei vassoi per mancanza di consumatori; e finalmente gli sposi si misero in carrozza e se ne andarono al Belvedere.